Lettere dal "Borgo della Pace" |
Alzate il capo
All’aurora sono uscito dalla porta di casa e alzando gli occhi al cielo ho sentito il cosmo palpitare. E’ il tempo delle attese. E’ il tempo delle nascite. Questo cosmo così gravido è il grembo di Dio. Alziamo il capo, nasce un nuovo mondo. E’ il tempo delle donne. E’ il tempo delle nascite. Sono seduto accanto a ogni partoriente. Dopo tanta attesa, ecco vedo nascere la giustizia. Dopo tanto patire, ecco vedo nascere il mondo, dove scorre latte e miele. Ti sono accanto, donna dell’utopia. Nel tuo seno abbiamo seminato tutti noi. Abbiamo seminato la speranza. Abbiamo seminato la pazienza. Abbiamo seminato ogni sospiro d’uomo, ogni aurora di popolo, ogni attesa di gente. Quanto tempo per partorire. Quanta pazienza nel soffrire un parto che non è per te ma per tutti noi. Eppure ho scoperto che il tempo del dolore, ora mi manca. Forse non è una gioia il tempo dell’attesa. Ho atteso che mi convertissi. Ho cantato novene della luce. Ho contemplato i prati del dolore. Il tempo della gestazione è lungo secoli di amore. Ecco, dalle radice di ogni uomo nasce la bellezza. Ecco, dalle linfe delle lacrime nascono i poemi della giustizia e dell’amore. Ecco, dalle labbra della preghiera sorgono i canti della liberazione. Sono seduto accanto a ogni partoriente. Ti sono accanto, donna della sapienza. Oggi stai partorendo il poema che osanna le vie della scienza. Ecco, ti sono accanto, donna dell’orizzonte e già scruti vicino cieli nuovi e terra nuova. Nell’oceano delle speranze abbiamo tutti noi fluito cascate di progetti, fiumi di volontà, torrenti di idee. Ti sono accanto, donna del perdono. Sul monte della croce non tutti vogliono o possono salire e tu sei lassù ad accogliere chi senza sapere, cadendo, sale su, sull’aurora della gioia. Tutti noi abbiamo arato solchi di dolori. Tutti noi abbiamo pianto gelidi inverni, chiusi di speranza. Tutti noi abbiamo scavato fosse per piantare radici di speranze. Mai fosse per seppellire chi uccidiamo. Ti sono accanto, donna dell’universo che, fuggendo Betlemme, hai aperto le vie del mondo a tutta l’umanità. Ti sono accanto, donna di ogni uomo, chiamato in guerra. Tutti noi abbiamo deposto le armi, bruciandole nel fuoco ardente della pace. Tutti noi abbiamo coperto il viso dinanzi a Hiroshima e Kawasaki. Ti sono accanto, donna del Dio vivente. Tutti noi, tutti i secoli, tutti gli universi, abbiamo atteso il Dio con noi. Ecco il cosmo partorisce Colui che l’ha creato. Non mollare. Lo puoi vedere anche tu. Siamo sempre in tempo a sperare. Guarda il gabbiano come plana nella tempesta. Il male non può far crepare lo spirito. No, non è la legge! No, non è la legge ma lo spirito ci veste di libertà. Vivere una vita piena. Non dobbiamo mollare finché non ci vestiamo di libertà. Le radici profonde di un albero, nel ventre della terra, germogliano fiori in cielo. IL primo sintomo della libertà è l’emarginazione, l’isolamento. Ti sono accanto, donna del coraggio, donna che partorisci il coraggio. Coraggio, amici! Alzate in alto lo sguardo in questa stalla vuota della società. Su, coraggio, in alto lo sguardo di fede. In alto per superare le tempesta della nostra società. Alzate il capo, oltre le barriere delle onde anomali del male. Coraggio, giovani, alzate il capo. La terra ci ha riservato giorni e aurore di pace. Ho sete di felicità. Abbiate sete di felicità. Non bevete a cisterne screpolate. Non bevete a fontane inquinate. Consacrate il vostro cuore giovane alla speranza di un mondo a misura d’uomo, a misura di cielo. Consacrate la vostra mente all’utopia della fratellanza, all’utopia del vero amore, all’utopia del rispetto di ogni fede del mondo. Cercate le utopie che fanno crescere l’umanità nella bellezza di ogni popolo. Alzate il capo! Guardate oltre, con occhi trasparenti del vostro presente che svelano già il futuro di volti giusti, di volti sereni, di volti consacrati al Bene Comune. Alzate gli occhi. Siate puri di mente, trasparenti di spirito. Alzate il capo. Cominciate a entrare negli occhi della gente. Chi entra negli occhi dell’altro, è già nel suo paradiso. Alzate gli occhi! In voi abita l’angelo che vi annuncia che siete nel grembo di Dio e che è vicina la vostra nascita nel cuore dell’eternità. Il tempo sposa l’eternità per rendere immortale ogni uomo. Non è più Dio che nasce in una stalla. Non più una stella nella stalla. L’uomo nasce in Dio. Si, cari giovani, Gesù Cristo è nato una volta per sempre nella storia. Ora tocca a te, nascere in Dio. Ecco il nostro coraggio. Osiamo nascere in Dio, ogni volta che nasce in noi la bontà. Nasci in Dio, ogni volta che concepisci la giustizia. Nasci in Dio, ogni volta che partorisci il perdono in questi giorni tristi di amore. Nasci in Dio, ogni volta che osi amare il tuo nemico, colui che ti ha fatto tanto, tanto male. Alzate il capo. Screpoliamo i tabù della fede. Tu, caro giovane, hai nei tuoi occhi l’eredità della vita, l’eredità dell’amore del cielo. Anche la polvere dei tuoi piedi, è stata fresco respiro di una giovinetta. Alza gli occhi, l’intelligenza chiusa ti smarrisce nel vuoto. Noi non siamo vuoti o nudi di Dio. Ogni tuo sguardo è un capolavoro di sapienza e di letizia. In tutti noi, nelle nostre mani, nei nostri cuori, nel nostro petto, nelle nostre vene, sul nostro volto è scritta tutta la bibbia della storia, tutta la rivelazione che Dio ha firmato sul nostro corpo. Tutti noi siamo la soave firma di Dio. Tutti noi siamo in manus tuas, Domine. Amico,Tu sei la Firma di Dio, Capolavoro del Dio partoriente.
Paolo Turturro
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Il cuore in una stalla
La stalla è vuota. In una stalla vuota, uno sguardo di fede. Sotto il cielo dei sogni vivevo già nel dopo. Stavo nell’infinito dei miei pensieri. Già operavo nell’infinito. Già camminavo in una salvezza al giorno. Trovavo sempre la via per ascoltare il cuore. Il vangelo di Luca con tutta l’infanzia di Dio, era la mia libertà a vista. C’è sempre un’ancora tra gli scogli circondati da onde impetuose. Io ero in uno scoglio di silenzio e di isolamento. Ero malato e potevo infettare gli altri. Tuttavia leggevo le sue pagine con il capo coperto per rispetto della divinità, come gli ebrei. Anche un soffio è aria aperta. Anche un raggio nel buio del letamaio è aria aperta. Io leggevo il sogno di Giuseppe e non mi scoprivo il capo dinanzi ai suoi dubbi, come fanno i cristiani dinanzi al vangelo. Nel battesimo mi sono circonciso di cielo e per questo non mi tengo il prepuzio del tempo. Il vento a volte è insolente. Mi sfoglia le pagine di Luca per non giungere a Dio. Io lasciavo ugualmente aperto il libro. Dio parla anche senza che tu legga. A che serve avere un libro aperto senza leggere un rigo? Mi accorgo troppo tardi che il vangelo è un libro di preghiere e che io nel mio dolore non riuscivo a pregare. Allora lasciavo aperto quei salmi, quel canto del Magnificat di Maria, quel Benedetto di Zaccaria, quel tuo sogno Giuseppe, affinché essi stessi, da soli, potessero salire al cielo, dalla stalla di questo mio cuore. Non mi sono attaccato alla fede, come fanno tante persone per allontanare scongiuri e rovine. Non mi attacco alla vita con le superstizioni. Io so che i miei giorni sono la firma di Dio nel mio corpo. Non scrivo la mia fede come il nero nel vuoto. Non scendo nel labirinto della fede per perdermi senza Dio. Sono aperte le tue pagine, Giuseppe. Ecco l’annuncio, per primo a te. Ecco l’annuncio. Giuseppe. Sono sempre gli uomini a scoprire il concepimento, prima delle loro mogli. Me la gioco tutta questa tua pagina. Per me è così da tanti anni. Scommetto che in questa pagina del tuo angelo, c’è l’annuncio anche per me, uomo ancora delle caverne. Nell’annuncio della santità per ogni uomo, non sono nello sbaraglio a scontare la mia leggerezza nelle battaglie della vita. Non sono stato un fesso nella lotta. Non sono fuggito dinanzi alla battaglia del bene. E sul mio cammino ho racimolato l’abbondanza della Provvidenza. Anche se il rumore dell’odio ha soffocato la mia voce, non mi sono schierato nel rovescio delle gerarchie. Io sono sull’iceberg di Dio. Non ho tentato la fuga per non raggiungere la libertà, perché essa è dentro l’oceano del mio cuore. Vi posso assicurare che questo tempo di silenzio è stato per me una convalescenza nella malattia della ricerca di Dio. I miei occhi di speranza non sono finiti nelle ortiche. Non mi è salito in mente di martellare a sangue chi nelle tenebre ha sposato menzogne, perché sono questi i poveri da amare. Tanti mi sobillavano a gridare e io rispondevo con il silenzio che non ne volevo parlare né sentire. Mi sono messo con il firmamento a scomodare il cielo. Mi sono messo con i santi a cantare con il creato. Mi sono messo a cantare con le stelle più mute del silentium Dei. Mi sono messo a coltivare gli ortaggi, come si fa per un figlio. Mi sono messo a osservare le stagioni, per essere finalmente una stagione di Dio. Mi sono messo a coltivare i fichi, i suoi germogli, per contemplare finalmente i germogli di Dio nelle mie vene e per non essere sradicato dalle sue mani. Mi sono messo a gelarmi sotto i sassi della neve, per schiarirmi delle aurore di Dio. Mi sono messo a fare il bucato e a stendere la mia biancheria nella stalla di Luna per non esporla sui giornali. Dopo la fatica del giorno mi sedevo su grosse pietre per dipingere il mio volto, smunto di dolore, con i colori dei tramonti e senza accorgermene Dio firmava il suo amore non solo sulla mia pelle. Mi sono detto sempre, caro Giuseppe, finché c’è vita, la morte muore. Per questo tutto il resto non mi ha fatto del male. Anche se mi hanno stretto nel guscio dell’isolamento, ho esploso l’utopia concreta della libertà. Non mi sono ingobbito sotto le pesanti accuse, al contrario Dio mi ha asceso così in alto, proprio dove le aquile fanno i loro nidi. Ho remato forte sulle pagine del tuo sogno, caro Giuseppe, e con stupore mi sono trovato nella stalla, dove tuo figlio è nato. Ho scandito l’amore e il perdono senza calcolarne il rischio. Strani pensieri prima in te e poi in Maria. Strano sogno il censimento, non per sapere la moltitudine delle popolazioni nell’impero romano. A quelli del Tevere non interessava il numero dei cittadini, ma censire le tasse sui beni della gente. Quel censimento sulle tue terre a Betlemme. Quel censimento sulle case a Betlemme, dove, tu Giuseppe, non hai trovato un alloggio, se non una stalla per far nascere tuo figlio. A me non è servito una ragione per affrontare la bufera dell’odio ma solo un ritmo pur lieve nello sforzo della volontà di Dio per me. Così non è stato per te. Tu sei il giusto, per questo subito hai accolto in te e per noi il Giusto. Molti rimangono fermi nei pensieri e nessuno riesce a smuoverli. A me le pagine del tuo angelo mi hanno regalato una leva dello Spirito, così potente da farmi saltare in aria. Persino la batteria del cuore angosciato dalle ode agitate del male, mi ha generato un’energia per infiammarmi dentro il cielo, pur con i piedi a terra. Il buio non ci dà le distanze. E’ la luce dentro che ti apre la velocità per superare le distanze chilometriche della sofferenza. Nel cammino della notte l’annuncio del tuo angelo ha tenuto anche per me una lampada accesa per evitare di abbuiarmi sotto gli scogli del ragionamento, del perché. Anche per me l’annuncio di essere nato da Dio mi ha arginato il male. Non ho improvvisato le mosse della salvezza. Ho vissuto l’ospitalità del deserto. In una stanza del Borgo della pace mi sono inebriato nel deserto della gioia. La notte è perfetta per incontrare Dio. Non ho gettato la bussola dello Spirito nel bagaglio del mollare tutto. Nella notte di Dio persino le punte delle scarpe mi erano chiare a vedere e a procedere nel campo della libertà. Non sono stato un clandestino del cielo. Anzi, vi assicuro che il cielo si è schierato con me, mi è stato un fedele compagno di strada. L’uomo da duemila anni è clandestino del cielo. Io ho trovato, nell’annuncio del tuo angelo, la via e a molti l’ho già indicata. E’ la notte del Natale. Tu, Giuseppe, hai concepito un figlio nel sogno di accettare Maria. Maria ha partorito, in una stalla, il figlio del cielo. E io sono andato a trovarli. E nel buio caldo dei somari ho brindato con Dio. Era la notte. E’ questa la notte. Non era la mia notte. Era troppa minuta la mia notte e troppo buia. Era la notte di Dio. Giuseppe, era la tua notte per abbracciare tua moglie, madre di Dio nella paglia di una stalla. Era la notte e mi sono vergognato delle mie notti. Era la notte e Tu, Maria, donna del tempo, hai serrato le tue mani a pugni sul tuo ventre per partorire per noi Dio. Era la notte di santa Lucia e davo a tanti la cuccìa. Era la notte e mi accorsi che il ventre di Maria insanguinava ancora e a terra il fieno odorava di sangue. Era la notte e tu, Giuseppe, correvi alla fontana del gregge, per riscaldare le pendole d’acqua per lavare il corpicino di Dio. Era la notte e oscillavano le stelle, senza cadere nel vuoto della terra. Era la notte e i pastori non erano disturbati dalle preghiere degli angeli. Era la notte e nessuno sbiascicava un paternostro. Era la notte e vidi mille candele accese dai piccoli della pace innalzate per illuminare le pagine di coloro che camminavano nel tenebre. Era la notte e nessuno pronunciava frasi scommesse o spezzate. Era la notte e persino gli agnelli belavano benedizioni. Era la notte di ogni vagito dei figli dell’uomo. Ogni figlio d’uomo è Dio che nasce nella stalla. Era la notte e non pregavo al passato. Era la notte e adoravo al presente. Ora non nasceva più Dio nella stalla della storia. Ora nasceva l’uomo nella reggia di Dio. Chiesi all’angelo di cantare l’alleluia, io stonato nella cappella si stona. Mi rispose:” Ora tocca a te inneggiare le meraviglie. Ora tocca a te svegliare i pastori!” “Quali pastori? – chiesi. “ Non da solo, non da solo si loda Dio”. Finalmente in questa notte ho attraversato il tempo, senza morire e a occhi aperti. Una traversata serena, quieta. Ho attraversato il tempo per nascere nel grembo di Dio e partorendo ho visto già il suo volto. Per questo non ho cercato attracchi negli scogli della ragione. Non c’è bisogno di attracchi per concepirsi nel grembo di Dio. Qui, sulla terra, ho approdato nella stalla di Dio, per trovarmi beato nel suo cielo che molti non vedono. Non ho messo in salvo ciò che ho fatto ma mi ha salvato la sua nascita. Grazie a te, Giuseppe. Qui, in questa stalla che nessuno sa dove sia, la tensione è alta ma già allentata. L’allegria è tenue ma già cantata. Sento sulle mie spalle pacche di esultanza dello Spirito. Qui, tutto è a bassa voce. In questa stalla mi sono spogliato nudo per tuffarmi nella paglia di Dio. Ho gustato così la tenerezza di Dio Bambino. In questa stalla sono in villeggiatura con Dio. Mi sono tolto la guerra di dosso. In questa stalla mi sono inginocchiato e ho baciato i sassi, dove Maria cullava il figlio di Dio. Buon Natale, venite, il mio cuore è nella stalla di Dio.
Paolo Turturro
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Mettiti i calzari
Di notte sui monti dell’odio sentivo ancora tuoni ormai spenti di lampi. Ero ancora nella prigione del cuore. Anch’io ho sognato, come san Pietro, un angelo simile a un figlio d’uomo. Ero circondato da belve feroci che si aggiravano dentro il mio cuore. Ero incatenato da fune funesti. Con uno stupore oltre i limiti, stanotte, il mio angelo mi ha svegliato e mi sono trovato sciolto da ogni catena del cuore. Mi ha invitato ad alzarmi. Pigro di forze. Pigro di mente. Mi ha alitato un vento simile a quello di ogni apocalisse. Un vento dinamico. Un vento creativo. Un vento liberante. Mi sono messo in piedi. Da tempo non mi potevo permettere. Il mio spirito era fiacco. Camminavo d’inerzia. Da tempo ero atrofizzato nei giunchi. Ero fermo di orizzonti e di aurore nuove. Camminavo a strattoni sul lastricato delle mie idee. “Ora - mi diceva – la grazia cammina dinanzi a te. Ora dinanzi a te cammina il fuoco che purifica non solo le tue mani. Purifica ma non consuma. Purifica ma non deprime. Purifica e ti inebria di letizia, pur dovendo ancora molto soffrire”. Mi misi in piedi. Non vacillavo. Non cadevo, come tante volte. Non barcollavo sul mio volto emarginato. I cancelli chiusi della mia vita ora erano spalancati. “Su, cammina! Su, cammina oltre le sbarre dell’anima. Il Signore è con te! Il Signore ti accompagni nella pace!” Preso da una gioia improvvisa comincia a camminare.”Alt! - poi l’angelo mi ammonì. Mettiti i calzari. Non procedere a piedi scalzi. Non procedere sprovveduto. Tu sai che i tuoi calzari sono il tuo silenzio. Non procedere a cuore e a mente nuda. Mettiti i calzari per far camminare il perdono Mettiti i calzari per far camminare la giustizia. Mettiti i calzari per far camminare la gioia in questa società rattrappita di tristezza. Mettiti i calzari per donare ali di riserva a chi è piegato a terra dal dolore. Mettiti i calzari, non puoi insanguinare ancora cuore e piedi. Mettiti i calzari, non devi ancora smarrire la mente fuori di Dio. Mettiti i calzari, non devi disorientarti per finire al di là delle sponde di Dio. Mettiti i calzari, non devi più calpestare a piedi nudi lo sterco del diavolo. Mettiti i calzari! Sono calzari di ali. Sono calzari di spirito. Sono calzari di utopie raggiunte. Sono calzari di nuove aurore di Dio. Mettiti i calzari, perché ora devi camminare sui sentieri della santità che Dio ha preparato per ognuno di noi. Mettiti i calzari e esci di qua. Esci dal fango di chi è cieco a non vedere il progetto di Dio su ognuno di noi. Esci, per indicare a chi è ancora fermo nell’odio di uscire anch’egli nella letizia del perdono. Esci, esci lontano. Esci dalle gramaglie dell’odio. Esci, sono l’angelo della guarigione. Sono l’angelo della liberazione. Non ti sei ancora accorto che Dio Padre ti ha guarito? Esci dal buio delle menzogne. Esci all’aperto dello spirito. Esci nell’orizzonte dello spirito. Esci a bere grazia non più in cisterne screpolate. Non più a fontane inquinate. Esci, non perdere tempo. E’ finito il tempo del buio. Esci ed entra nel regno della grazia e della gioia. Va’! Attorno a te c’è aria di libertà. Va’! Attorno a ogni uomo non ci sono gabbie di incertezze. Le sbarre dei dubbi, prima o dopo, si frantumano dinanzi all’amore immenso di Dio. E’ la misericordia la fiamma ossidrica che scioglie ogni catena d’inferno del cuore. Ora cammina dinanzi a te Colui che ti ha preso sulle spalle. E’ il Buon Pastore! E’ il Buon Pastore di tutti, anche di coloro che ancora sono seppelliti nella paura del peccato e nel baratro delle massonerie. Ora cammina dinanzi a te Colui che ti ha affidato da sempre alla Vergine di Fatina, a Colei che sulla roccia della Suvarita di Baucina, sul monte del Carmelo, ti ha salvato Giovanni caduto da quella roccia alta 40 metri. Ora cammina dinanzi a te Colui che ti ha affidato da sempre, senza che tu lo sapessi, alla Vergine della Medaglia Miracolosa. Non sei da solo a camminare. Tu sai, quanti santi hai scomodato. Tu sai, quanti piccoli della pace hanno pregato. Tu sai, quanti oltre le pareti siciliani hanno sperato. Tu sai, quanti oltre le barriere della mente hanno creduto. Tu sai che persino Cristo Gesù si è schierato per primo con te, perché da sempre ti ama non per quello che hai fatto o fai tuttora, ma perché sei simile a Dio Padre per l’alito che dall’eternità ha infuso dentro di te. Va’! Non pensare che ora il tuo sentiero è spinoso. Va’! Pur se devi soffrire ancora, Va’! Non ti scoraggiare ma offri le tue nuove lacrime per un oceano di conforto e di pace per l’umanità afflitta e addolorata. Va’! E fatti santo come Dio in ognuno di noi ha ideato. Alt! Ancora una volta stai sbagliando. Ti stai mettendo i calzari sbagliati. Quelli che sono ai piedi del tuo letto sono vecchi. Sono troppo consumati dai tuoi orgogli passati. Mettiti questi. Mettiti questi di ali d’aquila. Mettiti questi, non si infangano. Mettiti questi, ti fanno superare con la preghiera ogni ostacolo. Senti! Facciamo un patto. Facciamo un’operazione chirurgica ai tuoi piedi. Vedo proprio che non li puoi calzare questi di spirito. Sono troppo ingrossati di tempo questi tuoi piedi”. “Non capisco, caro angelo! Un’operazione ancora e a che serve ? Quando il cuore è ancora in collasso! Non sarebbe meglio un volo senza ritorno? “ Ti svelo ora, il segreto di Colui che cammina dinanzi a te. I calzari non sono ai piedi”. “ Come? Non capisco!”. I beati perseguitati hanno calzari d’ali d’aquila. Calzari di spirito. Calzari che ti permettono di camminare senza toccare la terra, a velocità della luce dello spirito. Non avere timore di volare sulle rotte della santità. Il sole della tua galassia non è capace, come Icaro, di sciogliere le ali dalla tua speranza, dal tuo spirito. Ora vola, anche sei un pollastro di stalla. Ora vola, anche se sei un pollo spennacchiato da tanti. Ti suggerisco ancora di invitare tutti i tuoi piccoli della pace a volare con te. Volate nei cieli di grandi utopie. Volate alla ricerca di distesi orizzonti. Volate, non per separarvi dal mondo ma per essere a pro dell’umanità, sopra il monte delle Beatitudini. Buon volo, o piccoli della pace.
Paolo Turturro
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Io cerco
Sono un cercatore dell’assoluto. Non cerco i Maia. Non cerco le astrologie. Non cerco le filosofie del tempo. Non cerco l’archeologia per costruirmi il passato. Non cerco il tempo che sia eterno. Io cerco quella perla perduta. Non ho perduto Cristo. Lui è sempre nelle vene del mio spirito. Cerco l’universo, atomo vivente dello Spirito. Cerco il fiato dell’universo. Cerco il principio della vita. Cerco di leggere dentro il firmamento del mio animo. Non cerco di annegare nel crogiuolo del denaro. Sono una giara con un pugno di farina. Sono un orcio con poche gocce di olio. Nessuno però sa che giara e orcio li ho offerte a Dio. E forse la farina della preghiera non finirà e l’olio della vita non diminuirà. Sono certo che la croce è il più alto respiro per donarsi all’assoluto. Nella vedova del tesoro ho scoperto una maestra senza parole. Molti hanno lo spettacolo nel sangue. Pregano per finta. A lungo per finta. A lungo per farsi notare. A lungo per non essere mai canto di preghiera. Sono al culmine dell’offerta. Non ho nulla da donare. Mi sono svuotato di tutto. Ho svuotato il tempo dalla mia vita. Sto male senza l’universo di Dio, senza poterlo lodare in questo universo della gloria della sua creazione. Non ho depositi nascosti di cose inutili. Non ho nulla se non briciole di lacrime, spiccioli di bontà. Non posso che donare ciò che ho ricevuto. Sono un nulla possedente. Mi piace stare ai piedi del tabernacolo. Mi sveglio di notte con il respiro affidato all’eucaristia. La gloria del Signore è l’uomo vivente. Sono vivente di amore. Sono vivente di lodi. Sono vivente di coraggio. Sono vivente di poesia. Sono vivente di danze. Sono vivente di gloria. Cristo è l’universo che cerco. E’ l’universo del ricamo che avvolge tutto il creato. Mi sono ricamato il cuore di dolori. Mi sono ricamato gli occhi di sguardi più trasparenti. Mi sono ricamato lo spirito con i doni dall’alto. La gloria di Dio è l’uomo vivente. Sono vivente di monti innevati. Sono vivente di sacramenti celebrati nel silenzio, senza chiese, senza altari, senza parole. Mi sento felice, perché so che le bilance di Dio non pesano la quantità ma come il cuore offre. Come il cuore ama. Come il cuore palpita. Come il cuore parla. Non studio i quanti ma come il cuore vive. La vedova del tempio mi insegna la totalità del dono. E’ la maestra senza parole. Tutto e non il superfluo. Tutto e non ciò che mi serve per avere in cambio il doppio, il triplo. Tutto, perché le cose del tempo non sono offribili allo spirito. La vedova del tesoro è la vera icona che adorna la vita e non solo un tempio. Gesù vede, non controlla chi getta per ostentazione molte monete nella cassa del tempio, nella cassa della vita. Non getto la mia vita all’apparenza del momento. Non getto il mio respiro nel denaro. Non getto il mio alito nel tempo. Non voglio perdere l’eterno. Non voglio perdere la gloria che innalzo altissimo al re del creato, degli angeli e di tutto ciò che non conosciamo. Gesù vede, in ogni nostro gesto, spiccioli di bontà, briciole di carezze. Egli vede i gesti di bontà, cavati fuori dal cuore della povertà. Generosi, nell’offrire soltanto povertà. Noi non cerchiamo il superfluo. Noi non cerchiamo d’essere elemosina per finta, donatori di ipocrisia. Siamo, dinanzi a Colui che è essenziale, chicchi di polvere. Guai, se il vento dell’orgoglio ci gonfi di acari e polverone. Siamo la gloria del suo stesso respiro. Mi sono lavato bocca, gola e cuore con l’alloro. Profumo di gloria per il Signore. Sono entrato nell’alveare degli angeli e senza sapere offre miele di grazia a chi avvilito giace nei labirinti della mente oppressa da emarginazione. Oggi il mio cuore è l’altare più alto per incensare il re della gloria. Oggi il mio sguardo è più limpido per vedere le profondità che Cristo ci ha aperti su Dio Padre. Oggi le mie mani aprono orizzonti del creato dello Spirito e già contemplo ciò che l’uomo non può neppure immaginare. Oggi consacro il pane dei poveri per essere nutrimento più sano, al di là dei pacchi di alimenti da donare. Oggi consacro l’alito della fratellanza, l’alito dell’amore, l’alito della divinità, perché tutti i popoli della terra siano, a unisono, la gloria di Dio.
Paolo Turturro
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Quella mano che riaccende la speranza
Se non ci fosse il male sulla terra, chi penserebbe a Dio? (Simone Weil), a Dio che pena nel cuore dell'uomo? Una giornata di Gesù a Cafarnao, immerso nella folla, assediato dal male, un crescendo turbinoso di malattie e demoni, che si acquieta nella preghiera segreta, sul monte. La compassione, il pensare all'uomo; la preghiera, il pensare a Dio: ritmo della vita vera. La suocera di Simone era a letto con la febbre. Gesù avvicinatosi la prese per mano e la sollevò. Prendere per mano: gesto d'affetto, forza per chi è stanco. Rialzare: Gesù "eleva" la donna malata, la riaffida alla propria andatura eretta, alla fierezza del fare, all'andare, al creare, al servire, all'annunciare. E rialza valori e progetti nei giorni che pesano sull'anima, quando il tradimento rende penosa la vita, il peccato fa debole e insapore l'esistenza, negli inverni del cuore. La mano di Gesà viene ogni giorno, quando una parola, un incontro, una telefonata, una lettera, un angelo interiore riaccendono la speranza e la strada. Attraverso le nostre mani, Dio dona l'infinita pazienza di ricominciare. Anche se tutti restiamo promessi ad un'ultima malattia, ad un'ultima ricaduta; e per quella sarà la Pasqua a dare risposte. E la donna si alzò e si mise a servire. E' questa la lieta notizia: una mano ti solleva, accende la fretta dell'amore, e dice: guarisci altri e guarirà il tuo dolore. La guarigione del corpo ha come scopo la guarigione del cuore. Quando il Signore ha ridonato energie e speranza, devi metterle a servizio di qualcuno. Quando il Signore ti ha preso per mano e sollevato, a tua volta devi prendere per mano qualcuno. Un apologo famoso dice: un uomo passa per la strada, vede un bambino che muore di fame, e grida al cielo: "Dio, che cosa fai per lui?" E una voce risponde: "io, per lui, ho fatto te..." Noi non saremo forse mai capaci del miracolo di guarire qualcuno, ma dobbiamo essere capaci del miracolo di servire, di far sorgere il tempo della compassione. E' questo il vero prodigio. Quando qualcuno si avvicina, tende la mano e ci tocca con pietà, in quel preciso istante iniziamo a guarire, a ridiventare forti. Solidarietà, inizio della guarigione. Maestro, tutti ti cercano, resta! Ma Gesù se ne va per altri villaggi, per tutti i villaggi, in cerca del male di vivere, a sollevare altra vita. Maestro della vita, mano che solleva, essere cristiano è difficile, ho in me febbri e demoni, non so se ce la faccio. Ma cercherò di rimettere in piedi quei fiori calpestati che sai. Però tu avvicina quella mano che non hai mai cessato di tendermi, avvicinala ancora un po', prendi la mia, sollevami. E con te andrò per villaggi e per luoghi solitari, con te, incontro all'uomo e verso Dio.
padre Ermes Ronchi
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Sulle spalle di Cristo
Sono quella pecora caricata sulle spalle di Cristo. Sono quella pecora smarrita nelle frasche della società. Sono quella pecora smarrita nei sotterfugi delle menzogne. Sono quella pecora smarrita nel torchio delle ingiustizie. Sono quella della parabola. Cercata e amata da Cristo. Sono quella pecora smarrita nei labirinti del male. Sono quella pecora smarrita nelle tenebre degli inganni. Sono quella pecora smarrita nella ricerca della verità. Sono quella pecora smarrita e mai abbandonata da Cristo. Sono quella pecora smarrita nel frastuono dei miei pensieri e dei miei dubbi. Sono quella pecora smarrita e ritrovata sull’altare dell’eucaristia. Sono quella pecora smarrita nell’apocalisse delle strade di ogni città. Sono quella pecora smarrita nel chiasso delle filosofie che circondano il mondo, nei labirinti delle opinioni. Sono quella pecora smarrita nel tubo digerente del tempo. Eppure mai così sicuro dello sguardo tenero e sincero di Cristo che mi segue lungo i secoli, lungo i percorsi dei giorni e delle mie notti tanto oscure. Mai così certo di raggiungere Colui che da sempre si è messo in gioco per trovarmi e abbracciarmi sulle sue possenti spalle. Sono quella pecora smarrita nel ventre delle oscurità dei falsi incontri. Eppure mai così sicuro di cadere e mai così sicuro di essere sorretto da Cristo. Nel deserto del tacere ognuno perde l’orizzonte della vita. Nel deserto delle indifferenze, dove molti abitano per paura, ho evitato ogni giudizio e mi sono affidato a Colui che non tarda a venire. Nel deserto di chi me lo fa fare, ho escluso ogni condanna, perché ogni uomo è amato da Colui che mi sostiene e che in Lui tutto posso. Nel deserto di ospitare l’altro abbandonato e umiliato, ho effuso in colui che ha paura di venire a trovarmi, benedizioni e sguardi di tenerezza. Nel deserto dell’abbandono, ho innalzato gli occhi su visioni più alte e trasparenti e ho indicato, a chi ti rifiuta, speranze più alte. Sono quella pecora smarrita. Senza un nome, senza una sicurezza, senza una certezza, senza una mano che mi regga. Eppure tante volte nelle notti più oscure ho sentito la voce di chi mi assicurava preghiere e conforto. Tante preghiere! Tante! Tanti anni di preghiere. Persino Cristo si è commosso. Tanto che, nel precipizio dove mi hanno fatto cadere, ho sentito così forte l’abbraccio di coloro che nel vangelo sono stati mandati da Dio a consolarmi. Quanti. Tanti. Molti. Mandati da Dio a darmi certezza che Lui, il Signore, è con me. Cristo non mi ha donato briciole di consolazioni ma effluvi di grazie. Cristo mi ha squarciato il cuore. Ora non posso che aprirlo totalmente a lui. Sono quella pecora smarrita sui sentieri sassosi dell’intelletto. Sono quella pecora smarrita sugli anfratti del cuore. Sono quella pecora smarrita nei campi della zizzania, seminata dall’odio e dai rancori di chi non ama e non è amato. Eppure mai così sicuro a raccogliere inni, salmi e preghiere di lodi. Sono quella pecora smarrita nel pozzo delle acque amare della vita. Eppure mai così candido e limpido nel cuore. Eppure mai così tranquillo a perdonare l’aceto e il fiele che mi hanno fatto bere. Sono quella pecora smarrita sui selciati della terra, eppure mai così sicura a procedere sulle vie del cielo. Sono proprio felice di essermi smarrito, perché ora mi inebrio sulle possenti spalle del mio maestro. Ho appreso dalla vedova di Elia, di essere padre coraggio. Ho appreso dalla vedova del tesoro, di essere il padre senza parole. Quanto è forte, questo Signore! Quanto è soave! Quanto è possente! Quanto è sicuro ad amarmi all’infinito. Fa a gare a chi ama per primo. Lui è così umile che scopro, soltanto alla fine dei miei dolori, che mi ama da sempre. Quante volte ha atteso la mia risposta ma io smarrito nelle pozzanghere delle lacrime, ho sempre tardato a donarGli un frutto d’amore. Quanto è amabile il suo corpo! Quanta forza nelle sue braccia per strapparmi dalla morte e dal peccato. Quanto è testardo, questo Dio che muore d’amore! Sono quella pecora ritrovata nei margini della vita, rifiutato, gettato, calpestato nelle tempeste delle menzogne. Eppure mai così soave a raccogliermi per terra, a stringermi al suo petto, a sprigionare volontà di uscita di sicurezza. Che fragranza il suo affetto! Che paradiso il suo sguardo! Lui ed io ci siamo guardati negli occhi. Io sono quella pecora smarrita da sempre caricata sulle spalle della grazia di Cristo. Non cercatemi nel pianto. Non cercate nel buio dei liquami. Non cercatemi sui marciapiedi, coricato sui cartoni. Non cercatemi nei pensieri di chi mi definisce un disgraziato. Sono sulle spalle di Cristo. Sono al sicuro. Sono elevato da Colei che Gli è madre, che spesso mi viene in sogno non solo con la statua di Fatina. Mi ha custodito nel baratro, affinché nessuno laggiù, mi potesse annientare. Sono nelle mani di Cristo. Lui, di me, mi ha fatto eucaristia. Lui, di me, mi ha fatto missionario della sua Parola. Lui, di me, mi ha fatto sacramento. Lui, di me, mi ha fatto cieco per vedere il cielo. Lui, di me, mi ha fatto lebbroso, per sentire il lavacro della guarigione di tanti miei fratelli. Lui, di me, mi ha fatto Lazzaro, perché risorgessi gioioso all’aiuto degli altri. Lui, di me, miserabile nel fango dei giornali, mi ha fatto logos, alfa e omega della sua vita. Lui, di me, mi ha fatto paradiso. Lui, testardo ad amare tutti i peccatori, mi ha fatto grazia per coloro che smarriti come me, cercavano il Suo volto. E senza accorgermi, nel fallimento più totale, mi sono ritrovato sulle sue spalle, persino annunciato nella parabola delle strade d’Israele. Senza accorgermene ho guidato sui passi del vangelo tanti, tante persone sante, tanti smarriti come me. Grazie, Signore Gesù! Da quassù, dalle tue spalle, non scendo più.
Paolo Turturro
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Memoria dell’amore
Tu divieni ciò che ami. Tu generi dentro di te e negli altri Dio, dal momento che ami. Tu non sei, quando non ami. Dio ti ha pensato dall’eternità. Sei da Lui amato da sempre. Tu, anche se agli occhi della gente sei una nullità, non importa, per Lui sei importante. Sei l’unico suo amore. Per te ha donato la vita fino alla morte. Solo quando ti ami, scopri l’amore di Dio dentro di te. E allora ti incanti, ti stupisci, ti meravigli, perché Dio tanto ti ama. Ti scopri meraviglioso. Alt! Quando non ami, muori. Ti sei mai chiesto: ”Perché Dio ti ama così tanto e fin dall’eternità?” Che cosa è l’uomo, perché te ne curi tanto? Ti rendi conto quanto vali per Dio. L’amore di Dio dentro di te è una continua esplosione di meraviglie. Non bastano cento anni per scoprire l’immensità dell’amore che Dio ha versato dentro di te. Amare è scoprire dentro di te lo spirito che non finisce mai. Nell’aiutare l’altro, scorre dentro di te una sorgente di letizia che non si esaurisce. Ama il tuo respiro. Ama il tuo canto silenzioso dentro di te. Ama i tuoi occhi che avranno la bellezza di vedere Dio. Ama le tue mani che accarezzeranno nei poveri l’eucaristia. Ama il tuo corpo, dove Dio abita non solo quale Parola vivente. Ama il tuo tempo. Ti è stato donato il tempo per scoprire l’incanto di Dio nella creazione. Ama le stagioni che ti profumano già di eternità. Ama l’aurora che ti spalanca il cielo dentro la tua luce. Tu sei la memoria dello stupore di Dio nei tuoi occhi. Tu sei quella matita con cui Dio scrive dentro il tuo universo. Tu sei la voce che Dio canta nella natura. Tu sei lo sguardo che il creato ti ha donato per incantarti dell’immenso. Tu sei l’orizzonte che i tuoi pensieri hanno aperto contemplando, ogni mattina, il ciborio del vangelo. L’amore è l’unica reale prova dell’esistenza di Dio. Nell’amore divieni giorno, divieni luce, divieni serenità, divieni olocausto di bellezza. Nell’amore generi non solo il tempo ma l’eternità. Nell’amore sei trascende in Dio con le mani immanenti nel soccorrere l’altro. Nell’amore trascendi le lacrime che scorrono salendo in alto, nella memoria di Dio. Nell’amore battezzi ogni figlio d’uomo e di ogni razza. Nell’amore consacri la verità che ti rende libero, pur camminando in mille boscaglie di tormenti. Nell’amore concepisci Dio dentro di te. Nell’amore anche un angelo ti annuncia che generi Dio nell’altare e nel ventre del tuo cuore. L’amore è scuola di vita. L’amore è il tuo corpo che non muore. L’amore della tua carità è fertile di Trinità. Non perdere tempo nelle tue angosce di vendette. Ama e sei già vincitore. Solo l’amore è la vittoria sul tempo. Solo l’amore germoglierà il mondo di bontà, di bellezza e di verità. Vivi ogni istante della tua esistenza, amando. Amare è voce del verbo morire. E’ perdere se stessi, per trovarsi vivi e immanenti nel cuore di Dio. L’amore è la rivoluzione che i giovani cercano. Amore senza confini. Amore oltre la musica delle emozioni. Amore oltre le passioni che muoiono. Amore che ti crea dentro l’infinito che sei. Nell’Amore leggi i secoli passati e i secoli delle stelle. Amore oltre gli anni luce. Amore oltre gli atomi che si separano e sempre resta immacolato e intatto. Amore che intuisci l’oltre e leggi gli sguardi di Dio. Amore oltre l’estasi di ogni vibrazione angelica. Amore dentro il monastero del tuo infinito. Amore è voce di chi non ha voce. Amore è forza di chi è oppresso di ingiustizia. Amore è respiro che uccide la morte. Amore è così sottile che il tempo non è capace di contenerti. Amore è ogni pericope del vangelo. Amore è la pagina del Risorto. Amore è la pagina che contiene tutta l’intera umanità.
Paolo Turturro
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LA FESTA DEI MORTI
È finita l’epoca dei giocattoli per la festa dei morti, i bambini oggi in un’era super evoluta di PC, telefonini e video-giochi super mega galattici hanno capito che dovevano scrollarsi di questo stupido fardello. La classica domanda “ mamma che mi portano i nonni morti? ….“ è decaduta ; sappiamo che dove c’era miseria, la battuta di rimando era sempre la stessa, che conosciamo abbastanza bene, se il bambino aveva la fortuna di avere la nonna, i biscotti e la pasta reale (almeno questo) non gli sarebbe mancato; dove c’era ricchezza il sorriso della mamma non mancava a far capire che se facevano i bravi ci sarebbe stato il ben di Dio fra giocattoli, vestiti scarpe e quant’altro . Oggi i bambini sanno che la festa dei defunti è importante per ricordare le persone che amiamo e con le quali abbiamo vissuto periodi belli della nostra vita, nonni che ci hanno insegnato ad essere uniti nella famiglia, a non sprecare il cibo malgrado l’abbondanza, che ci hanno raccontato come si sopravvive ad una guerra e alla carestia. Nonni che ci hanno fatto compagnia raccontandoci le favole, nonni che ci hanno insegnato proverbi di vita Questa è la festa dei morti, e i bambini oggi lo sanno, sono più maturi di quanto noi possiamo immaginare, sono già uomini in corpi di bambini, non bisogna andare in Africa o in India per vedere bambini orfani già genitori, perché anche qui, i nostri figli sono soli in un mondo dove lavoriamo tutti, anche i nostri, sono già grandi appena nascono, e ragionano da uomini appena iniziano a parlare lasciandoci esterrefatti. Grazie papà per quello che sono io oggi, Tu non sei morto, sei vivo in me, sei vivo con Dio, sei vivo in ogni cosa del giorno che faccio, dalla mattina in macchina quando dico le Tue preghiere (da buon nipote di sacerdote che eri), alla sera quando vado a letto Grazie per avermi insegnato come si perdona e come si resiste agli attacchi della gente. Grazie per avermi dato tutto, di più non potevi, mi nutro del tuo bagaglio, la tua saggezza colorata dalla simpatia e ironia del tuo personaggio rendeva comica ogni cosa anche la più tragica. Che soddisfazione quando in paese cammino e mi fermano per parlarmi di te, e ancor di più quando mi dicono che assomiglio a te, non potevi lasciarmi un’eredità più bella. Questa è la vera festa dei morti, pregare per i nostri cari e amarli come se fossero ancora vivi.
Silvana da Porticello
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Siamo quel chicco di sènapa (per i piccoli fratelli e sorelle della pace, laici consacrati di Dipingi la pace).
Carissimi piccoli fratelli e sorelle della pace, il Signore ci ha scelti nel silenzio del cuore. Consacrati all’adorazione in Spirito e Verità. Consacrati alla vita della grazia. Consacrati al perdono. Consacrati ad amare. Consacrati alla gioia del donare. Siamo tutti polvere di stelle. Da lassù siamo arrivati tutti. I miei polmoni sono una tenda, dove ospito tutti nel fiato che Dio mi ha effuso. La mia tenda non è fissata a terra con corde e pioli. Ha vele alitate di cielo, legata in alto da raggi dello Spirito. L’unica Teofania che conosco è la presenza quotidiana di Cristo nella nostra vita. Nel mio spirito è collocata Sion, fortificata da pazienza e comprensione. Non ho nessun sigillo alla mia mente. E’ libera soltanto di amare, come il creatore me l’ha donata. Sono nella tenda del silenzio, eppure qui dentro ascolto tanti e parlo con voi e con molti. Sto capendo appena, lontano appena, il silenzio di Dio. Sono quel chicco di sénapa, calpestato, eppure germogliato di umiltà. I suoi rami sono già alti e i consacrati sono già all’opera del Signore. Si annidano nelle fronde dei nostri sacrifici tanti poveri, bisognosi ed esclusi. Sono l’escluso per accogliere tutti. Ecco il giardino degli esclusi, è pieno di chicchi di umiltà, prato all’inglese con piante di sènape. Per ora quel giardino siamo noi. Che profumo soave nel nostro intimo. Quanti nidi in questo nostro giardino di Dio. Quanta gioia silenziosa tra i suoi rami. Ogni consacrato è un piccolo seme di sènapa, perché non solo in ciascuno di noi inizi il Regno al quale spetta uno sviluppo grande. Ognuno è una nota di canto. Ognuno è un ruscello di conforto. Ognuno è un ramoscello di accoglienza. Ognuno è una fortezza per custodire e mettere in sicurezza gli abbandonati. Da tempo anche noi abbiamo messo in sicurezza il nostro spirito. Ognuno è una vetta, dove tutti dobbiamo salire. Attendiamo chi sale lento. Non giudichiamo chi tarda a salire sulla montagna della grazia. Ognuno è una roccia dove Dio posa il suo capo. Ognuno è un piccolo cielo, dove abita la letizia di Dio. Nel cielo della letizia non abita la gelosia. Maschera di cera è la gelosia. L’altro è in grazia più di me, di certo perché è amato da Colui che sulla croce ci ha abbracciati tutti. Ognuno è missionario della Parola del Regno. Ognuno è un salmo di giustizia. Ognuno è un altare da consacrare l’amore verso gli ultimi, gli esclusi. Ognuno è una tenda per ossigenare di serenità la vita degli altri. Ognuno è la mano per soccorrere. Ognuno è il palpito per donare respiro agli altri. Ognuno è consacrato al mondo e non chiuso a se stesso. Ognuno è aperto come l’orizzonte. Ognuno è mare placido e agitato. Ognuno è campo fertile di raccolti. Ognuno è deserto, dove Dio fa germogliare anemoni di grazie. Ognuno è una via che porta a unirci e mai a separarci o ad abbandonarci. Ognuno è quella porta della fede, che è Cristo Gesù. Nessuno, nella consacrazione ad essere piccoli chicchi di sènapa, è licenziato da Dio. Nella sua vigna nessuno è messo da parte e tutti siamo piccoli servi. Coltiviamo lo spirito e non le vanghe dei puledri o le banche del denaro. La sapienza del piccolo seme di sènapa non è inferiore a quella greca, né a quella delle fatue scienze del tempo, piuttosto la sorpassa, perché l’origine è di Dio. Dentro di te puoi leggere le stelle. Dentro di te puoi sentire il fiato di Dio. Dentro di te c’è l’arcobaleno della solidarietà, che non è una servitù a nessuno. In noi ci sia l’autorevolezza della Parola del Vangelo, dei sacramenti, della vita onesta e non l’autorità del potere per servire. Tu sei il consacrato ad essere il piccolo seme di sènapa nella boscaglia degli egoismi. Tu sei il consacrato del favo di miele, nelle amarezze della vita. Tu sei quella tovaglia o quello straccio che nella consacrazione delle tue giornate e dei tuoi sacrifici al bene degli altri, diviene una splendida tovaglia di altare. Tu sei quel piccolo e fragile bicchiere di acqua che disseta gli ultimi e che nessuno vuole accogliere per ristorare non solo di acqua snella. Tu sei quella forte mano, anzi quell’ultima e quell’unica mano, che sorregge il disperato già precipitato nel baratro della nullità. Tu sei il consacrato di libertà per sciogliere ogni nodo di cattiveria e ogni catena di pianto. Noi sciogliamo i sandali dell’argilla e dei peccati, affinché il più miserabile possa entrare nel luogo sacro dello Spirito. Non hai borsa, non hai sacche, non hai abiti di firma, non hai scrigni, non hai nessuna sicurezza in noi, se non Colui che ti ha consacrato alla gioia della vita. Tu sei il crisma della consacrazione alla piccolezza. Tu sei il profumo dell’olio catecumenale, perché la vita degli altri sia un profumo per Dio. Tu sei quell’olio che le vergini sagge hanno custodito in piccoli vasi, sempre pronto ad ardere di letizia per tutti. Finalmente ti dico chi tu sei: “Sei l’abbraccio di Dio al tuo sposo, l’abbraccio di Dio al tuo figlio, l’abbraccio di Dio al tuo amico, l’abbraccio di Dio al tuo nemico. Un abbraccio universale che Cristo Gesù ha già aperto sulla croce, dove già ci ritroviamo tutti uniti in Dio.
Paolo Turturro
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Un ardore che non si consuma
Stiamo confondendo la cultura del merito con i vari giochi a quiz. Peggio ancora quando lo Stato si abbassa a realizzare concorsi di lavoro a quiz, creando nella società solo superficialità e disastro ambientale e culturale. Una volta grattare era la voce del verbo rubare. Ora gratta e vinci è la pazzia di ogni pensionato, non solo all’inizio di ogni mese. Ancora la natura ci salva con le sue meraviglie di rocce di colori carnosi all’aurora e al tramonto per frenare ogni disperazione. Io abito fuori da Betel. Nel cuore di chi si impegna è franata persino la morte. Il bene ci libera la mente. Il male ci incapsula nella disperazione. Qui, nella terra degli onesti, dove abitano non soli i secoli, mi sono liberato dei feticci degli impostori. Betel è il tempio dei sacramenti di sale, dei riti sterili di carità. Betel è la casa del denaro. E’ il sopruso di ogni re. E’ la veste dell’apparenza del bene, che alcuni indossano per mascherare la loro mente e il cuore che non hanno e che non possono palpitare. C’è di peggio. Leggiamo il Vangelo, come un libro qualsiasi. Celebriamo la messa, come un evento qualsiasi. La Parola del Vangelo è dimenticata così in fretta, nella gente così distratta nella domenica. Ormai siamo assuefatti a tali celebrazioni che non ci fanno nessun effetto di scandalo. Forse questa è la prova lampante dell’esistenza del diavolo che vuole annullare in noi ogni Parola di Dio. I santi hanno sentito, nell’ascolto, un ardore che non si consuma. La Parola di Dio può risuscitare persino un morto e anche te che sei insabbiato nell’indifferenza spirituale. C’è sempre in ciascuno di noi un morto da risuscitare, un dubbio da chiarire, un errore da evitare, un limite da annullare. Quando mi comunico, non mi unisco al Cristo storico di duemila anni fa, lontano, assente, non conosciuto, non amato, ma mi comunico con Cristo presente oggi in me, in te, in noi. Come possiamo temere che Dio abbia negarci alcun bene, dopo che si è degnato di donarci suo figlio? Per tutti, per l’intera umanità, non solo per una comunità circoscritta di cristiani. (In ipso vivimus et movemur, et sumus.). Mi spoglio del tempo e sono in dialogo con Lui. Mi tuffo nel suo cuore e senza parlare mi quieto e mi sazio di Lui. Il mio parlare è il silenzio e la sua Parola mi riempie di grazia. Così fin dall’aurora io lo amo. (Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo. Deut. 6,5). Un ardore che non si consuma è la proposta del rinnovamento della società. Occorre avere passione per realizzare progetti del Bene Comune. Occorre avere coraggio per svoltare il mondo sulla corsia giusta del vero benessere comune. Ardore a scuola, ardore nel lavoro. Passione nella solidarietà. Passione nel dialogo con gli altri. Passione nell’ascoltare. Passione nel confronto. Passione nell’impresa. Passione nella creatività. Senza lo slancio della passione tutto è morto e si cade nel baratro della diffidenza e nella mentalità del sospetto. Occorre al più presto slegarsi dalle catene della paura dell’altro. Catene che ci imbrigliano di dubbi, di avversità, di chiusure mentali e spirituali. Catene che avvinghiano l’esistenza di sospetti e perdi ogni discernimento e ogni bellezza mentale. Una svolta radicale è la vita del Vangelo. Senza mezzi termini. Parabole scomode. Un Cristo che ci inquieta continuamente per uscire all’aperto nella bellezza e nel profumo della grazia. L’ardore dell’eucaristia ci inebria di salute per abbracciare anche chi ci fa del vero male. Sono nella fornace della grazia. Sono cotto di perdono e di bontà. Reputo che perdonare è l’identità della maturità dell’uomo.
Paolo Turturro
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Intuire l’universo
Come leggere le pagine del cielo? Tutti i secoli sono racchiusi nell’etere. Tutto ciò che è stato creato è un’energia che spazia in equilibrio nelle atmosfere delle galassie. L’uomo sarà capace di leggere queste indeterminate pagine incise nell’universo? Come sfogliare le pagine dell’universo? Nell’universo non abitano soltanto i pianeti, le meteoriti, le stelle o le galassie. E’ tutto l’intero universo della creazione con tutti i viventi di ieri, di oggi e di sempre. E’ giunto il tempo in cui l’uomo capterà le energie e le sinergie del cielo e le proporrà reali come in un computer nella sua mente. E conosceremo l’inizio e il principio della stessa creazione. E conosceremo la sviluppo di tutte le galassie. E conosceremo i respiri di ogni persona. I canti di ogni attesa. Gli sguardi di ogni speranza. I segreti nascosti per timore. E conosceremo ogni battaglia e ogni quiete. Ogni dolore e ogni letizia. Ogni sconfitta e ogni vittoria. E conosceremo tutto il bene e tutto il male che nei secoli i popoli hanno fatto. Intuire l’universo sarà la pagina che affascinerà i giovani puri di mente. L’infinito è la realtà più semplice che esista. Chi è innocente, conosce già la via della conoscenza. Chi è superbo, tutto ciò, gli è reale di frastuono e di incomodo abissale. “Ti rendo lode, o Padre, perché queste cose le hai nascose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelato ai piccoli”. La semplicità è il gamete di ogni conoscenza. Dio può nascondere qualche cosa? Non è Dio che nasconde ma è l’uomo incapace di vedere il reale divino dentro e fuori di se stesso E’ la superbia la causa dello squilibrio della stessa creazione e delle turbe della mente dell’uomo. Tutto ciò che è stato creato per amore da Dio non può andare perduto, né si può distruggere. Tutto ritorna in Dio, purificato, redento e santificato. Tutto ciò che è stato creato, anche il filo d’erba più tenero e minuto, è un fiato di Dio e gli appartiene per sempre. L’anticreazione è il male. Tutto ciò che non è stato creato è l’anti Dio. Ci chiediamo se l’anticreazione è una realtà. L’anticreazione non è il nulla. Il nulla è l’adversus reale che turba l’equilibrio non solo del cuore di ogni persona ma la stessa armonia dell’universo. Il nulla è l’abisso che esiste in ogni pensiero, in ogni intuizione. Vaga come un leone ruggente per divorare l’uomo nel male. E’ il lucifero che si spegne nell’abisso dell’inferno. L’avversario alla verità non può che essere avversario e mai verità. La verità è l’innocenza più pura che abita nel cuore di ogni persona. L’avversario non può mai entrare dentro di te e non può assolutamente dominarti. Tu sei stato creato libero. Tu sei una persona amata e creata da Dio e come tale nulla può fare l’adversus. Nulla può fare il diavolo nello Spirito che Dio Padre ha effuso dentro di te. E’ necessario però capire la differenza tra lo Spirito effuso da Dio dentro di te e la coscienza che man mano i secoli hanno incrostato la personalità dell’uomo. Nella coscienza potrebbe entrare il male, nello Spirito mai. La coscienza potrebbe essere malata nei secoli, a causa delle leggi, a volte ingiuste, che l’uomo scrive nei codici del tempo. Ogni potente che vuole il sopruso dei deboli e dei poveri nulla può incidere dentro lo Spirito che Dio ha fiatato per amore dentro ogni sua creatura. Il prepotente può con superbia incidere sulla coscienza delle persone che per paura di opporsi e di rischiare la vita, si sottomettono. I codici cambiano secondo i secoli. Il codice da Vinci non esiste, esistono soltanto i colori della verità di donna Lisa. Lo Spirito della verità che abita dentro ogni persona non può cambiare e né è dato a ogni potente di poter influenzare o incidere qualcosa con la potenza del denaro. Ecco la libertà che è il germoglio creato dallo Spirito che Dio ha effuso dentro ogni persona e che germoglia continuamente dentro ognuno di noi. Il tempo batte i secondi, le ore, i giorni, i mesi, gli anni, i secoli. Il nostro Spirito canta soltano l’eternità. Lo Spirito non si perde nel tempo. E’ immutabile come Dio. Ecco perché non muore. Ecco perché non può non ritornare all’origine di se stesso che è Dio. Ecco la gioia: noi siamo fatti per Dio. Ogni volta che ammiro un tramonto, sento di tuffarmi nell’infinito. Ogni volta che contemplo le onde tempestose del male, avverto la burrasca che l’adversus vuole tentare di sbattere in faccia all’uomo. Esistono palazzi dove il diavolo naviga liberamente. Palazzi della massoneria. Palazzi della mafia. Palazzi di sacrestie. Nulla può al nostro Spirito. Il nostro Spirito, come in Dio, è impenetrabile, inaccessibile. Il male non può entrare dentro di te, se tu non vuoi. Ecco la gioia del cuore. Non esiste nessuna ragione per perdere la pace del cuore. Non c’è paura che possa sfondarci dentro, se il nostro cuore è un pilastro di serenità. La serenità è la chiave di lettura dell’universo. Si sfogliano dinanzi a te, non solo nella mente, galassie dopo galassie. Spiriti celestiali a Spiriti celestiali. E’ la comunione dell’universo. E’ la comunione dei santi.
Paolo Turturro
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OCCHI NUOVI
Amare è abitare nell’altro, è vivere nell’altro superando se stesso. E’ tempo di uscire alla luce e incontrare l’altro. Siamo continuamente oppressi da notizie televisive: uccisioni, omicidi, guerre, odio, rancori persino tra fede e religioni. E’ tempo di aprire le porte del rispetto per tutti i popoli della terra. Non dimentichiamo che Dio abita in ogni cuore d’uomo, cristiano, musulmano, induista, buddista o altro. Nella preghiera eucaristica ricorre una frase che ci mette continuamente in crisi: Signore, donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli. Quanti occhi vecchi abbiamo nelle nostre fredde liturgie. Quanti occhi vecchi per non vedere proprio chi ci è accanto e che soffre enormemente. E noi impassibili solo a lucubrare preghiere o mistici incontri. Si, è proprio vero, ci vogliono occhi nuovi per vedere l’uomo che soffre, l’uomo che ama, l’uomo che crede. Ci vogliono occhi nuovi per vedere il divino dentro di te e dentro l’altro. Molti drammi sono provocati da questa carestia di occhi nuovi. Seppelliamo l’altro nella sua bellezza nella nostra indifferenza che è il veleno che sterilizza la comunione tra i popoli. Distruggiamo l’altro con i nostri occhi vecchi di gelosie e di invidie. Annientiamo l’altro con i nostri occhi vecchi della fede morta dentro di noi. Gli occhi che abbiamo sono troppo vecchi, pieni di cataratte e miopia. Occhi vecchi che uccidono la fede dentro di noi. Occhi vecchi che non fanno splendere la bellezza del Vangelo nei nostri giorni. Occhi vecchi, non capaci di vedere Dio in ogni essere, in ogni fiato, in ogni respiro d’uomo. Occhi vecchi che ci rendono statue di sale dinanzi ai drammi dei popoli. Occhi vecchi che ci permettono ci scusarci nell’uccidere a nome di Dio. Occhi cavati di angosce e di paure. Occhi appesantiti di sacramenti sterili, di dottrine passate. Occhi vecchi che vedono solo il proprio tornaconto. Signore, donaci occhi nuovi, capaci di amare, di vedere, di abbracciare, di credere, di sperare in Te. Ti imploriamo di effondere nei nostri occhi carismi di altruismo. Occhi nuovi per costruire qui, oggi, sulla nostra terra, il tuo regno di amore, di pace e di verità. Qui, sulla terra, con occhi nuovi a credere, a costruire fratellanza, a costruire ponti che ci uniscano, a costruire il divino che ci rende tutti tuoi figli. Signore, donaci il trapianto dei tuoi stessi occhi. Via da noi la malinconia del passato, delle liturgie stantie. Via da noi “ il come era bello ieri”, che ci chiudeva all’altro nelle nostre preghiere sepolte di egoismo. Via da noi il marchio assoluto della verità. Via da noi l’essere i tuoi figli unici salvati da Gesù Cristo. Via da noi gli occhi miopi di salvezza, da affermare che a pochi tu doni la tua immensa misericordia. Donaci occhi nuovi pieni di stupore, di letizia e di speranza per tutti. Occhi che ci stupiscono dinanzi alle tue meraviglie che operi in ogni uomo. Occhi nuovi liberi dai cataloghi di miserie da sovvenire negli incontri di carità programmata da stipendi. Donaci occhi liberi dalle nostre elemosine domenicali. Occhi nuovi vibranti di affetto umano e divino. Occhi nuovi per fuggire alle nostre inerzie sacramentali. Occhi nuovi per uscire dalle nostre assoluzioni sommarie di giudizi. Occhi nuovi per gustare il tuo ineffabile e inenarrabile amore per tutti i popoli della terra. Occhi nuovi per scuoterci dalle nostre imperdonabili inerzie capaci persino di bloccare lo Spirito santo e renderlo muto in noi. Occhi nuovi che sanno di terra e di cielo.
Paolo Turturro
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PRIGIONIERO DEL SILENZIO
A volte c’è qualcuno che ci guida, molte volte siamo noi a decidere di intraprendere una strada e ci moviamo e pensiamo che questo sia il nostro destino. Noi costruiamo i nostri giorni. Noi chiudiamo le nostre notti. Noi apriamo l’oltre. Noi apriamo le nostre aurore. Noi accendiamo le nostre speranze. La conoscenza del futuro ci rende presenti a vivere il nostro oggi. Spesso sulle nostre strade dubitiamo di ciò che è lontano e allora torniamo a casa. A casa della nostra origine. A casa della nostra nascita. Nel cammino della vita mi sto confrontando con una grande e misteriosa intelligenza. Mi tuffo nei giorni a cicli continui senza calcolare l’abisso del futuro. Il corpo infatti l’ho donato al tempo, la mia volontà all’eterno. Il risultato è eccellente. Comunque qualsiasi risultato venga, non conta. E’ importante accorgersi di vivere nell’arcipelago Dio. Sono sempre accompagnato dalla zappa per estirpare ciò che è effimero. Dentro l’uomo si radicano rocce di virtù, modellate dalla grazia del sacrificio. Non sono una foglia sbattuta dal vento. La mia libertà è nulla di definito e tutto da definire. La mia libertà cresce accettando le diversità. Cresce senza mai raggiungere la sua pienezza. Sono lo scultore di pietre sonore. Mi sibilano armonie racchiuse da secoli nelle stalagmite dei minerali che le mie vene hanno plasmato. Quante sculture ha scolpito il sangue. Quante capolavori ha realizzato l’anima. Sono le rocce a gridarmi:”Su, coraggio, alzati. Su, coraggio, apri gli occhi. Apri gli occhi nei palazzi delle ingiustizie. Apri gli occhi all’intelligenza sopita della gente. Apri gli occhi alle imprese che chiudono sulla pelle degli operai. Apri gli occhi ai giovani decaduti, come la caduta degli dei. Apri gli occhi, una volta sola tu vivi. Scendi nella Decapoli della gente. Scendi a Gerico. Scendi a Ballarò. Scendi a Calcutta. Scendi nell’inferno delle Bidonville. Scendi soprattutto dentro di te. Noi tutti siamo quel sordomuto del vangelo. Sordi ad ascoltare. Sordi alla grazia. Sordi alla voce della creazione. Sordi alla giustizia. Sordi all’altro. Sordi e ci chiudiamo nella paura di ascoltare. Siamo prigionieri del nostro stesso silenzio. Siamo prigionieri del nostro stesso tacere. Siamo prigionieri nel buio dei nostri sospetti. Siamo senza ascolto. Prigionieri della paura dell’altro che ci giudica, ci squarta con lo stesso sguardo perfido del male. Chi non ascolta altro non è che un cadavere vivente. C’è sempre qualche angelo che ci solleva e ci porta oltre. Anche noi veniamo portati dinanzi a Cristo e Lui ci prende e ci porta in disparte. Non ha paura di toccarci. Ci fa dei gesti corporali. Non ha paura del nostro corpo. E’ un rapporto intimo, il suo. Ci tocca gli orecchi e ci apre agli altri. Con la sua saliva ammorbidisce la nostra lingua secca di parole e di amore. E’ il gesto della nuova creazione. E’ lo stesso gesto di Dio Padre nella creazione. Anche la creazione geme il lievito della nuova grazia. Il nostro sordomuto si apre. Entra dentro di noi la potenza dell’effatà. A volte mi chiedono come fai a resistere al dolore atroce del tuo spirito frantumato. Rispondo:”Mi faccio ogni tanto, un’effatà”. E’ il suo grido che mi dà unità allo spirito, unità al corpo e mi getto nell’unità del Corpo Mistico di Cristo. Apriti, amico all’ascolto. Apriti alla verità. Apriti a Dio. Non avere paura di Dio che ti ama. Apriti a te stesso, tu scrigno dello Spirito santo. Apriti. Non avere paura della tua stessa coscienza. Apriti e il mondo dell’amore si spalancherà dentro di te. Apriti e la fertilità della letizia germoglierà non solo nei tuoi occhi. Apriti, le virtù sono le tue lacrime che senza sapere ti hanno inebriato di tranquillità. Apriti al perdono. Apriti alla delicatezza di Dio. Apriti, esci dalla Decapoli della tua paura. Non vivere dentro la tomba del tuo egoismo. Esci, vai oltre il tuo sguardo, vai oltre il tuo dolore; i tuoi giorni non sono altro che le porte che si schiudono all’abbraccio di Dio. Non rimanere sordomuto per tutta la tua esistenza. Ti consiglio di ascoltare prima le tue vene, i tuoi respiri, i battiti del tuo cuore e poi ascolterai altro che è già dentro di te. Ascolta soprattutto l’eucaristia. Non dimenticarti che per 15 minuti sei Dio stesso nel pane eucaristico.
Paolo Turturro
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IL CROLLO DELLA POLITICA CORROTTA
Le banche sono i nuovi Dei. E senza sapere rischiamo tutti di entrare in questi nuovi templi per adorare le ricchezze. Da secoli sono caduti gli Dei, ora già crollano le banche. E’ un concetto strano: da più parti ci invitano a salvare le banche con gli stessi sacrifici dei cittadini. Qualcuno ha anche pianto. Ma è proprio vero che salvando le Banche si salvano i cittadini? E perché salvare le banche con i sacrifici dei cittadini? E perché non con l’eliminazione dei grandi sprechi delle stesse istituzioni. Vedi gli appalti e sottoappalti nel lavori pubblici, che causano veri fallimenti senza portare a termine i lavori? E poi non potremmo immaginare che la crescita del lavoro agli stessi cittadini e ai giovani, porterebbe denaro alle stesse banche per salvarle? Ma io sono statista della parola e non dell’economia. Tuttavia è semplice comprendere che solo il lavoro fa economia e dà serenità alle famiglie. Sono caduti gli Dei, ora cadono anche gli errori. Ho superato la tolleranza, perché già convivo con tutti nell’armonia della stima e del perdono. Amo la verità che cresce accettando le diversità. Che fatica a maturare dentro di noi la grazia. Non so chi fa più fatica, se lo spirito o il corpo. Ho bruciato ogni zizzania che la società della corruzione ha germogliato lungo i marciapiedi delle città. Ho sterminato ogni metastasi delle falsità. Troppe chiacchiere sui banchi della politica. Siamo al limite della sopportazione nel pensare che si fanno progetti solo per mangiare soldi. Appalti vinti da cooperative romane che nel sottoappalto vengono rilasciate al sud con le gravi conseguenze dell’inflazione. La rettitudine è la migliore garanzia dell’economia. Spillare è sempre il vizio che innalza barriere di freddezze umane. Ogni sorriso è l’eucaristia che nutre i poveri. Ogni pensiero buono è l’eucaristia che allieva la sofferenza. Ogni sguardo è l’eucaristia che ci eleva oltre la terra. La volontà ha muscoli di spirito. Ho perso il mio sguardo dentro l’immensità della misericordia che non comprendo. Come capire che Dio fa nuove tutte le persone con la sua sterminata misericordia. Cos’è la grazia? Perché stende a superare gli impulsi della carne. Perché il male impera di più specie nel nostro tempo? Sono qui nel silenzio ma odo dentro le angosce della gente che mi squarcia la mente. Ho il lievito più sicuro. La Parola vivente. Ho compreso nei miei respiri che sono il missionario della Sua Parola. La Sua Parola nel nostro spirito è Vespri, lodi, inni, uffici e sacramenti. Non mi sono isolato dal mondo per odiare il mondo ma sono qui con tutta la gente che urla, non solo al cielo, il lavoro, la morte, le malattie, le depressioni, la solitudine in mezzo al chiasso della folla. Non fondo un partito per rinnovare la politica o distruggerla con l’avarizia, ma vivo operando il Bene Comune. Forse bisognerebbe rileggere le encicliche della chiesa e i documenti del Concilio Vaticano II per comprendere la politica della chiesa. San Luigi Orione affermava che la nostra politica è quella del Padre Nostro. Sappiate bene che non si può operare la carità di Cristo con il denaro o tanto meno con le istituzioni politiche. La carità di Cristo urge ed è efficace per se stessa. Abbiamo perso la luce di Cristo mettendoci a servizio dei vari potenti. Abbiamo perso il sale della sapienza compromettendoci con le stoltezze dei potenti. Forse non crediamo più che in Cristo siamo davvero la luce del mondo e il sale della terra? Forse non ci siamo accorti che abbiamo perso ogni credibilità. Da tempo siamo credenti ma oggi non più credibili. Non si può essere credibili a braccetto con la ricchezza. E’ distrutta la falsità. La gente la sa lunga e comprende a volo le parole sottili dei palazzi e delle nostre stesse omelie. Sa bene che là dentro si agisce solo per il proprio tornaconto. Dentro di me c’è il bilancio del vangelo. Non mi interessano i giudizi di chi divora denaro e opprime la gente. Io so che quaggiù è instaurato il Regno di Dio. E ho deciso di dare a Dio una mano. Zappo la terra, coltivo gli ortaggi, raccolgo pomodori, mieto la vigna solo con l’intento preciso che ogni azione onesta, buona costruisce il Regno di Dio su questa nostra terra. Non vivo per il passaggio alla vita eterna perché con la rettitudine dell’anima già sei nell’eternità. Datti una scossa. Scollati da dosso il compromesso per un posto di lavoro o per un favore che non ti daranno mai. Dentro di te già fluisce il Bene Comune. E’ Dio che te l’ha infuso. E’ il tuo stesso Spirito che te l’ha seminato. Buona primavera, politica del tuo spirito.
Paolo Turturro
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IL CORAGGIO DELLA VOLONTA'
Staccare la presa della luce della mente è fin troppo facile. Non si vuole pensare in questo tempo. Non si vuole agire in mala tempora currunt. Eppure la maturità di una persona si misura dalla volontà di non cadere e di non mollare. Lontano da noi mollare il bene. Lontano da noi dimenticare Dio. Lontano da noi lasciarsi andare dietro la corrente delle quotidiane ingiustizie. Lontano da noi mollare la fede. Lontano da noi mollare la preghiera. Lontano da noi mollare la giustizia, la bontà, la lealtà. Abbiamo vissuto qui Borgo della pace un momento fortemente spirituale: ci siamo vestiti tutti con la stola lunga secoli di perdono. Forse ha iniziato Gesù Cristo a perdonare. Forse ha iniziato ogni persona nei secoli a perdonare. Ora tocca a noi. Ora l’appuntamento è per noi. E non possiamo non starci. L’appuntamento è dovere d’amore. Siamo pronti a non mollare il dono più alto dello Spirito Santo: per il dono della grazia. Perdono - per il dono. Il coraggio di esistere ci viene dal fuoco della volontà. Vuoi, esisti. Non vuoi, non esisti anche se cammini, mangi, dormi e forse parli. Il coraggio è frutto dello spirito che non muore mai in noi. IL coraggio ti dona il gusto delle cose sagge e puoi sentire: gustate e vedete quanto è buono il Signore. Lo gusti nella parola saggia di chi ti conforta. Lo gusti nel silenzio dei tuoi passi di contemplazione e di meditazione. Lo gusti nella volontà di celebrare l’eucaristia da solo sull’altare della solitudine. Lo gusti pur essendo emarginato dalla folla che non pensa, che non ode, che non vuole, che è sorda alla Parola che anima soprattutto la mente e la volontà di procedere. Si va da soli sulla lamina della luce che taglia il tempo e ti immette nell’eternità. Si va da soli all’incontro irrepetibile della tua vita: l’incontro qui sulla terra con Dio. E puoi essere Elia che nel deserto dell’esilio incontra la vedova dell’olio e della farina. Non pensare che Dio ti abbandoni proprio nel dolore. Non pensare che Elia venga rapito in cielo da un carro di fuoco, quando noi tutti sappiamo che il Carro di fuoco altro non è che la morte che ti porta oltre. La mia volontà è oltre. Oltre è il coraggio. Oltre i banali e sommari giudizi. Oltre è lo spirito che ti infuoca di coraggio, che ti elettrolizza di volontà. Oltre è l’amore che ti dà il coraggio di perdonare sempre. Oltre sono i tuoi occhi a scrutare l’orizzonte dello spirito. Oltre è la tua mano che scrive soprattutto nell’eterno del tuo sangue. Oltre sono le nostre opere terrene se si inebriano di carismi che non si perdono mai. In me ho fatto il pieno del coraggio per donare alla politica di oggi la saggezza, il discernimento di fare il bene comune senza denaro. Senza il denaro non è una utopia ma la concreta attuazione della stessa volontà del creatore che dona gratuitamente tutta la creazione. Ripeto senza denaro. Con il denaro non solo le istituzioni ma la stessa vita è una catastrofe. In me ho fatto il pieno del coraggio per donare alla chiesa le beatitudini della povertà, di spogliarsi di ogni potere di denaro, di spogliarsi di ogni Stato del tempo per annunciare la venuta del Regno di Dio. Gesù Cristo non mi ha mai deluso. Non lo mollo per seguire altri poteri. Non mi ha deluso, come è avvenuto in Giuda che pur non credendo rimane accanto a lui con la volontà di vendicarsi. “La falsità è il marchio del diavolo”. Non vorrei pensare che qualcuno sia in chiesa come Giuda. Ecco perché stiamo assistendo alla chiesa che soffre, che si disorienta, che è smarrita, che perde il sale della sapienza del suo sposo, che si spegne per stare sotto il moggio dei potenti per assicurarsi il potere del tempo. Noi ci vestiamo con la luce della Sua Parola che è vita, via e verità. Noi non possiamo portare avanti la chiesa con il denaro. Ancora non abbiamo compreso che è il Suo Spirito Consolatore a portarci avanti. Il sudore di Dio per riempirci di coraggio. Quanto ha sudato questo Cristo! Non solo nell’orto del Getsemani, ma a Cana per riempirci di amore. A Cafarnao per sollevarci dalla paura di annegare la fede. In Samaria per vestirci in Spirito e Verità. Nelle Sinagoghe per andare oltre la fede di ogni tempo. Il coraggio della mente e della volontà è l’eredità che Dio ti dona, solo quando tu hai il coraggio di affidarti a Lui. Doniamo tutti insieme, a questa nostra società, un’overdose di lievito di coraggio del Suo Spirito.
Paolo Turturro
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Le stigmate
Gesù dà croci a chi stima capace di portarle. Le stigmate di ogni uomo sono i raggi che Cristo Gesù ci dona per irradiarci di forza. Non so perché ha scelto me. Tuttavia non obbedisco a me stesso per non perdermi completamente. E’ morto, solo colui che vive senza lo Spirito santo. Io noto che lo Spirito del Signore mi ha provato duramente ma non mi ha consegnato alla morte. I salmi ora sono la mia carne. La preghiera è il mio respiro. La preghiera è il mio cuore. Ho scritto”Ti amo” sulle mie vene. La preghiera è la mia forza. La preghiera è la chiave per dialogare con Cristo. Contemplo il mio corpo e non ho piaghe. Me le ha prese su se stesso tutte il Signore. Entro nel mio spirito e le ferite sono profonde. Io non conosco sangue che scorre dalle mie mani. Non conosco sangue che scorre dai miei piedi. Le stigmate sono dello spirito. La teologia della sofferenza ti apre ogni sorriso, ti abbraccia ogni letizia. Da sempre ho vomitato ogni cilicio. La sofferenza appartiene allo spirito. Il tormento alla carne. Io non ho tormento. Vi assicuro, se potessi, esploderei di letizia. Non puoi immaginare quanto Dio ti desidera gioioso. Ho incontrato il monaco p. Nicola. Il suo libro “O Dio, tu mi desideri”, ed. Paoline, mi sta dando tanta gioia. Mi sono vestito con una stola lunga secoli di perdono. Sono sicuro, ce la farò a convertire chi ci ha fatto del male. Il perdono che tu dai è l’unguento crismale. Fa così bene che ti purifica da ogni tumore e metastasi. Provaci e dimmelo al più presto. Guarirai anche nel corpo. Su, forza, vestiamoci con la stola del perdono e convertiremo il mondo. Non so dirti come sono le stigmate dello spirito. So che entro nel nulla abissale. Nessuna sicurezza. Senti, amico, non pensare al tuo dolore. Tu non puoi sapere quanto profondo è l’annientamento dello spirito. Tuttavia sappi che le stigmate dello spirito ti aprono pagine profonde di santità che tu stesso non sai leggere. Dentro sei l’uomo del patire, sei l’uomo a cui tutti storcono il capo, sei l’uomo che ben conosce il patire ma che resti sempre forte nella fede del Signore. Nessun tormento può smuoverti dalla fede. Vivo di Lui. Nel suo fiato ho imparato a respirare Il Padre. Io non cammino più nel tempo. I suoi piedi sono i miei. Procedo nella sua luce di amore e di perdono. Sono sicuro che questa luce che ha invaso me, ora irradierà di luce coloro che distrutti dal male, usciranno alla luce. Tutti noi abbiamo impresso dentro le stigmate della vita. Le stigmate delle ingiustizie. Le stigmate delle guerre. Le stigmate dell’odio. Le stigmate dell’abbandono. Le stigmate del fallimento. Stigmate che accettate e offerte divengono raggi di luce. Noi ci riusciremo con i raggi della misericordia divina a convertire chi, sornione, vuole abusare ancora nel male. Amare ti spinge ad abitare nell’altro, a vivere sell’altro superando se stesso. E’ tempo della chiesa che salva. E’ tempo della chiesa che perdona. E’ tempo della chiesa che ama. E’ tempo di uscire dalle proprie paure che chiudono la chiesa nell’indifferenza più tetra. E’ tempo di uscire dalle sacrestie, di incontrare finalmente l’altro che è Cristo che ci visita. E’ tempo di aprire le porte dello Spirito Santo. Proprio nell’uscire dalle tue paure, splenderà la luce degli altri sul tuo volto. Ti accorcerai che questo volto non è dissimile dal Volto Santo che tu vuoi contemplare. Abbi cura di curare le stigmate di ogni malato. Ungi di amore le ferite di ogni cuore. Siano le tue parole balsamo di conforto e di fortezza per chi è depresso. Prenditi carico di ogni stigmate che ferisce ogni sacerdote, ogni religioso, ogni consacrato nella chiesa del risorto. Prenditi carico di chi soffre, abbandonati a lui, confida nell’ultimo, sii l’ultimo nel cammino di questa terra. Le stigmate che ti angosciano il cuore, le puoi guarire con il farmaco dell’immortalità, l’eucaristia. Non mangio più pane e lacrime. Ora Cristo mi nutre gioioso con il miele della sua salvezza.
Paolo Turturro |
GIARDINI DI DIO
Mi incammino alla ricerca dei giardini di Dio, non per essere il custode, ma solo come giardiniere, il coltivatore dell’amore. L’eden è all’inizio o alla fine dell’uomo? Come trasformare un campo di concentramento di morte in un giardino della vita? Come trasformare un campo di guerre in un giardino fertile? Quali foglie potranno essere medicina dell’immortalità? E quali frutti, cibo spirituale? Perché nella genesi ci viene negato l’albero della vita, mentre nell’apocalisse di Giovanni viene offerto ai beati? Forse l’uomo è la vita? E’ il principio della vita? La vita ci viene offerta. E’ un’occasione unica, irripetibile per l’eternità. Non c’è simbolo che possa raffigurarlo. Non c’è lepre che possa in esso rapidamente fuggire. Non c’è trono che possa essere innalzato. Non c’è porta da cui qualcuno possa entrare. Non c’è fuoco che ci possa infiammare. Non c’è fiume da cui possa scorrere acqua di cristallo. Non c’è mare dove possiamo placarci. Non ci sono quattro esseri viventi da cui viene irrompente il divino. Non c’è nessun vegliardo che possa vegliare l’Agnello. Tutto è inafferrabile. Tutto è ineffabile. Tutto nella tavola delle gioie del paradiso è descrivibile e indescrivibile. Ci fa venire l’acquolina celestiale il gesuita Jeremias Drexel. Non ci sono sigilli che possono con il fuoco essere sciolti. Né il primo, né il secondo, né il quinto, l’Agnello può aprire. E pur tuttavia l’oltre è dentro il cuore che si apre di anime, di angeli, di santi, di doni, di virtù, di martiri immolati a causa della Parola di Dio. L’Oltre è Cristo che apre le sue beatitudini. L’Oltre è il pane di Cristo che ci possa consacrare al Padre. Il sangue è Cristo che ci possa purificare nelle acque del giardino del Padre. No, non credo che il paradiso sono io. No, non credo che l’inferno sono gli altri. Io credo che dentro ognuno di noi c’è Altro, c’è Oltre ancora da scoprire. No, non credo che esso sia un tòpos, cioè un luogo. No, non credo che esso sia un ùtopos, cioè un non-luogo. E quindi oggi nella forza delle beatitudini una utopia. Dio non è una utopia. Il cielo è qui, come la terra è nel cielo. Possono distruggere l’eden del Tigre e dell’Eufrate, mai l’Eden dello Spirito. Io non credo che Nerone o un qualsiasi dittatore possa incendiare i giardini di ogni cuore. Io non credo che il diavolo possa svanire il cielo. Si, i giardini di Dio sono in noi. E’ il giardino delle virtù di ogni uomo. E’ oltre le nostre grazie. Non solo capace di asciugare le lacrime, il pianto, il dolore. Non solo capace di eliminare il peccato del mondo e la morte. E’ Oltre. Indescrivibile. Persino ora impercettibile. Tra noi e il cielo non c’è una bara. Tra noi e il cielo non c’è una carrozza funebre a viaggiare. Tra noi e il cielo non c’è un passaggio da pagare. Tra noi e il cielo c’è solo l’ascesi di Colui che è disceso dal cielo. Tra noi e il cielo ci sei tu che ci unisci al Padre. Tra noi e il cielo non c’è un fiume che ci separi o da traversare. Tra noi e il cielo non c’è una negazione che ci impedisce di andare. C’è Oltre. Come capirlo? Come entrare? Non c’è dato comprenderlo se non con i simboli. Tra noi e il cielo tuttavia non ci sono solo simboli. Eppure Gesù Cristo ce l’ha svelato il giardino del Padre. Ecco lo svelo anch’io a voi, seppelliti di terra, seppelliti di materia. Non seminati per germogliare. E’ il giardino delle delizie delle beatitudini. E’ l’Eden delle parabole. E’ l’Eden della misericordia. E’ l’Eden: c’era un uomo che scendeva…E’ l’Eden dell’adultera che coglie sulla sabbia della rabbia solo il perdono e l’amore: la tua fede ti ha salvata. E’ l’Eden del cieco nato che apre gli occhi all’incanto che Dio è qui che ti parla, è qui che ti ama. E’ l’Eden del Cenacolo: questo è il mio corpo, per voi dato. Questo è il mio sangue, per voi versato. E’ l’Eden della croce che puntualmente all’alba dell’ignoto risorge. E’ l’Eden del Cenacolo che pieno di paura e di morte si riempie di ”pace a voi”. E’ l’Eden della samaritana che inonda di sorgente che zampilla dentro l’uomo, non solo dentro un pozzo di terra, pur profondo. E’ l’Eden di amare Dio in Spirito e Verità. E’ l’Eden dell’amare: Ama Dio e il prossimo tuo, come te stesso. E’ l’Eden di amare persino il nemico, perché nessun uomo è fuori di Dio. E’ l’Eden dello Spirito di Verità. Ecco il quinto sigillo: tra noi e Dio non c’è altro che amore. Il quinto sigillo è l’amore. E sulla tavola dell’Eden si consacrano i pensieri di Dio. Benvenuti nel giardino di Dio. Benvenuti, anche se tutto è indescrivibile. Benvenuti anche se tutto inconoscibile. Eccoti, siediti a mensa con lo Spirito della verità. Benvenuto, anche se qui canti l’ineffabile. Benvenuto alle nozze dell’amore. Benvenuto al giardino dell’amore di Dio.
Paolo Turturro
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Il talento della luce
Finalmente cambia il vento. Nasce il primato del bene collettivo. Per far questo la risposta non sono i partiti ma i cittadini responsabili. Io, Daniele, sognai la macchina del fango. Un motore sempre acceso, sempre a scoppio, sempre in movimento, sempre in agitazione e in compressione. Una macchina che stritola tutto, senza pietà e senza coscienza. Una macchina che procede con la benzina del sudore della gente. Eccola in azione. Distrugge tutto ciò che si oppone. Si compiace e si gonfia di chi si sottomette. Spazia dai paesi alle città, dal mare ai monti, dai fiumi alle colline, dalle valli alle pianure. Tutto può, perché chi guida o chi massacra ottiene con prepotenza il potere su tutto e su tutti. E’un potere forte. E’ un potere che tutto vogliono, per cui è giustificata la sua insolenza. Tuttavia è un potere irraggiungibile a molti. Non conosciuto e oscuro per pochi. E’ un potere che schiaccia, senza farti respirare. E’ in moto dalla mattina alla sera. Di giorno e di notte. Feriale e festivo. E’ sempre in azione per paura di perdere se stesso, di perdere il potere. La macchina del fango imbratta senza che tu te ne accorgi. Diventi subdolo del suo stesso fango. Una macchina che sale e si arrampica non solo sulle tue spalle, ma rischia di salire e scendere liberamente sulla tua stessa coscienza, rendendoti indifferente alla tua responsabilità. Non ti rendi conto che le tue mani in fin dei conti sono le sue ruote. Una macchina che sale e scende in ogni dove. Sale per fare le scarpe a tutti. Scende per non fare salire nessuno. Fa il violino per non pagare mai e per nascondere le sue perfide intenzioni. E’ una macchina micidiale che pochi sanno usare, perché l’accensione è nascosta, nel quadro della propria blindata coscienza corrotta. E’ un’accensione invisibile, come le intenzioni invisibili dei malvagi. E’ una macchina che sale in ogni documento, in ogni progetto, in ogni decreto, su ogni traliccio e soprattutto sui solchi dolorosi e incarnati delle spalle della gente. Una macchina che più si guasta e più veloce procede. Più distrugge e molto più ai pochi produce affari. E’ una macchina che potrebbe essere eliminata solo con la ripresa della propria coscienza. E’ una macchina mostruosa che tutti sanno che esiste ma nessuno è capace di vederla per denunciarla. E’ difficile eliminarla dal quadro delle proprie amministrazioni, dai bilanci dei conflitti di interessi. E’ una macchina che progetta paura appena osi di sapere. Costruisce cose e case di affari privati. Venne un uomo, chiamato Coscienza che credeva al talento della luce. Un uomo che veniva dal mare. Un uomo con la bussola d’amore nell’anima. Un uomo che sapeva amare. Un uomo che imprevedibilmente indicò a tanti la responsabilità di quella macchina, invisibilmente chiusa dentro ogni uomo. Fece capire nel profondo di ogni cuore che gli artigli di quella macchina erano le mani sporche di ogni cittadino; che le ruote altro non erano che le subdole sottomissioni ai potenti di turno; che il motore andava a benzina del sudore della gente; che quella macchina, per i più invisibile, quasi inesistente, in fin dei conti era stata costruita dalla paura di molti. Quella macchina, a tutti inesistente, era nel garage delle proprie scelte. Invisibile ma presente ogni qualvolta la gente si scoraggiava e mollava tutto nelle mani dei prepotenti. Una macchina che appariva ogni qualvolta la democrazia aveva la faccia dell’ipocrisia. Era la macchina della non coscienza. Quel uomo fece fatica a far capire che la macchina era ogni persona che si arrendeva al male, al sopruso di ogni genere. Ogni volta che ti chiudi nella paura, la macchina si accende e ci infuoca di smarrimento. Ogni volta che ti serri nella diffidenza o nell’indifferenza, la macchina esplode velocità. Così avvenne che quella macchina fu costruita da tutti noi che cadiamo nella paura di essere voce libera e chiara. Fu allora che quel uomo, chiamato Coscienza, con il talento della luce, con il talento del discernimento e del coraggio, diede a se stesso e a tanti uno scossone alla responsabilità del bene comune. Uno scossone per tutti, dai più deboli ai più incalliti, dagli ultimi ai primi che bramavano ancora sedersi sulle poltrone di quel mostro. Quando si è incollati alla propria poltrona, si strappano persino i pantaloni, per sradicarsi dal potere. Finalmente quella macchina apparve in tutta la sua bruttezza. Finalmente quel mostro apparve agli occhi di tutti, visibile e dentro la stanchezza di ogni cittadino. La maggior parte della gente si accorse che, senza sapere, essa stessa l’accendeva derogando la democrazia ad altri, derogando i diritti e doveri a una democrazia calpestata da falsi progetti e da subdole intenzioni. In breve quel uomo prese coscienza anche di se stesso. D’allora in città non si vide più quella macchina del fango. Ora si accendeva sicura lo spirito della coscienza del bene comune, producendo non solo benessere economico ma creando una cittadinanza attiva, consapevole e a misura d’uomo. Buon viaggio Coscienza, condotta dal talento della luce. Buon viaggio Coscienza, sulle strade di ogni uomo, sul bene della luce che ti fa comprendere e capire. Buon viaggio Coscienza, perché ognuno possa vivere sereno con se stesso e nella propria casa.
Paolo Turturro
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Sulle vette delle ali
Sui monti germogliavano ancora le stelle alpine. I cervi arditi scattavano voli sulle rocce, creando paesaggi d’animo. Giù scorrevano corsi d’acqua, nelle vallate degli oleandri. I paesi seminati di colori, dall’alto delle vette, sembravano ammassi di pietre e di ciuffi di rose e gardenie. I sogni non sono di terra e non si impastano con l’argilla. Qui sull’orizzonte delle vette abitavano i cervi. Saltavano superando ostacoli. Mi spingevano il respiro desuper. Mi invitavano a seguirli sui prati dell’infinito. Quanti quassù! Le loro zampe sembravano ali, capaci di superare e di sgretolare le rocce del male. Si muovevano a gruppi. Saltavano vuoti di panico. Gimmi, il più giovane dei cervi, apriva sentieri nuovi, sfidava macigni altissimi. I più deboli però, pensavano che Gimmi non avrebbe mai potuto superare i crepacci ideati da inganni e tranelli. Soprattutto i processi della vita addossati da grumi di cattiverie. Ma Gimmi sfidava le ingiustizie, affrontandole caparbiamente. C’era tra i cervi un dissenso al suo ardire, a volte un dissapore che faceva molto soffrire Gimmi. Alcuni, flemmatici e paurosi, preferivano la tranquillità del quotidiano prato conosciuto. E affermavano: “E’ meglio brulicare l’erba sicura della propria collina, senza rischi di alture e di vette da scalare con il rischio di precipitare. E’ meglio accontentarsi dell’erba secca che ci impastano i padroni. E’ meglio farsi i salti propri, comodi e beati, senza disturbare le altezze del vicino”. Gimmi però, non era affatto per il quieto vivere che distruggeva l’esistenza e la professionalità dei cervi che ardivano i cieli delle vette. Senza ardire, non si può assaporare gli orizzonti delle virtù che si colgono sulle alte dimore della vita. Il dissenso era tale da cacciare fuori del branco Gimmi e i suoi seguaci. Gimmi non stava ai compromessi, non si abbassava ai ricatti, così un giorno si presentò la cerva Divina che lo animò alla calma. Moine di tutti i tipi per distogliere Gimmi dai suoi progetti di giustizie e di legalità. Una cerva è sempre più affascinante a dissuadere i cervi dalle grandi imprese. Fu tempo perso quello della cerva Divina. Ci voleva altro che una cerva a fermare le ali della volontà di Gimmi. Del resto, il nostro giovane cervo si accorse ben presto che la cerva Divina era piuttosto spinta da altri interessi a ingannare solo se stessa. Tuttavia i grandi cervi lo cacciarono fuori. Le decisioni della terra non sono sempre in sintonia con quelle delle vette dei pensieri che la coscienza di ogni vetta ti fa respirare. Gimmi sapeva che lassù, sulle vette delle altezze, c’era la risposta ai suoi perché e dei perché di tanti cerci come lui. Bastonato, umiliato, fuori del branco, come colui che è fuori delle mura della propria città, si avviava sui macigni impetuosi, dove le tempeste degli anziani cervi, imperavano fulmini e tuoni per deprimerlo. Chi è emarginato, esiliato, fuori di ogni comunità di esistenza, diviene troppo facilmente preda di ogni sospetto. I paesaggi dell’anima, meditati sulle alte vette della sua volontà, ben presto gli aprirono altre sicurezze. Ora riusciva a dialogare con le stelle alpine come con quelle del cielo. Lassù dialogava con i cervi di tutti i secoli. Ora persino un cerbiatto lo invogliava:” Coraggio, più in alto. Coraggio, quel macigno è superabile più di quanto immagini. Coraggio, le vette non ti sono nemiche. Coraggio, lassù c’è un orizzonte che ti apre infiniti spazi”. La vetta più rocciosa è la nostra coscienza. Non si finisce mai di scalarla. E’ irta più dell’infinito. Più sali e più alta è. Più sali e ti sembra di essere ancora sui ciottoli del primo sentiero. Quanto è amaro scalare la propria coscienza tutto da solo. Ti appare inesistente. Ti appare un’illusione entrare nel meglio di se stessi. E’ amaro, più del fiele. E’ amaro, più di ogni martirio di sangue. E’ amaro. Persino desideri di negare la sua esistenza, dato l’impossibilità di conoscerla a pieno e di saperne davvero la sua reale identità. Gimmi però era fatto di altro spirito. I suoi occhi non brucavano in basso. Non solo le zampe erano ariete, ma tutta la sua corporatura era un acciaio di volontà. Era del tutto diverso. Gli anziani cervi la rimproveravano per le sue assurde pazzie. Non tutti i cervi però sono pecoroni. Filtri e Velli, i due cervi amici, fecero sapere agli anziani cervi di non approvare le loro decisioni di cacciare fuori Gimmi. Così si unirono a lui per scalare il cielo, non più su una torre di Babele. La torre di Babele è la nostra superbia, è il nostro rigettare l’altro come nemico, è il non capire l’altro come dono di Dio. La torre di Babele è l’odiare, è il possedere non solo il denaro ma persino le coscienze degli altri. Non si comprende nell’amore. La torre di Babele è lo scheletro di chi non ama, è la confusione dei linguaggi dell’odio. Il mondo migliore si costruisce assieme. Così Filtri e Velli saltavano assieme a Gimmi, giungevano a posizioni altissime di solidarietà e di fratellanza con l’universo delle vette delle ali. Insieme scalarono i cieli delle virtù. Insieme gridarono sui crepacci delle bombe esplose dai soliti ignoti:” Noi non abbiamo paura! Le schegge dei vostri artigli non possono giungere sulle vette delle nostre ali”.
Paolo Turturro
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Il gabbiano Giustizia
Giocavo sulle onde della spiaggia di Carini, assieme a una decina di ragazzi che danzavano come pietre sfrecciate sulle onde del mare. I gabbiani picchiavano alghe porose di pesci. A riva gli strati di fogli di roccia sagomavano diluvi e battaglie primordiali. Un gabbiano, dalle ali più possenti, guidava uno stormo sui crepacci e sui cavalloni biancastri impennandosi più alto, oltre, oltre il punto estremo dell’orizzonte. “Come lo chiamiamo?”- suggerii ai ragazzi che perdevano i sogni tuffandosi nei muri d’onda. “ Lo chiamiamo “Gabbiano Giustizia”, per il suo ardire il cielo, per il suo desiderio di trasparenza, per le troppe stragi sui gabbiani. Volava alto, volava oltre il nostro sguardo. Oltre il monte. Volava oltre le visioni basse di ogni altro gabbiano. Volava oltre le barriere di ogni divieto, di ogni ostacolo alla libertà. Si perdeva nei sogni, appariva di nuovo sulle vele dei bastimenti, si impennava oltre il blu scavato nel mare. E un ragazzo sfidando il vento sognò che il Gabbiano Giustizia scomparve lontano, sulle steppe dei pianeti, nell’entropia degli spazi e dei tempi. Il gabbiano Giustizia volava alto, non voleva assuefarsi al volere dell’atmosfera, al volere del potere, al volere dei governi corrotti, al volere dei potenti, al volere del denaro, al volere delle mafie, al volere delle massonerie che usa comprare le coscienze per concedere poteri, impieghi, successi, onori e posizioni. Quanto soffrire per volare libero. Quante umiliazioni per innalzarsi oltre le banali visioni umane. Ogni potere ha sempre una chiave blindata di misfatti. Il gabbiano Giustizia volava alto, pur emarginato dai suoi stessi compagni, anzi esiliato dalle loro convivenze, volava in alto con la chiave della sua coscienza per aprire quella blindata maledetta porta. Dentro quella cassaforte c’erano scritti tutti i segreti del potere, persino quello assurdo di credersi Dio o di divenire Dio. Il gabbiano Giustizia pigolava alto:”Quis ut Deus?” “Chi come Dio?” E in questo suo ardire picchiava muri, raffiche di vento, incontri, convegni per svegliare la coscienza della gente. E molti gli urlavano:” Chi sei tu per vedere così in alto, per aprire le nostre coscienze assopite?” Stormivano gli altri gabbiani. Allora il gabbiano Giustizia decise di entrare nella politica della coscienza, libero da tutti. Sembrava a molti una utopia, un’alienazione, un ritirarsi in convento, un segregato dal mondo, un abbattersi da solo, un relegarsi nel mondo di una coscienza che nessuno sa leggere. Invece liberamente ardiva salire sul monte della sua coscienza, liberamente sul monte del discernimento, liberamente sul monte di ogni pensiero, liberamente sul monte di ogni decisione. Salire con lo spirito per generare nella terra la politica della coscienza. Salire con i piedi non è sempre difficile, si suda soltanto. Salire invece sul monte dello spirito, sul monte dell’impegno, sul monte della solidarietà, sulla sorgente della speranza, sul monte dell’onestà è più ardo e si rischia il capogiro delle gelosie. Saliva, volava sulla cima di un monte dove splendeva la chiesa della verità. Pensò di riposarsi un po’ sul campanile dell’orizzonte. Si posò sul nido dentro le bifore del convento, poi dentro la cupola, non delle mafie, non delle banche del potere ma dentro una piccola cupola della moralità. Spiccò il volo e abitò silenzioso in quell’eremo di coro eterno di frati. Nessun politico oggi chiede consiglio a un santo. Non dirai mica che non ci sono più santi sulla terra? E padre Pio? E padre Puglisi? E padre Diana? E Oscar Romero? I monaci oravano salmi e preci per i poveri. Salmodiavano inni di giustizia. Oravano per il bene della valle delle metropoli. In quella piccola nicchia il nostro gabbiano Giustizia scorse appollaiato sereno e mite un altro gabbiano: il gabbiano Misericordia. Volava sempre sullo stesso colle, a chiede consigli a una croce. Beccava baci a un Crocifisso e ora amava tutti quei gabbiani che lo avevano spennato di sangue un tempo sulle scogliere del male. Il gabbiano Misericordia amava sempre, dimentico del male ricevuto. Era nato per amare e basta. Non posso qui, amici, nascondervi l’evento stupendo che accadde in quella piccola nicchia del convento della coscienza. Il gabbiano Giustizia s’innamorò del gabbiano Misericordia. Allora assieme volarono più in alto, più alto dell’impossibile. Cercarono un convento più alto, più silenzioso per sposarsi. Trovarono il cielo per letto. Capì il gabbiano Giustizia che non si lotta da soli. Un gabbiano solo è sempre in cattiva compagnia. S’innamorò e nel loro amore nacque il gabbiano Pace. Buon volo gabbiano Pace nelle valli della terra. Buon volo negli anfratti delle ingiustizie. Buon volo nel tuo ardire giovane. Buon volo. Suo padre, il gabbiano Giustizia, gli suggerì pochi consigli: “Non mollare mai. Conosci e supera subito le difficoltà di ogni volo. Non essere superficiale. Fortificati con le ali della cultura. Ricordati che si vola su due ali: cultura ed economia; salvezza e amore; giustizia e misericordia. Spezzandone una si perde e si muore dentro. Abbi sempre nell’altro gabbiano, nell’altro che ti ostacola, un’ala di riserva. Non beccare insetti o lombrichi per salire in alto. Non tuffarti sui vermi dell’immondizia dei pensieri del potere. Il gabbiano Pace volò e vive tuttora nel nido di ogni nostro cuore. Ci insegna che le ali della cultura planano con quelle dell’economia. Ci insegna che le ali del possibile planano con quelle dell’impossibile. Vive da sempre nel cielo della giustizia. Vive da sempre nelle utopie di ogni giovane, nelle utopie dei nostri occhi. Vive da sempre negli sguardi di ogni speranza. Vive da sempre nei milioni di anni carichi di silenzi. Vive nella coscienza di ognuno di noi. E’ il padre di ogni nostra speranza. E’ il padre di ogni giorno. Apre in ogni mattina la politica della coscienza. Per questo ogni vivente, se vuol far giustizia, deve volare sul monte della propria coscienza. Là è il sapere giusto. Là è il sapere vero. Là è amare il nemico. Là è perdonare chi ti ha ucciso. Là è la fonte del vero amore. Là è la sorgente di ogni bene. Là è la chiesa della coscienza.
Paolo Turturro
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La tunica della fede
“La disgrazia attuale della chiesa è il paganesimo dell’immensa massa cattolica”. (Il vangelo della gioia di Louis Evely). Quanto tempo è passato, caro Louis, dal tuo gioioso libro e ancora oggi così attuale. Non siamo più luce. Non siamo più sale della terra. Abbiamo dimenticato, in ogni cosa, cos’è il lievito. Sono solo cristiani di gesso. Gesso impastato per assistere passivi ai riti di occasione. Cristiani senza esperienza di Dio. Cristiani senza gusto di Dio. Cristiani parati di sacro e vuoti di esistenza. Cristiani che adempiono i loro doveri solo per salvarsi. Fede di una tantum all’anno. Cristiani senza sapere amare. Cristiani vuoti di conoscenza. Cristiani fatti di fede passata e mai passata sulla propria pelle. Cristiani che pregano un Dio di cui hanno paura. Io sento la fede, midollo delle mie stesse ossa. E’ consustanziale al mio stesso respiro. Io respiro con Dio. Io palpito con Dio. Ho una tunica fatta di carne e di spirito. La mia tunica è la fede. La mia tunica è lunga secoli di persone e di meditazioni. La mia tunica è la corale dei santi. Non credo per sentito dire. Tanto sono stato testardo, da smuoverlo a manifestarsi. La mia tunica è la stessa gioia di Cristo che ha voluto donarla gratuitamente, per di più pigiata e piena per tutti. La mia tunica mi avvolge d’infinito. Mi avvolge di misericordia. La mia tunica avvolge il cielo. Non è necessario essere nati nel cattolicesimo per essere avvinti dalla tunica di Cristo. La sua pelle, ora è la mia tunica. La mia tunica è il suo cenacolo, una mensa dove tanti, molti, gli smarriti, i poveri si siedono a consumare ciò che Dio nel tempo e nell’eternità consacra. Sono vestito di pane, per sfamare lo spirito dei delusi. Sono vestito di Provvidenza, con un’economia democratica e gratuita. Sono vestito di luce per illuminare chi è nelle tenebre. Sono vestito di sangue per sanare le ferite di molti che lacerati hanno appeso al fico la loro tunica. La mia tunica è la fratellanza. Percorre secoli, terre, nazioni, galassie e universi. Sulla tunica che avvolge tutti i popoli ho scritto:”Ti amiamo!”. Tessitura forte. Resistente agli ultravioletti del male, alle onde magnetiche oscure. Tessitura dalla resa di vittoria. Tessitura impenetrabile per corrompere le maglie dell’unione. Tessitura leggera, avvolge senza opprimere, avvolge senza attacchi di panico dell’ignoto. Soave e morbida al tatto di ogni profumo. Tessitura di resistenza e mai di resa all’inganno. Tessitura d’ingegno. Tessitura che ci sprona alla vittoria dello spirito. Tessitura dalle fibre di spirito. Vince, chi non si arrende mai. La prima ad amare è la luce. Abbraccia le aurore con piedi scalzi sulla sabbia. Sprigiona i giorni. Splende i prati dell’ignoto. Colora la subbia di vellutate corolle. Scorre corsi d’acqua. Non segna i confini. Apre la libertà agli orizzonti. Olezza di crisma i corpi. Accalda di tenerezza le famiglie. Ci libera dalle ansie. Discerne le profondità delle intuizioni. Consacra l’affetto in ogni gamete di vita. La mente è la sorgente della luce. Nel nostro zoppicare pensieri, si erge sicura di certezze. La luce della tunica della fede è il fuoco che muove l’universo. Arde le vene delle galassie. Ti spalanca Dio nella nascita delle stelle. Anche il più prezioso gioiello, senza la luce, è oscuro. Essa stessa però è opaca dinanzi alla luce di Cristo. La luce non ha confini. Anche il tuo camminare, senza la luce, si ferma. La mia tunica germoglia un fiume di papiri, di calendule, di ribes, di angelica, di zagara d’ulivo, di assenzio, di betulle, di begonie, di iris e tulipani, mi spalanca un fiume di vento di novità. Veste paesi, feudi e città nuove. La mia tunica è musica di altro cielo. La mia tunica avvolge di tenerezza la tua anima stanca. Riscalda il tuo corpo. Profuma la tua speranza. Ti inebria di nuovo cammino. La mia tunica di fede è l’eredità che lascio al mondo.
Paolo Turturro
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ARMONIE E DISARMONIE
Finalmente mi sono visto nel vangelo. Sono stato per tanti anni ai bordi della piscina di Siloe. Mi ha tuffato dentro la voglia di amare. Ora mi parla il Vangelo. Spesso nel Vangelo ci vediamo riflessi gli altri e non noi stessi. Ora sono Zaccheo, sono il centurione, sono un tralcio, sono un pezzo di pane avanzato e non perduto, sono quella pecora smarrita e caricata sulle spalle del buon Pastore, sono una giara piena di acqua pronta ad essere vino di nuove nozze con Dio. Sono un cenacolo, sono un grembiule per amare, sono un unguento di nardo per sanare, sono una barella che cammina, sono un tetto scoperchiato per riempirmi di cielo, sono una pietra davvero scartata, non sono più un salmo di lamentazione, sono il cantico delle creature, sono una montagna, dove Cristo pronuncia le sue beatitudini, sono il cortile dei gentili, dove il dialogo per ogni agnostico diventa esplosione di perché che portano a Dio. Sono uno straccio pronto per essere tovaglia di altare. Sono una tunica, nessuna me la divisa. Sono un lago dove molti pescano grossi pesci. Sono quella brace accesa all’aurora per i discepoli smarriti dopo Emmaus. Sono quella rete, avvinto dal suo amore. Spesso ci scandalizziamo degli altri e non di noi stessi. Mi sono scandalizzato e mi sono trovato tutto potato dentro. Deve essere una cosa terribile per Dio che ci vuole toccare il cuore e invece ci trova costantemente insensibili, freddi e indifferenti all’eterno. Sento le vene canali fluenti di grazie. Non manco di fede dinanzi a tanto stupore. Dinanzi alla balaustra non resisto più a Cristo che mi ama. Quanta resistenza all’amore di Dio! Non so chi è più debole: Dio o il nostro cuore? Di chi hai paura: di un santo o di un diavolo? E Lui continua a creare. E’ il creatore dell’ancora inesistente. E’ l’agricoltore che ha infuso in tutto il creato la capacità di evolversi, di rivoluzionarsi, di perfezionarsi. Ecco ora il Signore è il mio agricoltore. Sono pronto a nuove coltivazione. Sono pronto ad essere zappato, sradicato, vangato. Sono in comunione con la vite dell’universo che è Cristo Gesù. Dio è il creatore e non può che creare continuamente. Per questo tutta la creazione si rinnova e non finirà mai. Ci ha donato l’energia di rinnovarci, di ricrearci, di evolverci, di perfezionarci fino all’eternità. Egli è l’agricoltore. L’universo diventerebbe selvatico se non tagliasse i rami secchi. Sono secche le stelle che cadono. Sono secche le meteorite che si frantumano. Sono secche le galassie vuote di vita. Egli taglia continuamente le vie dell’universo per renderle fruibili nell’accesso per tutti, perché ognuno giunga fino a Lui. Egli taglia i nostri rami secchi. Oh! La nostra vita sarebbe davvero selvatica se non tagliasse il tempo che scorre, se non tagliasse le nostre superbie di attaccarci al terreno del tempo, se non tagliasse i nostri limiti che crediamo virtù. Ecco Egli ci pota e sentiamo in una malattia che il mondo ci crolla addosso, che finisce l’armonia della certezza della nostra stessa famiglia. Egli ci pota e avvertiamo il collasso di tutte le nostre armonie. Crolla la sicurezza di un lavoro. Crolla tutto ed emergono in noi le infestanti disarmonie che ci buttano a terra nella totale debilitazione e depressione. Crolla l’armonia della nostra stessa vita. E la sua potatura ci sembra ingiusta. Ci sembra orrenda. Ci sembra disastrosa tanto da gridare:” Perché proprio a me?” In un tumore inaspettato, in una tegola caduta in testa senza accorgercene, si spezza persino la fede. Tutto è depressione e non capiamo perché Dio continua ancora a potarci. Emergono nelle lacerazioni dello spirito tutte le disarmonie che dentro avevamo e che per niente volevamo vedere, anzi le rifiutavamo in noi, anzi le nascondevamo, sconosciute, inesistenti persino a noi stessi. Emergono con potenza le disarmonie nelle potature subite e non accettate. Eppure è compito nostro prendere coscienza delle nostre disarmonie: non volere bene a una sorella che ci ha fatto del male, rifiutate un amico o un marito che ci ha traditi, tentare di gettarci da un ponte, tagliarci le vene, riempirci di barbiturici, rigettare noi stessi con i nostri limiti, difetti e peccati, non sapere perdonare chi ci ha calunniati, rigettare persino la chiesa e il suo Dio a causa di certa gente di poca fede. E’ compito nostro accettare le nostre disarmonie emerse nella potatura del dolore e convertirle in una nuova armonia. Senza questo passaggio, così arduo e personale, diventeremmo delle persone sclerotiche, depresse. La volontà di accettare ogni evento buono o doloroso della nostra vita, crea in noi un continuo equilibrio, donandoci frutti abbondanti di Dio. Lottare con noi stessi nelle disavventure, sono i migliori nostri anni. Ecco perché Cristo ci assicura che il Padre pota, perché portiamo molto frutto. Considerate questo: Cristo è la vite e noi i tralci. Pensa ancora: non è il tronco a germogliare i frutti, ma sono i tralci a maturare grappoli rigogliosi di uva. E’ gioia vera, creare in noi, negli eventi disastrosi, accettati e superati, l’armonia dello spirito che olezza la linfa del nostro corpo in profumi di grazie, di equilibri e di armonie. Cicerone ci ha scritto che i libri sono i nostri migliori amici. Io vorrei dirti in silenzio: il libro della tua coscienza è il migliore tuo amico.
Paolo Turturro |
CORSI D'ACQUA
Mi ha caricato sulle sue spalle. Mi auguro che ogni incubo in te sia finito. La mente ha secoli di luce. Tuttavia non mi attacco al suo cervello. Il cuore e la mente sono la casa di Dio. Ha scelto la parte migliore e nel contempo nascosta persino a noi stessi. Ho spento dentro di me le emozioni. Ho deciso di vivere di certezze eterne. M’illumino di eterno. Da tempo faccio un’esegesi del mio pensare, del mio vivere. Non ho seguito i precetti tanto per moralità o per castigo. Vivo di poesia. Soltanto la poesia traccerà nuovi sentieri all’economia. Finché ci percorre dentro un filo d’energia di poesia il mondo non morirà. Basta un canto di un innocente e l’umanità si salverà. Chi si attacca al potere, ha strette idee. Percorre solo labirinti di incertezze. E’ finito il tempo del re nudo. Solo chi ama, perdona chi non sa amare. Non ho conosciuto uno che paga lo spirito. Eppure tutti noi soffriamo per il suo alito in noi. L’economia della nostra società è sterile, perché ci hanno seppellito l’anima del commercio. Abbiamo addosso macigni di roba, senza un respiro d’animo. Carta che ci incarta e ci seppellisce. Cibo che ci gonfia e ci avvilisce. Denaro pesante che ci fallisce. Terre e sassi che ci sotterrano. Tante cose sappiamo senza più amare. Tante cose vendiamo e compriamo senza farci bene. Ho le vertebre rotte, da tempo persino quelle dello spirito. Per questo Colui che è vero Pastore mi ha caricato sulle sue spalle. E’ una letizia viaggiare con Lui. Sento le sue spalle forti e sicure. Ha deciso di non abbandonarmi mai. Tuttavia scalpito tanto da voler scendere e camminare ancora da solo in questa selva oscura non solo nella notte. Sulle sue spalle contempo vallate, sentieri ardui, battaglie di spirito, pascoli di carismi e di virtù. Sto fin troppo bene sulle sue spalle. Tante lacrime ho versato su i suoi capelli. Quanti miei strapponi di ribellione hanno lacerato la sua tunica candida e leggera come la lana. Mi sono troppo stesso dimenato per scendere nel male e Lui più tenace che mai a sorreggermi forte, ad avvinghiarmi di tenerezze, a calmarmi di serenità. Ho compreso anch’io che non ci sono sulla sabbia del tempo orme che lo ricordino. Lui vola sulle arene dei nostri perché. Lui ti slancia oltre le nostre passioni, i nostri dubbi, il nostro vostro volare basso basso sulle quote dei nostri futili interessi. Lui si inerpica sulle rocce della nostra sclerotica mente. Lui ti intima un dialogo silenzioso che solo sulle spalle del suo silenzio puoi sentire. Quanti strappi di capelli ho frantumato nei suoi sacramenti. E Lui a sopportare la mia insolenza. E Lui a far fatica a non farmi cadere giù nel baratro della disperazione. Anzi mi ha colmato sulle sue spalle di grande armonia. Mi ha messo dinanzi le mie disarmonie e con delicatezza mi ha convinto a eliminarle e a coniugare nel mio spirito, con le sue carezze di certezza, soltanto armonia di perdono e di discernimento. Quanto pesano i miei scarponi di pensieri e di peccato. Ho flagellato persino il suo volto per volere andare lontano da Lui. Io so che ha sudato tanto per non lasciarmi cadere ed essere un perduto. Nei momenti più dolorosi mi ha avvinto con le sue mani al suo collo e al suo petto. Mi ha caricato sulle sue spalle e solo ora comprendo che ha tanto sofferto per me, a reggermi persino sulla sua croce, che pesava, pregna di crimini dei secoli, sul suo animo lacerato persino dai miei dubbi. Io che pensavo che non si curasse tanto di me, mi sono accorto troppo tardi sul suo stesso patibolo che tanto l’ho maltrattato e che tanto invece Lui mi ha amato. Amico, Cristo non è solo l’uomo della croce. Egli è il Pastore che ti accarezza e ti sorregge senza che tu lo sappia. Anche nelle tue sofferenze puoi avvertire la sua fortezza. Ti solleva sulle sue spalle. Ti abbraccia al suo petto. Ti stringe al suo collo, come una collana preziosa. Anche nei dirupi più spinosi e fitti di tenebra, Lui scende a condividerti, a sollevarti sulle sue spalle di sacramento, sulle sue spalle di beatitudini, sulle sue spalle di carismi e di virtù che ti slanciano fuori dalle selve delle cattiverie e ti fa pascolare sui prati della sua Parola. Rifugiarsi in Lui, è meglio che fidarsi degli uomini. Rifugiarsi in Lui, è l’uscita di sicurezza di ogni tuo problema. Tu, pietra scartata, in Lui divieni pietra angolare del suo stesso spirito. Non preoccuparti. Non tocca a te far sforzi per salire sulle sue spalle. Sai, è il suo Vangelo, il prato su cui ci fa pascolare. Sta certo, in ogni momento si carica Lui di te, di ogni persona coricata o scaricata sulla terra. Non puoi immaginare quanto è soave il prato del suo amore e delle sue tenerezze.
Paolo Turturro
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CON ALI D'AQUILA
Come vorremmo che ci dessero ciò che ci hanno tolto. Cosa ti aspetti da un cuore in collasso? Credi alla morte? Lo spirito prende già forma della santità. Solo il peccato è un vero attacco di panico. Io abito nel cielo perduto dalle cerimonie. Gli innocenti salgono sempre sulla croce. Il tuo spirito è formato dalle ali di tante persone oneste e buone. Io vado e vi assicuro che ho conosciuto più persone buone che malvagie. Non prego con le immagini. Non contemplo la materia. San Giovanni Damasceno predicava ai suoi che “la bellezza e il colore delle immagini sono uno stimolo per la mia preghiera”. Vorrei tanto adorare in spirito e verità. Al di la delle immagini e al di là dei pensieri. Sono anch’io al pozzo di Giacobbe assieme alla Samaritana. Forse in quest’acqua mi diluvierò di spirito. Inciampo in un macigno. C’è sempre una difficoltà. L’universo è fatto anche di sassi. Non c’è una meteorite che sfonda l’animo. I giornali mi trepidano la mente. Quante falsità. Ho deciso, invierò il lievito del vangelo a tutte le stampe. Sono appena un chicco di grano. Su, macinatelo finissimo per una santa eucaristia. La fontana del mio paese è ancora amara. Amara è la bocca. Amaro è il cuore. Amara la mente. L’hanno inquinata. Ci vuole tantissimo tempo per rendere l’acqua dolce e leggera come una volta. Tuttavia la mia fonte non è mai in secca. Voi potete immaginare lo spirito del Signore dentro di voi che diviene asciutto e sterile? State certi, le sorgenti del cielo sono inestinguibili. Adora, lavora e mangia serenità. Ritorniamo alla campagna. Là dentro c’è pane, sudore e alimenti per tutti. Programmiamo lavoro con le nostre mani. Non aspettate nulla dall’alto dei potenti. Dentro di te, il Signore, ha creato una fabbrica di idee e di brevetti. Apri la mente onesta e fa quello che le tue mani e la tua fatica costruiscono. Non avere paura del pizzo. Sii prudente ma non rinunciare alla tua creatività. Crea il tuo lavoro che possa sostenere dignitosamente la tua famiglia. Il posto fisso è la tua mente, capace di creare una sana e continua economia. Non saltare il binario della cultura. Le rotaie del lavoro sono: cultura e economia. Se manca una, il treno del tuo lavoro non parte. Non dimenticare che tu sei stato pensato, creato e amato da Colui che si chiama Provvidenza. Ho inviato ai poveri cassette di cicorie e di giri, lattughe, indivie e melanzane. Tutto sudore dell’aurora dell’orto della pazienza. Ti sei mai chiesto come mai gli apostoli riuscivano a mettere tutto in comune e tutti stavano bene? Non è forse la proprietà privata che divide, disunisce e rende poveri? A volte sono anche ardito: per me, la proprietà privata è uno scandalo per i poveri e rischia di essere davvero un peccato che uccide non solo l’anima. Devi ben sapere che lo spirito che si attacca alla roba, è il più infelice di tutti. Io vesto abiti usati che mi donano e sono felice di campare. Non pensare che io sia un essere raro. Ti assicuro: cammino e zoppico come gli altri. Respiro e soffro come ogni ammalato. Penso e scrivo come ogni persona. Ho venduto la rabbia che non ho mai avuto. Mi incurvo come tutti gli anziani. Superavo la cordicella del salto in alto come tutti gli atleti. Mi hanno rotto il setto nasale a pallavolo. Non vi dico altro, perché sapete bene che mi scoraggio come tutti sulla faccia della terra. Eppure una cosa ci è di comune: le ali della nostra volontà sono dispiegate dallo Spirito santo. Su vola, amico. E’ lui che va in alto. Su, alzati, amico. E’ Lui che supera gli ostacoli con piedi di cerva su rocce insanguinate. Su vola, amico. E’ lui che sfonda l’aria stantia del male e dell’indifferenza . Accorda il tuo spirito con il Suo. Accodate dietro il suo Spirito, sentirai la fragranza della libertà. Avvertirai che è leggera, la fatica da affrontare sui sentieri polverosi delle cattiverie. Non ti dico altro, perché noto che già sei più alto di quanto avessi potuto immaginare.
Paolo Turturro
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Il sacramento della fede
Lo spirito crea la carne. Ciò che è avvenuto in Maria. La carne non crea lo spirito. Sono concepito da Dio e resto in eterno suo pneuma. Cristo è il sacramento del Padre. E’ il sacramento da cui sgorgano sorgenti di infiniti sacramenti. Dio non numera la salvezza. Gli oceani delle nostre sterili liturgie restano sempre a secco. Ogni mattina con Dio gioco a tocchi d’amore. Il mio cuore è un’arpa e le mie dita una fisarmonica di tasti di madreperla. A tocchi d’alba è ogni mia aurora con gli uccelli, con gli usignoli, con le tortore, con gli aironi, con ogni foglia secca che tolgo dai gerani e dalle ortensie. Ogni alba è un inno di Lodi. Poi vibro le colline di acacie, di mandorli in fiori. I ciliegi ormai gonfi di ciuffi di frutta mi intrecciano i pergolati. Prego con il respiro del silenzio. Le colline dell’anima sono pieni di abeti. Non cercate frutti tra gli aghi dei pini. La pigna è il frutto dell’ospitalità. Tu vedi sovente su colonne dei cancelli delle ville siciliani delle grosse pigne di ceramiche. E’ l’antico carisma dell’ospitalità dei Sicani, Elimi e Greci. Io ho ospitato Dio nel mio costato. Io ho sogni e non bisogni. Quante volte ho masticato terra amara e lavato le mie labbra con foglie di acanto. Nel dolore non sono divenuto una statua di sale ma una colonna scolpita d’animo. Al tramonto firmo sull’arcobaleno della sera i Vespri non più per Davide, né con il Siracide, né con Isaia, né con le Lamentazioni. Invento inni e cantici nuovi scritti con il respiro e il sangue delle mie giornate. Anche i vecchi stracci sono pergamene dove incarno i miei inni d’amore per Dio. Persino i vestiti dei poveri che indosso sono divenuti casule e pianete d’altare. Così mi unisco ogni giorno all’eucaristia che i miei confratelli in città, in paesi, in villaggi, in chiese povere e diroccate, in cattedrali e duomi consacrano sugli altari. E senza sapere ho scalato l’altare dell’eterno. In ogni istante si incarna dentro me il sacramento della fede. Vivo l’eucaristia spirituale. Adoro il vangelo che alita il mio spirito. Medito ciò che Dio mi canta dentro. Scopro la lectio divina che i padri della chiesa hanno scritto nei conventi e nei deserti dell’anima. Il silenzio mi inebria di divino. Il gregoriano ora salmodia italiano. Gli angeli sono le noti di ogni giorno. Eppure zoppico di peccato. Tuttavia ogni giorno Dio mi irrora con una zappa d’acqua. Veramente noi cristiani siamo ricchi e nessuno lo sa. Il sacramento della fede non crea fedeli subdoli a chiacchiere di navate. Non ho bisogno di fedeli a bacchetta. La nostra è una fede senza pettegolezzi. E’ una fede che si libera nell’animo. E’ una fede che rende sereni e mette tutto in comune, tanto da essere tutti ricchi e felici. La fede è il Risorto dentro di noi. Ti spiega le scritture su ogni via di Emmaus, dentro ogni cenacolo chiuso, dentro ogni cuore lacerato, dentro ogni vicolo oscuro di dubbi. I passi del vangelo sono le fabbriche, i vangeli stessi sono le mense di ogni famiglia, le letture sono le lettere del postino, le pericopi sono le preoccupazioni dei genitori per i propri figli. Tutto è fede che ti porta a Dio. Si, la fede è un respiro lungo secoli d’amore. E’ un respiro che ti ardisce a perseverare in ciò che non vedi. La fede è l’ottava beatitudine che ti infiamma a credere senza vedere. Per questo Tommaso non è il Didimo ma è il grande della nostra fede. Noi, che pur non vedendo, siamo testardi a credere. Ho mani e spirito di testuggine. Sono riuscito a sfondare ogni peccato. Sono riuscito a sfondare il divino. Non sacrifico un figlio, come Giacobbe. Anche a me un angelo mi ha invitato a uccidere l’odio e a sacrificare il perdono. L’incenso è salito alle stelle. Non mi hanno visitato tuttavia i tre magi. Non visito la mecca una volta all’anno. Ogni giorno cammino nelle sue pergamene. Non è un precetto la vita cristiana. Vi confido il mio segreto, come quello di Luca, del mio carissimo amico Ignazio Silone. Accolgo ogni giorno Cristo nelle palme delle mie vene. Non solo esulto l’osanna nei giorni lieti. Salgo con Lui sul golgota della mia condanna. Cado nel dubbio delle mie angosce. Mi alzo, grazie a tanti Cirenei, miei amici. Mi spoglio di tutto, soprattutto della mia superbia e delle mie certezze. Anzi mi hanno spogliato della mia stessa dignità d’uomo. Non possono dividere le vesti, che non ho. Non ho nulla. E ciò che è di Dio, è di Dio. I malvagi non possono dividere a tocchi d’inganno le vesti, le case, i terreni, o l’ eredità di Dio. Sono inchiodato alla fede. Nessuno mi separerà da Cristo. San Paolo mi ha scritto già il mio testamento. Cristo si è incarnato sul legno più turpe, un legno secco, secco e zeppo di vermi. Un legno, dove non può fluire nessuna goccia di vita, ma solo cascate di dolori. Eppure Lui incarnato su questo legno più turpe dell’umanità ha irrorato non solo germogli di Jesse, ma è divenuto Cristo Croce- Resurrezione, Cristo Croce – Salvezza per tutta l’umanità. La Croce – Risurrezione è l’eredità di ogni popolo. L’eucaristia, passione e morte di Cristo, è il pane da spezzare per tutti, nessuno escluso. Il suo cenacolo è la chiesa universale, la chiesa ecumenico di tutti i popoli a cui Dio Padre ha rivelato, per ciascuno, il cammino personale da percorrere. Sta felice, anche tu, sei il sacramento della fede, dove Dio ha irrorato il suo amore.
Paolo Turturro
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Dedico a te
Non mi vedo più nella terra. Nella mia
povertà scopro la trinità dell'incarnazione di Gesù Cristo.
Con gioia adoro l'incarnazione di Cristo
nel seno della Vergine Maria. Mi incanto nel meditare la reale
incarnazione di Cristo nell'eucaristia di ogni giorno sulla mensa dei
poveri. Mi scandalizzo di Dio che si incarna nel legno più secco, più
turpe, tanto da essere croce, legno da gettare, legno da bruciare, legno
da adorare. Nessun specchio riflette lo spirito. Dedico la mia
risurrezione a ogni madre, a ogni uomo afflitto e condannato. Dedico la
mia risurrezione all’amore che non muore, alla speranza che pensa sempre
oltre la mente della terra. Dedico la mia risurrezione a ogni brigante,
a ogni escluso, a ogni fallito. Dedico la mia risurrezione alla
giustizia che prima dopo risorge. Non cercarla, prima o dopo è lei che
ti incontra e ti trova nella tua innocenza. Dedico la mia risurrezione a
ogni uomo semplice. Sta sbagliandoti a immaginarmi che opero solo
miracoli impastati di carne e di terra. Quelli dello spirito vanno oltre
i sogni, oltre i bisogni. Dedico la mia risurrezione a ogni innocente.
Sono qui, sono risorto per sciogliere il bavaglio della fede a ogni uomo
che si è nutrito di speranza. Sono qui, sono l’uomo della risurrezione
e non solo l’uomo della croce. Sono qui, non sono uscito dalla tomba,
non sono mai entrato nel sepolcro. Sono risorto nel consegnare il mio
spirito al Padre. Sono qui, e vi voglio scandalizzare. Fate bene a
rifiutare ogni pensiero d’uomo, affidato a Dio, mio Padre. Non vi do la
grazia della paura. Rifiutatela, non è una grazia. Non avere paura di
Dio. Mandami all’inferno, o Padre, per distruggere ogni opinione che le
menti distorte degli uomini hanno addossato a te, al tuo immenso amore.
Sono qui, sono risorto, perché l’innocente non ha bisogno di difendersi.
Sono qui, sono risorto, perché ciò che sogni non è una utopia nella mia
croce. Ho scandalizzato i sommi sacerdoti perché ogni lebbroso della
terra possa uscire dalla peste. Esci anche tu, ho spezzato la legge che
uccide. Esci anche tu dalla legge. Entra nella mia grazia. Esci anche
tu, ho cancellato la legge di ogni segregazione. Esci anche tu, l’incubo
è il vero sepolcro del’uomo. Esci anche tu, sono la vera risposta di Dio
all’uomo di ogni tempo. Esci anche tu, che vuoi che ti faccia? Non
chiedermelo, sei già guarito. Sono qui, sono risorto, perché ho sempre
insegnato con autorità. Esci anche tu, è la tua irrepetibile occasione
di vedermi dentro di te risorto. Esci anche tu, l’ingiustizia è il
sepolcro dell’uomo. Esci anche tu, sono l’assoluto dell’amore, non mente
il mio cuore. Esci anche tu, sei capace solo di bene, non perpetuare il
male dentro di te. Tu non sei capace di male. Sei capace di bene e non
sei capace di male. Esci anche tu, dalla legge del sospetto. Esci anche
tu, a respirare il cielo, a baciare la gioia, a fare l’amore con Dio.
Esci anche tu, sono l’assoluto che frantuma la morte e il peccato del
mondo. Esci anche tu, sii assieme a me la ribellione a ogni male. Esci
anche tu, ribellati alla morte, ribellati alla paura, ribellati al
peccato, ribellati all’oceano delle sterili liturgie che restano sempre
a secco. Esci anche tu, alla primavera della Pasqua. No, la Pasqua non è
un passaggio, è oltre. La Pasqua è il sacramento del matrimonio con Dio.
Esci anche tu, non vergognarti di passeggiare con il risorto, una volta
escluso, condannato, fallito, morto nella carne. Non hai preparato la
lista nozze del matrimonio con Dio? Non fa niente. Non importa. E’ Lui
la festa. E’ Lui lo sposo. Ha preparato tutto, tutta la grazia
necessaria per uno sposalizio così eccezionale. Tu sei solo il sogno di
Dio. Non deluderlo nell’amore. Ti do un piccolo suggerimento, appena lo
vedi, dì solo:”Ti amo!”
Paolo Turturro
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AMA E RISORGI
Amo e sono già risorto. L’amore è la veste della risurrezione. Non posso ridurre la risurrezione solo alla carne. La risurrezione è solo un frammento della vita eterna. Si risorge da un dolore. Si risorge da una malattia. Si risorge da una depressione. Si risorge dal peccato. Si risorge oltre le ali della terra. L’amore ti risorge, anche se vivi nel dolore. Ama e risorgi. Risorgi nel cuore di Cristo. Risorgi nella letizia della grazia. Risorgi nella grazia del perdono. Risorgi nel discernimento del bene e del male. Risorgi nella storia della verità. Risorgi nel cammino del rispetto di tutti i popoli della terra. Risorgi nell’oceano dei sacramenti che fluiscono abbondanti in tutti i terreni del creato. Risorgi nel sacramento del risorto. Cristo è il sacramento del Risorto che amando la sua amata sposa chiesa, la rende sacramento. Il sacramento della chiesa è la presenza vivente di Cristo in mezzo a noi, per noi e con noi. Non vivo la memoria della risurrezione. Cristo è il presente dell’amore Trinitario nel creato. Egli è il presente del passato ed è il presente del futuro. Il suo corpo glorioso è già nelle nostre vene, nelle vene dell’eucaristia. L’eucaristia è il sacramento del Risorto e comunicando con Lui sono dentro vivo e risorto più di un ostensorio. L’eucaristia mi rende un ostensorio di bene e di comunione con tutta l’umanità. L’eucaristia è la carne della risurrezione, dono gratuito per tutta l’umanità. La dimensione della risurrezione di Cristo è oltre. Una dimensione che non puoi toccare. Una dimensione che non puoi possedere qui sulla terra. Una dimensione di noli me tangere. Una dimensione che è oltre le pareti dei nostri sguardi. Una dimensione che non puoi definire. Una dimensione che sfugge alla mente e all’effetto persino del cuore. E’ la Parola vivente che ti assicura che il corpo risorto è solo un frammento della vita eterna. Il risorto ti parla, ti spiega le scritture, ti spiega la vita, il suo senso, i suoi perché, senza che tu lo possa possedere. E’ il dolore che scende nel ventre di ogni figlio della terra. E tu impazzisci, ti ribelli a un processo assurdo su Dio. E’ la fiamma d’amore che sale nella mente e tuttavia scendono dentro il fuoco del ventre i molti laceranti dubbi. A sera rimango solo con me e navigo nella notte a cercare i miei perché. E il Cristo, come ai discepoli di Emmaus, mi spiega solo nel sogno i perché di Dio. I perché della passione del Messia. I perché del Redentore flagellato e condannato. I perché degli innocenti del mondo, oppressi dai vari tiranni della storia. Gli spasimi di Cristo sono i gameti della redenzione che fluiscono attraverso i tempi in ogni figlio d’uomo. La settimana santa è ogni giorno, è il giorno dell’eucaristia, è il giorno della preghiera, è il giorno del canto e della fede nel risorto che ti abbraccia. Mi tuffo nell’oceano della risurrezione e avverto che i collassi svaniscono. Sento la tenerezza del risorto come l’abbraccio caldo di una madre. Ama e risorgi e contempli l’umanità avvolta nella sicurezza del bene. L’uomo affida alla scienza la risposta di Dio. Io affido ai sogni la risposta del risorto. I sogni del risorto aprono la soglia dell’eterno. Sono dentro di te. I sogni del mistero sono del tuo spirito. I sogni della carne appartengono alla tua cattiva digestione. Il risorto può consumare una porzione di pesce arrostito, perché tu avverta che egli non è un fantasma, tuttavia non è la carne che ti dà una risposta sul risorto. E’ oltre. La risurrezione è solo un frammento che ti apre alla vita eterna. Ama e risorgi. Camminerai ancora sui sentieri polverosi della terra per tornare indietro, dalla via di Emmaus al cenacolo del risorto. E’ la cena, dove l’Agnello non è più di un ovile della terra. Nel cenacolo il risorto lava i piedi dei discepoli, perché nelle sue mani i piedi di ogni uomo diventino ali di risurrezione. Nel cenacolo il risorto è divenuto la chiesa del grembiule. Nel cenacolo è la passione, morte e risurrezione di Cristo: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue. Il più grande servizio del risorto è fare dell’uomo il cuore di Dio. Amo e sono risorto. Anche uno straccio può divenire una meravigliosa tovaglia di altare. E’ ciò che il Risorto fa di ogni uomo. Sono un pezzo di straccio che Dio ha lavato con il profumo della sua grazia. Sono divenuto il suo corporale, dove il Risorto fa l’amore con l’umanità.
Paolo Turturro
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LA VIA DELLO ZUCCHERO
L‘eucaristia è il mio pane quotidiano. Traduco il cuore in un oceano sconfinato. Seguo la lancetta del’universo del tempo. Sono nel tutto compiuto di Cristo. La falsità di certi prelati ferisce più di un licca - sapuni dei siciliani, che fende lo zoccolo del più duro sapone dei panni, delle liti tra le donne. Dentro di me ho scoperto il DNA dei secoli: la libertà dello spirito che mi fa essere divino come Dio. E’ l’alito di Dio dentro di noi, inviolabile persino a Dio, tanto più a qualsiasi peccato. Il peccato tocca la mente, tocca le mani, tocca il cuore, tocca la carne, non può ardire di violare l’animo. E’ il dono inviolabile che l’Eterno Padre ha infuso dentro di noi. Cristo si è incarnato dentro di noi, per non restare fuori dell’uomo. Sono il lettore di ogni fede. Sono il lettore di ogni non credente. Sono il lettore di ogni cellula dell’universo. Mi ha seminato nelle vene di ogni dolore. Fluisco fino in fondo. Ho spezzato la legge della paura. Ho frantumato il muro della segregazione. Ho rotto le barriere dei sepolcri mentali. Ho rotto il confine di ogni lebbra. Per questo, ora ho attacchi di panico. Se non ora, adesso è prossima la morte. Io cammino con gli ultimi. Davvero il mio cammino è ultimo. Ultimo, fallito. Ultimo, sconfitto. Ultimo, abbattuto. Ultimo, eppure amato da Dio. Nessuno sa, quanto Dio ama e ci ama. L’amore di Dio è l’aurora di ogni giorno. Sette sono i giorni. Sette sono i colori dell’arcobaleno. Sette i sacramenti, chiavi per aprire e nutrire l’anima. Sette le vie dello spirito, che solo l’uomo può percorrere. Nessuno muore, senza aprire prima le sette porte del tempo. Tuttavia non è il sette la perfezione. La perfezione è Dio dentro di te. Sono felice e nessuno lo sa. Ora posso abbanniari senza sciarratine. Come è difficile accattari l‘anima. Eppure voglio ad-captare il figlio di Dio dentro di me. Questo è il figlio che voglio partorire. Non voglio comprare un parra picca. Chi può imporre all’anima di non parlare? Si, è amaro salire e scendere le continue scale. Tutto questo avviene per non acchianarisinni. Voglio salire solo il silenzio. Prima di morire voglio cantare siciliano. Cristo è stato aggiuccato sulla croce. Il dolore, la croce è come una festa che finisce. Come dite voi siciliani: agnello e sugo e il battesimo ha avuto fine. Finisce la sofferenza, non finisce la grazia e la pace di Cristo. Io sono quel pane azzimo, sono senza lievito del tempo. Adesso ho comprato i collassi. Mi hanno flagellato la schiena, spezzandomi gli anelli della colonna vertebrale. Che strano però, non sono ancora sulla carrozzella. Cammino con le gambe della volontà. Un medico intelligente mi ha visitato, proponendomi di seguire la via dello zucchero. Voi sapete che grande coltivazione era la via dello zucchero sulle nostre colline sotto rocca Busambra. Eppure la via dello zucchero, per ogni uomo, altra non è che quella del sorriso. Sorrido poco in questo tempo. Mi sono messo però sulla buona strada. Primo o dopo da sotto qualche cespuglio spinoso, fiorirà un sorriso. Il corpo dell’uomo è come un albero. Le sue stagioni sono lunghe. Si sa che, alla fine, l’inverno è sempre più rigido. Ignazio Silone mi ha insegnato d’essere un seme sotto la neve. Il gelo del dolore mi custodisce profondo e più profondo mi germoglierà. State certi che ogni seme di coscienza germoglia solo nelle stagioni dello Spirito di Dio. Io sono sotto il rigido inverno. Non meravigliatevi se il gelo mi ha tolto la parola da non difendermi. Io canto la terra a cui do il mio addio. Io canto, nel silenzio, la vita che non si spegne mai. Io canto l’amore che dentro lo spirito ho fatto con Dio. Io canto i giorni che non finiscono. Io canto il cenacolo della Pasqua dell’immortalità che Cristo Gesù ha coniugato con ogni figlio d’uomo. Io canto la via dello zucchero che mi svelerà non solo una battaglia nascosta di Leonardo da Vinci, ma vinta soltanto sulla sponda dell’eternità.
Paolo Turturro
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L'AMORE E' LA RISURREZIONE
L’amore è il DNA della risurrezione. Sento un immenso benessere nell’amore infinito di Dio. I respiri della risurrezione sono oltre ogni respiro. I respiri della resurrezione ti immettono nell’animo dell’universo. Gli sguardi della risurrezione sono oltre ogni sguardo della terra. L’amore crea la risurrezione e sei senza ostacoli, sei senza carne. Tu ami e i palpiti sono oltre il cuore. Tu ami e il pensare è oltre la mente e nulla pesa. L’amore è la risurrezione e nell’amore il corpo è oltre la materia. Nell’amore comprendi che Cristo non è mai entrato nel sepolcro. Nell’amore concepisci il mistero e la risurrezione è solo una parte di questo immenso arcano che ti appartiene. Nell’amore escono da te frammenti di luce e virtù che ti fanno eterno. Solo nel vero amore sai che cosa è la vita eterna. Sento il tuo amore dentro di me. E intuisco che deve essere accaduto in me qualcosa di grande e di importante. Non indietreggio all’amore anche se mi fa soffrire all’infinito. Anche gli spasimi più laceranti hanno il potere di accendere l’amore. Le pene inenarrabili interiori sono i gameti più ardenti per infuocarsi di risurrezione. Confesso l’amore che mi ha fatto risorgere. Mi ha guardato in faccia e mi ha fatto splendido. Mi ha guardato dentro e mi bruciato le scorie di ogni limite e di ogni peccato umano. Confesso di aver fatto l’amore con Dio. Non cercate di capire. La terra non può capire l’amore di Dio. Né la mente non può fermare le intuizioni divine. Non cercate di capire. Tutti vogliono toccare Dio. Tutti vogliono possederlo, caso mai i potenti avrebbero l’ardire di comprarlo con i loro soldi sporchi. Tutti lo urtano nei sogni. E nessuno nelle notti della passione vuol essere toccato da Dio. Nessuno nei giorni della diffidenza vuole avvicinarsi a Dio. Tutti voglio Dio e ognuno è indifferente a Dio. Io l’ho toccato. L’ho toccato con le mie lacrime. L’ho toccato con la mia rabbia di amore. L’ho toccato con la mia forza di volontà altre il cielo. Io l’ho toccato e Lui si è fermato. Forse, come all’emorroissa, è scaturito in me qualcosa che non so dove mi porterà. Sono esangue, anche se il cuore è forte. Sono esangue, anche se le ossa mi tengono appena in piedi. Sono esangue, sono finito di terra, cammino appena sulle nubi, come un esaurito di Dio. Io l’ho toccato e sono divenuto Venerdì santo. Io l’ho toccato e sono sputato, gettato a terra. Sono divenuto qualcosa di inopinabile. Io l’ho toccato nelle notti senza fede. Oggi il Vangelo di Cana mi ha rivestito del suo fidanzamento. Anch’io, esausto, ho il calice vuoto di vino. Anch’io, esausto, grido non ho più vino, da ardere del tuo vino nuovo, anche se so che i miei otri di sicurezza della terra si spaccheranno. Ma ben venga il tuo alito nuovo, la tua risurrezione nella mia vecchia carne. Stanotte, proprio in questa notte senza fede, tu mi hai coronato il cuore dell’anello della fede. E’ così facile imporre il silenzio a Dio. Obbedisce a ogni creatura che sa appena amare. Basta che gli suggerisci:” Ti amo!”. E il mistero della luce si apre. No, non so come è l’amore con Dio. Quanti anni grossolani di fede. Quante omelie dure di orecchio e dure di cuore. Spesso sclerotiche di mente. Così dura la mia pelle e sempre pronta a rimproverare a Dio di tacere, soprattutto nel mio distratto martirio. Confesso di aver troppo maltrattato Dio, ora che mi ha tratto, in questa notte senza fede, al suo amore. L’amore, si, il vero suo amore è il DNA della risurrezione dell’umanità. Io canto la risurrezione che è nel cuore. Io canto la passione di non vederlo solo dinanzi al sepolcro di Maddalena. Io canto quella infinita sinfonia di anime attorno alla croce, che fanno di ogni uomo lacerato di condanna, libero di risurrezione. Io canto la gioia del vangelo, non più tormento impositivo a ogni uomo. Io canto la Pasqua che è nelle vene di ogni uomo. Io canto la Pasqua che arde nelle vene esauste nel mio corpo. Addio tomba! Ti te non ricordo proprio niente. Sono, soltanto, un uomo risorto.
Paolo Turturro
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UNA NOTTE SENZA FEDE
Il miracolo è dentro di te. Nel vangelo secondo Giovanni la chiave di lettura è Cristo, Messia vivo che opera dentro l’uomo. Per Giovanni non è Mosè l’ultima e definitiva risposta di Dio ma è Cristo, logos incarnato nell’umanità. Ciò non è la legge ma la grazia. E’ Cristo Risorto l’ultima e definitiva risposta di Dio, che si attua in ogni uomo nel tempo. E’ Cristo che con la sua vita annuncia che il divino è incarnato dentro ogni uomo. Gesù dunque insegna con autorità non perché fa dei miracoli o perché scaccia i demoni, ma perché ci rivela ciò che è essenziale, cioè che Dio si apre definitivamente all’uomo e lo rende divino. Cristo Gesù dunque è il fuoco ardente che non si consuma e che Mosè ha visto e annunciato. Gesù Cristo è l’alito infuso dentro ogni uomo. L’alito di Dio inviolabile persino al peccato. Quell’alito di Dio dentro di noi è lo spirito che arde e non si consuma. Nessuno ha mai visto uccidere una coscienza. Nasce così dentro di noi un’entità aperta al mistero e che nessuno può violare o distruggere. Meno male che dentro di noi esiste tale meraviglia. Altrimenti povero uomo! Poveri noi. Povera cloaca massima dentro di noi! Che sarebbe l’uomo senza questo inviolabile dono? L’uomo, seme di spirito e di carne. Io non posso non annunciarvi questo immenso dono che Dio ha incarnato dentro di noi. Io credo che nessun granello dei secoli del tempo abbia l’energia di distruggere nel nulla questo alito iniziato a respirare nell’eterna mente di Dio. Io respiro nel pensiero di Dio. Io respiro nell’amore di Dio. Io respiro nella sapienza di Dio. Io respiro senza che il mio spirito sa. Io respiro in Dio senza che io sappia. Venire a conoscenza di tale mistero è entrare nell’estasi, nell’uscire fuori da se stesso. Non fatemi dire altro. Ognuno di noi sta per morire. Ognuno di noi ama immensamente. Amare è voce del verbo morire. Qualche santo vescovo ce l’ho ricordato nelle sue notti oscure. Io vivo una notte senza fede. Mi ricorda questa notte, le notti della grotta di santa Rita, gettata nel dubbio più tremendo della fede. Io vivo una notte senza fede. Nessuno può coniugare il mistero. Il divino è incarnato dentro l’uomo. Questo è il vero dramma: non potersi scarnare da Dio. Vera incognita per i Greci che affermavano impossibile che il divino si potesse incarnare nell’uomo. Et verbum caro factum est. Ecco il mistero rivelato. Ecco il carisma di Dio dentro l’uomo. Ecco perché Gesù Cristo insegna con autorità. Insegna il mistero fatto carne nell’uomo. Parola vivente: “Ti sono tolti i peccati! Va’, la tua fede ti ha salvato! Lo voglio, sii guarito. Va’, tua figlia vive. Lazzaro, esci”. E’ il mistero della Parola vivente, che a me, in questa notte e non solo, non si rivela se non nel dolore. Una notte senza fede. Una notte dove la morte è di casa. Una notte dove la morte sembra aver vinto per sempre. E Lui invece ti rialza. In piedi. Alzati. Cammina nella fede. Metti in moto la fede. Metti in moto ciò che non puoi accendere. Su, alzati, non è finita. Su, alzati, sono io accanto a te. Non può finire il Mio amore anche se in questa notte non lo senti. In piedi. Non mollare. In piedi, non accasciarti nell’angoscia che ti vogliono donare o addossare. E’ l’autorità del Logos, fatto carne. Cristo Gesù ci ha fatto uscire dalle tenebre, ci ha fatto uscire dalla legge. La legge viene da Mosè, da Cristo Gesù grazia su grazia. Una notte senza fede che, all’aurora che non vedo ancora, mi porta già un’abbondanza di grazia.
Paolo Turturro
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VIAGGIARE CON L'ANIMA
Offro il mio corpo allo spirito e lo spirito al mio corpo. Sono sicuro che insieme formano il vero uomo di Dio. Sto imparando a uscire dal nascondiglio di vedere il Signore senza conoscere a quello di conoscere senza vedere. Sono sensibile a Dio, la chiave è la sapienza del cuore. In questa mia cella sto percorrendo chilometri di ritiri spirituali. Dio mi ha riempito il cuore di grazia, estirpando con forza e pazienza la paura e la tristezza, frutti che non germoglieranno nel mio orto. Molti di noi pensano che, poiché non ci occupiamo molto di Lui, Egli non si occupi affatto di noi. Niente di più errato. Per di più ci lasciamo indurre che Egli non è affatto contento di noi. Non potete immaginare quanto Dio è felice di ciascuno di noi. L’anima dell’uomo ha una dimensione immensa. Soffro e sono felice. Umiliato e sono gioioso. Calunniato e sono innocente. Condannato e sono libero. Non ardisca chi vuole farci ancora del male a massacrare di più. Azzannare è solo dei più deboli e il silenzio è lo spirito dei forti. C’è Dio che provvede. Sono uscito dall’insicurezza dal momento in cui ho capito che è Dio che mi manca. Non voglio la fine di un’attesa. Non voglio soltanto il superamento di una disgrazia. Voglio solo la sua volontà. Dio mi basta, anche se dovrò crollare sotto il dolore. Non è Lui che manca, sono io che manco a Lui. Mi ha donato la vocazione alla gioia nel martirio dello spirito. Noi parliamo con troppo senno. Le nostre parole non crepitano più come le fiamme del roveto ardente. Siamo omelie morte. Chiesa che non riscalda. Chiesa che non fa più luce. La mia fedele compagna non è affatto la sofferenza ma la fede. Ho capito che appena mi lamento dell’assenza di Dio, Egli è presente. Non celebro nelle mie mani, nel mio cuore, nella mia mente l’assenza di Dio. Desidero restare per sempre con Lui. L’adoro in spirito e verità e già mi dice di allontanarmi per andare dai miei fratelli, spezzando i confini di ogni lebbrosario. Gesù Cristo spezza la legge del divieto di stare con i lebbrosi. Li cura, li ama, li lava, li guarisce. Nell’altro io trovo il risorto. Va’ da mio fratello e aiutalo a risorgere. Nell’altro io risorgo. Non possiamo andare con sicurezza che a partire dal momento in cui desideriamo di restare. Così apprendo che devo andare fuori dal mio cuore, fuori dalla cella delle mie sicurezze. Tutti andiamo: gli attivi alla preghiera, i contemplativi ai loro fratelli. Così comincio a fare la sua volontà e non la mia. La sua volontà è di innamorami di Lui nel silenzio che accoglie tutti nel perdono. Tante volte mi chiedo:” Dove sei?”Dimmi dove ti hanno messo e io verrò a farti risorgere”. E Lui mi risponde:“Va’, dai miei fratelli. Là, mi vedrai risorto:” Nell’altro, Dio si manifesta. Ora preferisco la sua gioia, alla mia pena. Nello spirito non abita la carne. Non posso vedere Dio secondo la mia carne. Vedere Dio esige che io rinunci alle mie proprie esigenze, al mio proprio vedere, al mio proprio sentire di carne. Ora credo al Dio che non ho mai creduto. Si è frantumato nei miei occhi il dio che non esiste, il dio che non ama, il dio che non perdona, il dio che non è capace di fare nuove tutte le cose. Dio mi ha visitato. Mi è stato accanto lungo il duro sentiero del mio dolore. Mi ha spogliato della superbia e soprattutto della mia insicurezza e mi ha rivestito di tenerezza. Non sono pronto a questo nuovo mistero. Per questo spesso dimentico la sua presenza in me. Mi ha sedotto nel letto della sofferenza. Sono passato dalle tenebre alla luce senza saperlo. Ora sono pronto al suo amore. Sono pronto a stazionarmi fino a quando morirò al lamento e risorgerò di silenzio. Solo allora comprenderò il silenzio eterno di Dio. Offro il mio corpo allo spirito e lo spirito al mio corpo. Sono divenuto un uomo che cammina non solo sulla terra.
Paolo Turturro
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Quella mano che riaccende la speranza padre Ermes Ronchi
Se non ci fosse il male sulla terra, chi penserebbe a Dio? (Simone Weil), a Dio che pena nel cuore dell'uomo? Una giornata di Gesù a Cafarnao, immerso nella folla, assediato dal male, un crescendo turbinoso di malattie e demoni, che si acquieta nella preghiera segreta, sul monte. La compassione, il pensare all'uomo; la preghiera, il pensare a Dio: ritmo della vita vera. La suocera di Simone era a letto con la febbre. Gesù avvicinatosi la prese per mano e la sollevò. Prendere per mano: gesto d'affetto, forza per chi è stanco. Rialzare: Gesù "eleva" la donna malata, la riaffida alla propria andatura eretta, alla fierezza del fare, all'andare, al creare, al servire, all'annunciare. E rialza valori e progetti nei giorni che pesano sull'anima, quando il tradimento rende penosa la vita, il peccato fa debole e insapore l'esistenza, negli inverni del cuore. La mano di Gesù viene ogni giorno, quando una parola, un incontro, una telefonata, una lettera, un angelo interiore riaccendono la speranza e la strada. Attraverso le nostre mani, Dio dona l'infinita pazienza di ricominciare. Anche se tutti restiamo promessi ad un'ultima malattia, ad un'ultima ricaduta; e per quella sarà la Pasqua a dare risposte. E la donna si alzò e si mise a servire. E' questa la lieta notizia: una mano ti solleva, accende la fretta dell'amore, e dice: guarisci altri e guarirà il tuo dolore. La guarigione del corpo ha come scopo la guarigione del cuore. Quando il Signore ha ridonato energie e speranza, devi metterle a servizio di qualcuno. Quando il Signore ti ha preso per mano e sollevato, a tua volta devi prendere per mano qualcuno. Un apologo famoso dice: un uomo passa per la strada, vede un bambino che muore di fame, e grida al cielo: "Dio, che cosa fai per lui?" E una voce risponde: "io, per lui, ho fatto te..." Noi non saremo forse mai capaci del miracolo di guarire qualcuno, ma dobbiamo essere capaci del miracolo di servire, di far sorgere il tempo della compassione. E' questo il vero prodigio. Quando qualcuno si avvicina, tende la mano e ci tocca con pietà, in quel preciso istante iniziamo a guarire, a ridiventare forti. Solidarietà, inizio della guarigione. Maestro, tutti ti cercano, resta! Ma Gesù se ne va per altri villaggi, per tutti i villaggi, in cerca del male di vivere, a sollevare altra vita. Maestro della vita, mano che solleva, essere cristiano è difficile, ho in me febbri e demoni, non so se ce la faccio. Ma cercherò di rimettere in piedi quei fiori calpestati che sai. Però tu avvicina quella mano che non hai mai cessato di tendermi, avvicinala ancora un po', prendi la mia, sollevami. E con te andrò per villaggi e per luoghi solitari, con te, incontro all'uomo e verso Dio.
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Felice nel cuore
Tu dubiti che io non ti sono accanto. Tu dubiti che io non possa donarti un segno. Tu dubiti che il Signore non possa realizzare il meglio in te. Tu desideri la morte per chiudere il dolore, senza sapere che la morte ha paura. Intuire per te è sempre una provocazione. Io ti dico di più conversare con me è sempre una provocazione. Bisogna fare a Dio il sacrificio di essere felici. Questa è la tua soluzione. Bisogna farsi un’opinione migliore di Dio. E’ tempo di cambiare mentalità. Noi viviamo la quaresima in una maniera errata. E’ tempo di vivere la quaresima del Natale. Si, la quaresima del Natale. Un nascituro di quaranta gironi, come può essere chiamato? Un bimbo di quaranta giorni. Ecco la festa della presentazione del Signore all’umanità. Ecco la quaresima della piccolezza di Dio. C’è la quaresima del Natale: dopo quaranta gironi Gesù viene presentato al tempio da Giuseppe e Maria. C’è la quaresima della passione e morte di Cristo, che tutti noi conosciamo, come unica quaresima di morte e di lutto. C’è la quaresima della risurrezione, dopo quaranta giorni Gesù ascende al Padre, una vera gioia per noi e non più una tristezza di distacco, ma di vera e reale presenza di Gesù asceso al Padre e vivente in noi. La gioia non è una tristezza superata. La gioia non è uscire dal sepolcro: è non esserci mai stato. E’ ben altro: è la risurrezione, è la vita eterna dentro di noi. La gioia esplode nelle beatitudini. Siamo troppo abituati a leggere e a commentare le beatitudini senza mai viverle. E’ la gioia della povertà, come totale distacco dalle cose, dalle proprie sicurezze, dai propri affetti ed emozioni non solo spirituali. E’ la gioia del pianto. E’ la gioia dell’essere perseguitato. Io sono un felice disperato perché vivo le beatitudini. Il paradiso di Dio è il mio cuore, grida sant’Alfonso de Liguori. Un felice povero sbalordisce non solo i non credenti ma noi cristiani, eredi della gioia del risorto. Un felice disgraziato ammattisce chiunque. Un felice incompreso e perseguitato è la sorpresa dell’impossibile nell’umanità. Ecco la vostra misura di gioia piena, pigiata, traboccante. Ecco posso finalmente dirvi che sono un rappresentante del Regno di Dio. Realizzare l’impossibile è chiedere a Dio di manifestarsi. Non mi chiudo alla felicità che prima dopo esplode dentro di te, altrimenti rischio di chiudermi a Dio. Ho buttato fuori, nel campo del niente, la tristezza. Stava devastandomi, come certe ortiche selvatiche. Stava esattamente attaccandosi a me stesso. Al mio egoismo di credere che la gioia di Dio non c’è e che, in fin dei conti, Lui non ascolta la voce degli anawin. Dio è presente in me nella misura in cui do spazio alla sua gioia. Troppi cristiani amano la religione della croce. Troppi pregano o piangono solo dinanzi alla croce. Io sto cominciando a pregare dinanzi e con il mio amico risorto. Prego nella gioia dell’aurora. Prego nella gioia del nuovo giorno. Prego nella gioia dei canti degli uccelli. Prego nella gioia di amare chi ti fa del male. Prego nella gioia dell’ora et labora. Prego nella gioia di incontrarci nella celebrazione del risorto in noi. Non faccio la guardia a un sepolcro vuoto. Non attesto nella mia vita l’assenza di Dio. Io sento ogni giorno che l’amicizia tra Gesù e la mia povera vita si arricchisce di gioia intima. Non mi è capitato tra le mani una reliquia di Gesù Cristo. Il risorto è qui, è in me, è in te. Non abbisogna di reliquie per mostrarsi e per esistere. Io attesto la presenza reale di Dio che mi infonde la gioia, provandomi con il fuoco. Non lo cerco più secondo la carne. Egli mi si manifesta molto meglio ora che è presso il Padre. Nessun apostolo ha rimpianto la presenza di Cristo nella carne. Nell’amore vivo la quaresima del Natale, la quaresima della piccolezza di Dio. Sento strattoni di capelli nelle mie notti oscure, qualora cado appena nella mia tristezza. Non sono Giobbe e non fuggo alla presenza di Dio come Giona. Non credo all’assenza di Dio. Non sono mai solo. Non mi privo della presenza di Dio. Il paradiso di Dio è il cuore dell’uomo. Noi siamo la sua vita. Noi siamo il suo respiro. Non può stare senza di noi, senza di te. Dio che ha creato te senza di te, non può amarti e convertirti senza di te.
Paolo Turturro
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LE QUATTRO BESTIE
“Io, Daniele, guardavo nella mia mente, per dare una risposta alle visioni del mondo. Vidi un enorme uccello che avvolgeva, strideva e stritolava sotto le sue grinfie tutto l’universo. Aveva testa di ferro, occhi di diamante, cervello di nebbia, petto di uranio, cuore di acciaio. Era senza sesso. Con le gambe ad artigli che dominavano fino agli estremi confini dell’universo, con fili elettronici di potere. Nessuno poteva scampare dal suo potere. Fulminato all’istante, colui che voleva ribellarsi a questa dannata stirpe dei mortali. Nessuno poteva neppure sperare di uscirne fuori da tali matasse di imbroglio e di inganni. L’universo era sterile e immerso nel più fitto buio di paura. Mi sforzai nella visione della mente e vidi un’altra bestia, simile alla sfinge, con la testa di codici civili e penali, con gli occhi di menzogne, con il petto di falsa toga, con le braccia lunghissime dalle mani che rubavano tutto, le gambe grosse a verruche di sangue, i piedi fragili di argilla. Mi sforzai ancora e nel profondo del mio inconscio notai appollaiata in disparte una lunghissima biscia nera, dalla testa di uomo, dalle squame di silicio, dalle vertebre di droga, dalla coda sonante di spinelli. Tale era la paura che chiusi gli occhi e senza volerlo vidi la bestia più orribile, più nefanda. Aveva due corpi, uniti tra loro, come due siamesi. Aveva la testa metà di spirito e l’altra metà di denaro, le braccia di potere politico, il petto di scudo di armi, il ventre di ogni cibo malsano, gli occhi fulminavano tutti di sottomissione. Aveva possesso su ogni testa e su ogni corpo che esisteva sulla terra. Poi vidi scendere dalla purezza del cielo un figlio d’uomo, simile a una colomba. Era il figlio della pace. Io pensai:” Così debole e innocente sarà subito divorato da quelle bestie. Che non scenda né sulla terra, né su negli astri dell’universo, dove la prima bestia dominava. Non scenda neppure i gradini della sfinge, né li salga per mettere ordine a codici civili e penali di secoli scritti per dominare con falsità e menzogne ogni uomo. Invece no, con la sua innocenza annientò la paura e l’ombra della lunghissima biscia. Forse non era vera quella terza bestia che mi impaurì a morte? Rividi nel mio profondo inconscio e la biscia non c’era più. Tuttavia non era un sogno, né un’illusione. Il figlio della pace riuscì a convincermi che le paure si possono abbattere e superare. Persino la morte ha paura. D’allora quella lunghissima biscia non la vidi più. Egli cominciò dalla biscia e poi salì in alto su nell’universo per affrontare la bestia che stritolava tutto il creato conosciuto. Egli era il figlio della pace ma anche il figlio della sapienza. Aprì le pagine del suo intelletto e gli artigli della bestia che incatenavano tutto il respiro dell’universo si sciolsero e i cuori dei viventi di tutti gli universi, e tutte le creature non solo sotto il cielo, respirarono libertà e gioia di comunione. Tra me dicevo ancora:” La speranza c’è, qualcosa di nuovo si muove in bene”. Non pensavo tuttavia che il figlio della pace potesse subito e tanto da affrontare davvero la sfinge dai codici d’imbroglio e di assoluto potere nelle sue false toghe, dove la chiave dei nodi da sciogliere era persino in bocca al potere della stessa sfinge. Tuttavia il figlio della pace inviò i suoi angeli che aprirono i sigilli delle toghe dei secoli e si rivelarono i segreti nascosti delle coscienze maligne. Come d’incanto e con soave armonia uscivano dalla sfinge secoli di persone incatenate dalle loro falsità e ora scendevano liberi e felici dalla sfinge come un innocente dal tribunale. La sfinge fu distrutta per sempre e si stabilì stabile per sempre la giustizia. Vidi ancora l’ultima bestia temibile persino a pensare che si potesse avvicinarla. Era la bestia dalla testa metà di spirito e l’altra metà di denaro. Solo ad immaginarla mi veniva terrore e tremore di catastrofe e di sospensioni a divinis. Ma il figlio dell’uomo mi disse:”Ora, tocca a te! Tu sei il guerriero della luce”. Come avrei potuto, io fatto di fango e di argilla, spezzare la testa alla bestia di spirito e di denaro?”. Sarà l’ innocenza della mia croce a darti forza nel frantumare questa testa. Ecco la mia prima arma della luce: il discernimento del bene per tutti. Afferralo, vibralo, donalo a tutti, insieme perché il sole splenda su tutti e la pioggia scenda sui buoni e sui cattivi, perché sui buoni possa ancora splendere di più e sui cattivi purifichi il loro cuore. Ecco la seconda arma della luce: la delizia del cibo perché sia distribuito equamente per tutti. Che nessun cibo, a causa dell’ingordigia, renda malsano il corpo dell’uomo, quando egli lo voglia possedere soltanto per suo tornaconto. Ecco la terza arma della luce: la politica del padre mio che vuole che nessuno si perda e che in fondo in fondo se qualcuno si perde, mio padre non è una divina indifferenza. Ecco la quarta arma della luce… Non fece a tempo il figlio dell’uomo a donarmi la quarta arma della luce, perché la bestia si rivoltò dannatamente. Fulminò un terremoto nella testa, quella metà di denaro, obbligando quella di spirito ad accettare il denaro al posto dello spirito. Era l’ultimo tentativo di sovra vivenza. La mezza testa del denaro voleva con tutta la sua perspicace cattiveria dominare per sempre la mezza testa dello spirito, con il denaro, con il denaro, ed essere per sempre testa di denaro. “Con lo spirito non si può dominare, urlava su tutti i fronti. E’ un’utopia vivere nel mondo senza la ricchezza del potere. E’ un’utopia non convivere con lo stato che ti dà tutta la tua sussistenza. Tutto, eccetto che parlare. Tutto, eccetto che dialogare di pace. Tocca a me decidere e dettare leggi con il denaro. Non accettando il mio potere sulla terra, muore anche il tuo spirito - urlava con bufera di terrore su tutta la faccia della terra. Anche la tua identità vocazionale di dominare con il sacro, - infine imperò, muore”. Quella mezza testa di spirito si smarrì. Nel trambusto della sua esistenza, per secoli legata e ancorata al potere del denaro, non capiva che Dio e la ricchezza non potevano convivere. Ci volle l’arma della luce del discernimento del figlio dell’uomo a fare comprendere che era necessario che morisse quella mezza testa di spirito per far risorgere totalmente nuova, con la mente, con il cuore, con lo respiro, con l’identità e con la piena libertà della propria testa, la faccia della chiesa, chiamata alla santità e alla sapienza dal figlio dell’uomo. Mi svegliai dal dolore e vidi che dentro e attorno a me altro non c’era che lo Spirito del Signore, stabile e gioioso su tutta la terra nella sua chiesa totalmente nuova.
Paolo Turturro
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La via della pioggia
“Esiste una chiamata a patire con Cristo, scrive Edith Stein, nelle sue lettere da Colonia- Lindenthal. Non dimentichiamo che dopo pochi anni suor Teresia Benedicta a Cruce subì il martirio, gettata nella camera a gas, assieme a sua sorella Rosa. Inconcepibile tale misfatto. Inconcepibile tale mente di distruzione a gas di milioni di persone. Mi getta nel lastricato più lacerante del dolore, nell’annientamento più totale di me stesso. Tale è la mente dell’uomo da odiarsi davvero. Ci sono tuttavia tante strade fuori che conducano a Dio, che sono ugualmente il martirio dello spirito, nella fede vissuta nella strada. Questa strada, io, Daniele, voglio oggi percorrere. Mi trovai da solo come un cane sul sentiero polveroso del patire. Mi accorsi poi che da solo proprio non ero. Non ero tuttavia una bestia che urlava al Signore per non aver accettato la croce dello spirito. Tanti a casa sono soli come un cane. Tanti patiscono da soli. Tanti consumano cancri e tumori nel letto della solitudine. Tanti vivono le notti oscure nella paura che non giunga mai l’alba della liberazione. Tanti nel lavoro sono soli come un cane. Tanti nei condomini dei palazzi ciclopici delle metropoli sono soli come un cane. E forse anche tu che mi leggi, sei totalmente solo. Tanti poi anche nelle assemblee delle chiese sono totalmente soli come un cane, pur avendo accanto e dietro e dinanzi tante persone che lodano il Signore. La strada del dolore è irta e va percorsa da soli, caso mai ti può accompagnare nella tua solitudine un cane che può essere in fin dei conti la tua stessa rabbia, il tuo stesso pensiero, la tua stessa preghiera, la tua stessa speranza. E’ vero anche che non c’è amico più fedele di se stesso. E tu sai anche che il cane è sempre fedele. Così a Ulisse, così a Domenico, così a don Camillo. Forse anche a me. Il sentiero della sofferenza è come una giornata uggiosa. Fa bene all’anima, forse. Si ha voglia di starsene coricato dentro un letto, aggrovigliato nelle coperte, meglio ancora in un piumone. Ma si sta fermi nel letto. Non cammino e non camminiamo. Non posso lasciare solo la mente vagare nell’intuito e nel nulla, a briglie sciolte e spiegate al soffio di ogni vento. Il nulla è il limite di ogni uomo. Il nulla è il limite di Dio. E io non posso immaginare affatto di vegliare Cristo morto nel suo letto. Così mi alzai e mi zuppai, non solo la testa, di diluvio d’acqua. Fa bene l’acqua pura e fredda. Fa bene l’acqua del cielo. Pensai:” Sai che faccio! Ora sfodero tutto il dolore fuori, all’aperto, sotto il cielo plumbeo, dinanzi agli occhi di tutti, specie dei santi e degli angeli che vedono meglio. Così questa pioggia, che certamente purifica, mi laverà totalmente”. Non feci a tempo a pensarlo che le scorie del dolore fluirono a terra, come squame, a germogliare nuovi giorni. Le sorgenti delle lacrime aprono cieli nuovo, aurore sempre più belle, certezze mai vissute, speranze così certe. Germogliano capolavori dello spirito che non si possono affatto relegare nei musei d’arte del tempo. Le tempeste degli uomini sono fredde, che dico, gelide al cuore, quelle del cielo invece purificano e santificano. Ho accettato la tempesta da molti anni. Questo cielo non cambia mai. Per questo profeta suo non sarò. Mi sono lavato con le stesse mie lacrime e finalmente sfidando ancora ogni bufera, ho placato il mio cuore in aurora di pace e di serenità. Ora so che a lavarmi, non sono state le mie mani, le avevo già atrofizzate a forza di asciugare il mio volto, ma le tue, Signore.
Paolo Turturro
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NON SONO UN TRALCIO STACCATO DA CRISTO
Non sono un tralcio secco, né separato da Cristo, tale da essere bruciato. Non sono un tralcio da bruciare. Sono dentro l’amore di Dio. Anche se sono, e mi conosco, tutto un groviglio di ferite. Amici, l’altare del cuore è bollente di mosto. Non ho un calice. Ora il cuore è l’otre per il suo nuovo vino. Amici, questo Cristo da tempo mi ha spaccato gli otri dell’indifferenza, della passività, dell’inerzia dell’anima. Da tempo ho vomitato l’acido del male. Arde il mio spirito. Non so amare ancora nel profondo. Qui, sull’altare dell’agonia, mi sono spogliato potandomi l’orgoglio. Non sono un tralcio secco, né staccato da lui. Mi ha potato, è vero, per una nuova vendemmia. Mi hanno pigiato fortemente, fin da spremermi l’anima. Ora so che il buon vino è solo per la fine del banchetto nuziale della terra. Il corvo è ancora qui. Sono i miei pensieri che si aggirano non solo nella mente. Mi porta ancora un pane. E’ il pane della sofferenza. Digerirlo, mi fa tanto bene. Non chiudo le porte al respiro della speranza. Sono proprio felice di essere un piccolo tralcio inserito in Cristo. No, non sono una vigna. No, non sono neppure una vite abbondante d’uva. Ogni sacerdote è appena un tralcio del vangelo. Nessuno è separato da Cristo. Cristo non esclude nessuno. Mi sto facendo una buona opinione di Dio. Dobbiamo al più presto cambiare il nostro modo di pensare su Dio, farci al più presto un’ottima opinione di Lui. Che paziente! Che mite! Che comprensivo! Che altruista! Ha braccia aperte, come il cielo, per stringerci tutti al suo petto. Miriadi di persone di ieri, di oggi e di sempre. Quante croste, nei secoli, abbiamo impiastrato sul volto di Cristo e del Padre eterno. Occorrono bidoni di sudori dello spirito per scrostare secoli di impiastro di falsa teologia nelle omelie di paura su Dio. Ecco, cominciamo. Io sono la vite e voi i tralci. Proprio vero! La vite non ha radici nel denaro, né nella sicurezza economica, né sulla sicurezza delle nostre opinioni, né nell’appartenenza delle parti umane. Io sono la vite della giustizia. Io sono la vite della mitezza. Io sono la vite del perdono. Io sono la vite della bellezza. Io sono la vite della lealtà. E la mia linfa scende dallo spirito. E tu, unito a me, fiorisci giustizia, lealtà, perdono, bontà. Tu, unito a me, fluisci soccorso a chi è nella sofferenza. Tu, unito a me, fluisci sicurezza di fede a chi è nel dubbio e con sincerità d’animo mi cerca. Tu, unito a me, non puoi affatto cadere, in nessun modo. Nessun è capace di staccarti da me, perché nessuno ti ama come me. No, nessuno è separato da me. Anche il più lontano nella terra, il più relegato, il più emarginato, è più che mai vicino al mio spirito. No, nessuno in me è un tralcio secco e ognuno, senza saperlo, produce dinanzi a me, buoni frutti, perché la mia ninfa è efficace per chi si stringe alla mia parola, alle mie beatitudini. Tu non sei neppure un grappolo o un acino d’uva abbandonato nella mia vigna. Ho spigolato tutta la mia vita per trovarti, ora tu maturo di fede, anche se ti hanno spremuto l’animo, sei il tralcio dello spirito che fluisce grazia che pochi sanno. Ora soltanto ti accorgi che ti hanno potato solo ciò che non è mio. Ti hanno tagliato ciò che è della terra. Nella chiesa la mia vite è senza rovi, senza frasche, senza lupi randagi, non è abbandonata ai lupi famelici. E’ senza rami secchi, senza potenze umane, senza croci d’oro sulla testa, senza abiti lussuosi. Io sono la vite dell’accoglienza. E’ finito il tempo di vibrare nelle liturgie i segni della potenza, che non convertono e allontanano i cuori da me. Io sono la potenza del segno del perdono, del segno dell’amore, del segno della comprensione, del segno dell’unità non solo di tutti i cristiani ma di tutti i popoli. Vedi, potrebbe capitare che ti bruciano, come tanti nei secoli, ma tu non sarai mai un tralcio secco e separato da me. Non permetto che il cuore della mia grazia possa, in te, essere spento dal male. Sento fluire nelle mie vene la linfa di Cristo. E’ una linfa di sorgente ora d’acqua, ora di fuoco. Io non so come tu faccia a coniugare in noi l’acqua e il fuoco che non si spegne. Chi non calpesta l’anima, è una sorgente purificatrice che arde del fuoco del mio spirito.
Paolo Turturro
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La notte della pace
Siamo qui, Signore, dinanzi a un nuovo anno. Un anno che non ci preoccupa perché lo vogliamo vivere con te. Noi siamo la tua indistruttibile coscienza. Noi il respiro del tuo respiro. Noi ancora l’essere incosciente del tuo Essere. Tu l’anima dell’universo. Tu l’anima di ciò che siamo. Tu l’anima dell’atomo che fluisce nelle nostre stesse vene. Tu la radice del cosmo e della carne del mondo. Tu pastore delle galassie. Tu guida dei venti che ti seguono. Tu fonte della luce che mai sarà vinta dalle tenebre. Il sole irradia e non sa. La pioggia cade e non sa. La neve incanta e non sa. La foresta meraviglia e non sa. Gli uccelli volano in alto e non sanno. Le corolle sbocciano e non sanno. Le rose profumano e non sanno. Tutto qui è incosciente. Tutto qui è l’anima dell’ignoto. Tutto qui vive nella sfera dell’ignoto. Anche le entropie irrompono e non sanno. Solo l’uomo, il vero ignoto, si erge a sapere sicuro. Senza di te, siamo una membrana ignota. Solo noi coscienza di chi cresce, di chi canta, di chi impera superficiale sull’altro. Noi tua coscienza che si ribella per sapere ciò che la mente di te non può contenere. Eppure noi figli della tua coscienza. Noi schiacciati l’uno sull’altro per sopravvivere e imperare sull’altro. Noi schiacciati dalla mente orgogliosa che consuma persino il sapere. Pensavo di trovarti nel baciarti i piedi. Pensavo di trovarti nel contemplare le mie mani, il mio volto, il mio spento respiro. Tremo al pensarti così di terra. Tremo al pensarti come noi. Tremo al pensarti che perdoni come noi. Tremo al pensarti che comunichi come noi. Tremo al pensarti che ami come noi. Le nostre lacrime non consumano le pietre che ci hanno gettato addosso. Il silenzio delle pietre schiacciano i peccati. Solo il peccato ci scaglia la morte. Mi hanno spogliato il corpo senza spogliarmi l’anima. La notte dell’esilio, di questo silenzio, non mi ha ucciso i sogni. Non mi hanno svegliato gli schiaffi o le sberle della vergogna. Mi hanno svegliato invece i sogni di non mollare. I sogni di credere fino in fondo. I sogni di perseverare nella fede fino alla fine, anche se i venti soffieranno ancora più impetuosi di una bufera. I sogni di una giustizia che tuttavia ha radice sulla terra. I sogni agitano il cuore. Il mare più agitato è lo scrigno dei sogni. Io procedo sulle onde della mia vita. Io credo alla verità. E’ inutile cercarla, prima o dopo è lei che ti trova. Il male si consuma da solo, non riesce ad arrivare fino in fondo. Siamo qui, dinanzi al tuo pane così minuto e pallido. Siamo qui accesi dal buio delle candele. Anche il carbone più nero arde, se tu l’accedi di speranza. Siamo qui per aprire un nuovo anno non più con porte segnate di sangue. Qui, in questa cella del cuore abitata, ormai da secoli, da frati come noi. Siamo qui ad aprire la prima pagina di quest’anno, con le ali del tuo Spirito. Siamo qui e ti presento i miei amici. Ecco i miei amici monti che mi segnalano l’altezza del cielo. Ecco i miei amici orizzonti che mi aprono spazi aperti a tutti i popoli della terra, a cui hai rivelato il tuo amore nell’orizzonte dei milioni di anni. Nessun popolo è escluso dalla tua rivelazione. Ecco i miei amici di strada che si son fatti alberi, foreste, fiori, colline, sassi, campi di grano, pascoli di agnelli. Sono abitato da secoli di viventi. Sono abitato da secoli di persone dall’animo di diverse religioni. In questi miei amici, nessuno ha mai violato la fede. Siamo qui tutti insieme, pur lontani secoli di respiri. Siamo qui tutti insieme, pur lontani in terre diverse. Siamo qui, come in un alveare, per rendere reale il sogno dei monti che scorrono latte e miele. E’finita la notte. Esco dalla notte, salutato da miriadi amici che, a ritmo di campane a festa, hanno allestito un banchetto dove nessuno è ignoto, né tanto meno estraneo. Nessuno è estraneo all’abbraccio del Signore. Siamo in tanti e tutti pronti con le erbe amare in mano. Tutti pronti con lampade ardenti con otri densi di olio di fede. Tutti pronti a consacrare la fede anche senza un altare. Procediamo con il pane azzimo del cuore e il calice colmo di palpiti di collasso. Pronti a elevare il nostro nuovo anno con l’eucaristia in mano che ci fa ancora sua carne. Mi corico tranquillo sul giaciglio del mio ultimo sogno. Ho aperto l’anno sognando la pace, sognando la giustizia, sognando l’equa distribuzione dei beni della terra per tutti i popoli. Il sogno di ogni uomo è un gradino che costruisce la scala del cielo. Quanti devono salire. Quanti già sono saliti. Non puoi seppellire un respiro, né un sogno vestito da uomo. Vi assicuro che i sogni dei secoli hanno le piene della realtà. Sono sogni di carne. Sono sogni di divinità. Sogno sogni di Dio, negli occhi degli uomini. Ogni mia parola ha centinaia di anni. Ogni peccato, ogni crimine è la spaccatura che non leda un sogno. Non vedo cadere nelle tenebre le ali della speranza. Il sogno è il vero santuario dell’eterno. Questo nuovo anno è certo, appartiene a Dio e non ai Maia. Il sogno è la parabola del nostro spirito. E’ vestito solo di cuore e da pensieri. Non è troppo audace colui che crede ai sogni. Solo i sogni non portano distruzione. Il sogno non è magia, è appena respirare la realtà. Ho sognato una cascia vuota di cadavere.
Paolo Turturro
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Favola a Natale
Quel giorno in paradiso era successo qualcosa di grande. La notizia era di quelle capaci di smuovere anche la tranquillità beata del paese degli angeli. Ora era tutto uno scuotere di ali che fin sulla terra si sentiva un vento strano. Il buon Padre di ogni creatura angelica e terrestre – benedetto sia il suo nome in eterno – aveva solennemente decretato davanti al coro angelico convocato in tutti i suoi nove cerchi: «Nella persona del Figlio prenderemo il corpo di un uomo perché l’uomo sia restituito all’immagine divina. Ora, un angelo sarà incaricato di portare il lieto annuncio a una vergine, figlia di Sion. Avrà tale onore quello tra voi che presenterà al nostro cospetto il saluto più bello e lo svolgersi più conveniente dell’evento». Non si era ancora terminato il «Gloria» che chiudeva ogni convocazione, che gli spiriti beati tutti, con la coda dell’inno in bocca, si erano già diretti chi in alto, chi in basso… chi altro sa dove – le vie del cielo sono infinite! – tutti ad accaparrarsi quanto di più celestiale e solenne il paradiso mettesse a disposizione per confezionare a modo l’evento. Se il diavolo è un angelo decaduto, il genio luciferino è un corredo della razza. Solo Gabriele era rimasto lì, piccolo e un po’ bruttino com’era, a guardare con i suoi due occhioni bambini il volto rasserenante del Padre buono. «E io che faccio?» diceva tra sé, sapendo bene di non poter correre a gara con i suoi compagni. Lo avevano chiamato Gabriele, cioè «Dio è grande», proprio perché lui, ogniqualvolta il Padre buono parlava o agiva ripeteva: «Oh! Davvero Dio è grande!» e l’anima sua magnificava quella bontà, sapienza e potenza cui non era mai riuscito ad abituarsi. Scese sulla terra. Tanto, lassù, gli altri non avrebbero lasciato niente per lui. Silenzioso, come ogni buon angelo sa fare, entrò nella casa di Maria di Nazaret. La seguì mentre accudiva suo padre, in quei giorni in preda a una brutta tosse che non lo lasciava dormire né mangiare. Si sa, a fare il mugnaio capita, con tutta quella polvere… La seguì mentre andava a raccogliere un po’ di malva e di menta per qualche decotto. Riaccompagnò il piccolo Giona dalla sua mamma, Ester, i vicini di casa: la solita avventura tra ragazzi li aveva spinti un po’ lontano… «Questi ragazzi! Ormai sarà anche per te l’età di correr dietro a queste creature, vero Maria?» Gabriele la vide sorridere, tra le ciglia, di un desiderio sincero. «Oh, quanto è bella!» pensava Gabriele tra sé: «Quanto mi piacerebbe portarle l’annuncio che il suo desiderio sarà esaudito meglio di quanto nemmeno possa immaginare!» Ma fu al rientro a casa che Gabriele fu spettatore di quanto si sarebbe impresso nella sua memoria fino a fargli desiderare di essere uomo e non angelo. Era l’ora calda del giorno. Giuseppe era entrato e stava asciugando il sudore dalla fronte di Gioacchino, finalmente per un momento assopito. Si ritirarono nella stanza accanto. Bevvero entrambi un po’ d’acqua che Maria non aveva scordato di attingere al pozzo, tornando a casa. «Maria» disse Giuseppe con voce trattenuta da una forte commozione «tu conosci il bene che ti voglio, la tenerezza che vorrei prometterti e la forza di cui vorrei circondarti. Sono falegname. So come piegare la durezza della quercia al mio disegno e so come farmi assecondare dalle venature profumate del cedro. Distinguo l’opera del buon carpentiere e del mediocre. Ma il disegno che vedo in te non viene da artista di questa terra. Solo l’architetto della volta celeste e dei pilastri della terra può averlo fatto. E se egli mi ha spinto ad amarti… Maria è perché potessi vedere nei tuoi occhi quanto i tuoi occhi non possono vedere: gioisci, Maria, perché sei stata colmata di grazia e il futuro che c’è in te è opera dello Spirito di Dio». Dicendo quelle parole che lo respingevano indietro, trasse un pezzo di pane che aveva avvolto in fasce e deposto nella tasca del cibo – che allora chiamavano «mangiatoia» – lo diede a Maria e disse: «Prendi e mangia. Questo pane l’ho fatto con la farina che tu hai chiesto a tuo padre per me. Ogni volta che impasterai il pane, ogni volta che ne mangerai, ricordati di chi, con la tua farina, ha impastato un pane ma non per sé». Maria, stupita, ancora incredula di quanto le labbra di Giuseppe – davvero le sue? – avevano appena detto, prese quel pezzo di pane e lo mangiò. Dal cielo indaffarato il Padre buono ammirò quell’amore di uomo che tanto assomigliava al suo ed effuse il suo Spirito su quel pane, che in Maria divenne il corpo del suo Figlio unigenito. Giuseppe si era già allontanato, silenzioso e sereno, e Gabriele era rimasto con gli occhioni spalancati e la bocca a tutto tondo. «Maria, piena di grazia!» ripeteva tra sé, mentre una volontà diversa dalla sua aveva messo in agitazione le sue povere ali. Non si avvide nemmeno di essere al cospetto del Padre buono, perché ancora occhi e bocca erano meravigliati di quelle parole: «Maria, piena di grazia!» Lo risvegliò la voce evidentemente possente del Padre buono: «Questo è il saluto più bello! Solo l’amore di un uomo per una donna poteva scoprirlo» e gli angeli, già scoraggiati, vi lessero una vena di rimprovero. «Quanto a te, piccolo Gabriele, vai tu dalla vergine di Nazaret a confermare l’annuncio». Il resto della storia si conosce. E Gabriele? Sì, fu promosso arcangelo, ma non che si trovasse meglio in quei panni. Non dimenticò – questo è importante – dopo essere tornato alla casa di Maria, di passare da Giuseppe per dirgli: «Non temere, Giuseppe, di prendere in sposa Maria….» Da parte sua, il figlio di Maria si portò dietro un certo gusto per il pane.
A cura di Don Bruno. Tratto da: Frasnelli, D. – Matté, M., Il vangelo con gli stivali. Racconti e favole, Gribaudi 1998
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SENTINELLA, QUANTO RESTA DELLA NOTTE?
“Va’, metti una sentinella, nel tuo
cuore, che annunci l’aurora. La notte del dolore non finisce mai.
Non voglio comunicare le mie inquietudini, né il sangue che non ho
sparso. Va’, metti una sentinella nei tuoi occhi e guarda. Il malore
è finito. Il male, che ti gela l’anima, si è sciolto, è svanito.
Va’, metti una sentinella nel tuo cuore e senti palpitare il
silenzio dentro te. Senti, è l’annuncio dello spirito che ti sana la
speranza, che ti sana l’attesa. Va’, metti una sentinella sulle tue
labbra. Ascolta il silenzio fuori di te. Ascoltare non è pensare. E’
sentire ciò che fa crescere il tuo spirito. Odi il fremito della
luce. Odi il fruscio dei passeri e dei pettirossi tra le fronde
delle siepi. Odi fuori di te non più il chiasso, non più i rumori
dell’odio o del rancore. Ascolta il canto siderale delle stelle. Il
canto della solitudine che ti dà pace. Ascolta la voce degli
universi. Ascolta, ciò che è lontano, è percettibile dal tuo
silenzio. Ascolta come fresche scorrono le sorgenti del cielo.
Ascolta fuori di te ciò che è insondabile, ciò che è in percepibile,
Ascolta fuori di te, non è un’illusione la voce della creazione. Non
è ostile la natura che cresce, palpita, nutre di silenzio tutti gli
esseri viventi, tutti i pensieri dei secoli. Ascolta le cellule che
scorrono ninfa nei nidi delle aquile. Ascolta il vento che smuove
nubi, tempeste di giri, bufere di lampi e tuoni, schianti di suoni
astrali. Ascolta, fuori di te non abita l’infinito che non puoi
vedere, l’infinito che ti è ostile, l’infinito in una cellula di un
millepiedi. Ascolta il cammino dei secoli in un usignolo che sveglia
l’alba dei giorni. Ascolta, fuori di te, c’è il canto che ti porterà
ad ascoltarti dentro. Senza l’ascolto di ciò che è fuori di te, non
puoi entrare dentro di te. La natura è la pagina che ogni uomo ha
scritto per te. Il creato è la pagina che Dio ti ha inviato, perché
tu possa cominciare a dialogare prima con te stesso e poi, nel tuo
profondo, iniziare a dialogare con Dio. Va’, metti una sentinella
nelle tue mani. Tocca il silenzio degli alberi. Tocca il silenzio
delle foreste. Tocca il silenzio di miriadi di uccelli che volano il
tramonto per emigrare. Tocca il silenzio della bellezza di ogni
albero di frutta. Tocca il debole e tocca il forte. Tocca il
vellutato e lo spinoso. Tocca il fresco e il caldo. Tocca le nubi e
la sua pioggia. Tocca i raggi e il suo sole. Tocca fuori di te
l’infinito che è dentro di te. Va’, metti una sentinella nei tuoi
piedi. Cammina con il bufalo e il serpente. Cammina con l’asino e il
cavallo. Galoppa cammelli e dromedari. Galoppa aquile e dinosauri.
Galoppa la terra e il cielo. Galoppa il giorno e la notte. Galoppa
la vita e la morte. Ecco ti arrivano schiere di cavalieri ad
annunciarti che la notte è finita. Ecco giungono coppie di angeli
che scendono non più dal cielo ma dai tuoi occhi come lacrime che
irrorano letizia. Ecco non solo Babilonia è distrutta con la statue
dei suoi dei. Ecco sono a terra le ingiustizie. Ecco sono a terra le
cattiverie. Svegliati, è già l’aurora non più dell’avvento che non
sorge mai, ma del giudizio del Dio che ha creato il bene. Ecco è
caduta la morte dell’infamia. Ecco è caduto il castigo che i perfidi
volevano infliggerti. Ecco sono frantumate le loro ossa che volevano
seppellirti. Ascolta, anima mia, calpestata e trebbiata sulla mia
aia. Ascoltare il tuo silenzio non è un rito vano. E’ la tua vita
che ti porterà ad ascoltarti dentro. Lì dentro la mia sentinella ti
indicherà che presto io verrò. Anzi ti dirà che da te non mi sono
mai allontanato. Sentinella, quanto resta della notte. Quella notte
che mi getterà fuori ad ascoltare le meraviglie che da secoli
parlano per me. Finalmente la sentinella dell’avvento mi apre la
porta. Ecco entra. Ecco il silenzio della luce. Ecco cammina verso
quei raggi della tua stessa carne. Ecco cammina, procedi sicuro
dentro di te. Non avere timore di te stesso. Oh!, non ascoltare le
tue stesse paure. Tu non puoi essere nemico di te stesso. I tuoi
peccati possono divenire bufere, diavoli che potrebbero scagliarsi
contro di te. Si, i tuoi errori sono i demoni che si scagliano
contro di te. Non avere paura, tu che hai ascoltato il perdono del
creato, tu che hai ascoltato il perdono di Colui che ti ha donato
sulla croce non solo la vita, ma la letizia della tua immortalità.
Non avere paura tu che fuori hai conosciuto appena Colui che si è
schierato da sempre per te, di Colui che da sempre ti ha scelto per
vivere in eterno nella sua divina Trinità, di Colui che ha donato,
nel silenzio del martirio, il sangue per te. E’ quel sangue che ti
ha fatto nuovo e ti ha dato la capacità di ascoltarti dentro.
Cammina non più su cammelli e dromedari, non più su cavalli e
cavalieri. Non più su acque squarciate nel grembo. Tu squarcia le
acque dell’anima. Squarcia le acque del tuo stesso battesimo,
sentirai scorrere dentro di te acqua che zampilla sorgenti di
grazia. Non avere paura proprio di te stesso. Dentro di te non sei
uno straniero. Comincia l’intus del mattino dell’anima. Comincia l’intus
legere, di leggerti dentro. Non avere paura di domandarti dove sei.
Cammina sui raggi della tua stessa estasi. Cammina. Cammina. Ci
incontreremo laggiù o lassù, sulla porta dell’iniziazione
dell’ascolto e dell’incarnazione di Dio, dentro di te. Sentinella,
quanto resta della notte? Sentinella, è quella la stella del
mattino? Non conosco la stella della salvezza, eppure dentro sento
un fremito di luce che mi assicura che splende anche per me.
Sentinella, riposa, hai vegliato abbastanza non solo la pietra ma
l’erba sempre fresca di ogni nascita. Grazie, sentinella! Oggi è
nato il giorno della gioia.
Paolo Turturro
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Meditando i dialoghi di san Gregorio Magno
Afferro la mia vita. Afferro la disciplina. In latino “disciplina”, dis-cipere significa appunto afferrare la propria vita. Dare un ordine, dare il senso alla propria vita. Oggi ho ricevuto il mio pane quotidiano. Ho sentito fortemente dentro di me:” Non scoraggiarti, non avvilirti: “Tu, sei mio figlio”. Mi possono togliere tutto, ma non la figliolanza di Dio. Sono suo figlio dall’eternità. Il sentirsi amati da Dio ci dà la forza di guardare sempre avanti e in alto. Non mi sono togliere il pane eucaristico che mi fa carne di Cristo. Mi sento fortemente amato da Dio. Non è il luogo che elimina il nemico. Certe realtà sono sempre dentro di noi e restano con noi aldilà del luogo dove tu vai o tu sei. Così in questo primo venerdì all’abbazia anche l’ufficio del notturno, apparentemente, mi soffoca tanto da spasimare la morte. I salmi sono voci di tomba e il canto è un sepolcro. I salmi sono ora la mia carne. E’ la voce dove tutti noi saremo momentaneamente. In questo silenzio ogni uomo sente la voce della risurrezione e non della morte. Beato chi ha deciso nel suo cuore il santo viaggio, non potrà raggiungere che la serenità. Il cammino verso Dio non passa accanto ai sentimenti, ma attraverso essi. Nasce in me la testardaggine di attraversare la foresta dei sentimenti. La foresta dei miei amici di fede. La foresta dei poveri che ho aiutato ad essere persone. La foresta di tanti che hanno sofferto con me in questi lunghissimi anni di amarezza. La foresta più buia delle difficoltà non è mai lunga né tanto meno buia quando in fondo ad essa c’è la persona che ti attende e che tu ami. “Beato chi trova in te la sua forza. Beato chi ha deciso nel suo cuore il santo viaggio”. Ecco perché sono venuto qui, a continuare quel viaggio interiore che non finisce mai, neanche in paradiso. E’ un viaggio che, camminando, subito ti relazioni con Dio. Eccomi a pregare e a cantare di nuovo il gregoriano, perché io possa relazionarmi con Dio. Ecco a meditare dentro di me, perché io possa relazionarmi con me stesso. Ecco a lavorare, perché io possa relazionarmi con amore con il prossimo, qui più che mai vicino a me. Qui non sono venuto per fare la mia volontà. Comincio a vivere, a partire dalla volontà di Dio. La volontà di Dio non è la cattiveria degli uomini, né l’annichilimento di noi stessi, bensì la volontà che vuole la nostra vita, la nostra libertà, la nostra autenticità. L’autenticità di vivere in Cristo. Non la volontà dei nostri programmi, ma la volontà della sua salvezza. Tanto più entriamo in noi stessi, tanto più ci accorgiamo e ci riconosciamo di non vivere in virtù di noi stessi, ma in virtù di Dio. Quando diamo ascolto a noi stessi, allora c’è il rischio di uscire dai binari dell’autenticità della nostra stessa vita. E’ solo relazionandoci con gli altri che sento fortemente sicura la voce di Dio. Questo santo viaggio è un cammino tutto in piedi, non è un cammino duro e spigoloso, è come quello della vergine Maria che levatosi in piedi, (anastàsi) andò da Elisabetta e voglio ricordare a me stesso che il verbo greco (anàstasis) significa appunto giungere al luogo della risurrezione e che il servizio da fare a se stessi e agli altri è giungere proprio al luogo della risurrezione, cioè alla propria anima che sposa l’animus. Solo amando fino in fondo (usque ad crucem, usque ad mortem)) puoi raggiungere il luogo della risurrezione. Sono salito sulla vetta del silenzio, per godere la voce dello Spirito (Flamini). Sto entrando dentro di me, dentro le mie emozioni, dentro la mia carne, dentro i miei nervi, dentro le mie ossa, perché so che l’umiltà (humilitas) deriva da humus, cioè da terra. Devo accettarmi così come sono, di terra, nella piena umiltà della condizione umana, della mia terra, della mia carne. Devo accettare la mia ombra, quell’ombra che ti fa paura, perché non ti accetti, perché ti sei fatto di te un’altra dimensione da quella reale che tu sei. Devo accettare me stesso con tutto il bagaglio dei miei giorni, per poter sconfiggere l’egoismo e perché abbassandomi, mi riconosca incapace di salire alla gioia, alle virtù, e possa Lui finalmente prendermi per mano e farmi ascendere dentro la sua volontà di grazia. Così ho deciso di mollare un ceffone al diavolo. Peggio per lui. Che ci stia lui, e chi lo segue, incatenato e relegato alla sua ombra. Non sono nato per la pura contempl-azione, ma nell’intimo del contemplare agisco continuamente. Prega sempre colui che vive sempre bene.
Paolo Turturro
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Il macigno che non si frantumava
Che confusione. Che tempesta di pensieri. Che terremoto di sicurezze e di insicurezze. Non conosco l’alfabeto dei semplici, di un semplice contadino. Tutto qui vacilla. Tutto qui è incerto. Cerco la tua pace, Signore. Cerco il tuo volto, Signore. Attribuire a Te il bene che ho fatto non è misconoscere me stesso, né tanto meno dubitare che Tu possa operare in me il bene. Dio è l’origine di ogni bene. In me tuttavia scopro continuamente una sorte di inclinazione al male, che nasce dall’orgoglio di mettere me stesso sempre al centro di tutto. Ecco la fonte che dissecca. Ecco la sorgente che non fa scaturire la grazia di Dio. Solo riconoscendo come tutto ciò che siamo lo abbiamo ricevuto come dono, solo allora si quieta l’anima e il sole della grazia può splendere dentro di noi, come il sole riflette sulla calma dell’ oceano, dopo la burrasca più agitata dell’uragano. Sono sotto la tempesta del perdono. I lampi dei nervi squarciano l’anima. Non posso rivoltare e riversare le qualità e i doni di Dio in mio possesso. Non sono miei. Nell’attribuire la grazia di Dio a noi stessi, nasce lo squilibrio e mi smarrisco nella boscaglia più fitta dell’amarezza. Lo scoraggiamento è il risultato finale di ogni auto attribuzione che porta inevitabilmente al fallimento. Ma tu, fratello che soffri e che offri ogni spasimo al Signore, sei al sicuro da ogni fallimento, perché il Signore della vita ti darà la sua pace. Dentro di me c’è un perenne sposalizio tra anima e animus. Sto imparando a convertire le emozioni e il bagaglio delle passioni. Le fiamme dei nervi, in fiamme dello spirito. Le fiamme dei problemi della terra in fiamme della volontà di Dio che sana e realizza bene ogni cosa. Ricordo che nel costruire la cucina del Borgo della pace, c’era un macigno enorme, duro da spaccare. Incarnato in altri macigni. Conosco le difficoltà e i limiti degli altri perché li riconosco in me stesso che a stento e a fatica li ho superati. Ciro e Glauco si impuntarono con la forza di volontà e infine riuscirono a frantumarlo. Non vi dico che cosa trovarono sotto quel enorme sasso: un covo di serpenti. Era logico che il diavolo non voleva. Ma la volontà del loro bene ha fatto fuggire lontano ogni serpente, ogni maligno. Qualcuno mi ricorda che da altre pietre è scaturita l’acqua. La pietra è la durezza del cuore dell’uomo. E fare scaturire l’acqua dalla roccia della mente dell’uomo, altro non è che fare scorrere le lacrime della conversione, le lacrime del perdono. Ecco la sorgente di Mosè. Ecco la sorgente di san Benedetto. Non c’è niente di nuovo sotto il sole se non le meraviglie sempre nuove del creatore. Il Signore mi dia il privilegio di essere nel fianco di chi è soddisfatto, spina dell’inappagamento. Sono ora un sorriso di un vecchio saggio. Sono qui a sperimentare certezze non vissute, dogmi non sperimentati. Ora sono nel mondo come l’anima nel corpo. Non butto la mia anima con tutta l’acqua sporca che mi hanno gettato addosso. Non sono turbato affatto dalla certezza di vedere finalmente il suo volto. Io lo vedrò. Perché ce l’ho messa proprio tutta. Il Signore mi farà salire nella sua casa e i miei occhi brilleranno di gioia. Anch’io come don Lorenzo Milani, ho scritto non solo sulla mia porta, ma nei miei occhi, nel mio cuore, sulle mie labbra: I care, mi sta a cuore. Certamente Dio e tutti coloro che egli ama.
Paolo Turturro
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ABBAZIA DEL CUORE
Tu, Signore, non sei la divina indifferenza. Tu non puoi non esserci vicino, anche se cadiamo nel terreno più arido del fallimento della nostra vita. Senza di te nulla si può fare. Troppo tempo, troppe lotte, troppi giorni ho lottato da solo. Non si fa nulla da soli. Conosco i miei limiti, dove non posso affatto seminare. Non semino rancori, né tentazioni. Crescono solo erbacce nell’orto della superbia. Sembra che per Te, o Dio, questo deserto sia il terreno più adatto nel quale potrai fare germogliare le tue opere, la tua grazia. Sono quel chicco di grano che, se non muore, rimane solo. Non voglio essere solo. Non voglio rimanere sterile. Se il chicco di grano muore, produce molto frutto. Sono qui a chiederti come lasciarti agire, o Gesù Cristo, in me. Sopra ogni croce, ci sei Tu, risorto. Una voce sempre mi perseguita: ”Paolo, fuggi gli uomini, e sarai salvo”. Non odio le persone. Non fuggo il mondo. Sento il silenzio, la voce dello spirito. Sento la solitudine, la casa di Dio. Sento la preghiera, il salmo dell’arte. Questa è la strada che mi condurrà alla pace del cuore. Sento l’esigenza di un’esperienza forte di Dio. Ora o mai più. Sento il bisogno di rimanere in modo reale saldo nella fede, radicato nel Vangelo, inzuppato di beatitudini, dopo tante inquietudini. Ho deciso: sto con la logica del vangelo, con la logica della croce e non con la logica del mondo. La mia è una presa di posizione chiara e decisa. Non sono conciliabili le due logiche, e ciascuna ha le sue conseguenze. Da questa scelta dipende l’esito della nostra esistenza, l’esito delle nostre fragili opere. Mi sento amato da Dio. Sono così debole. Mi schiaccia ciò che desidera che io realizzi, senza sapere che Lui stesso opera il suo progetto d’amore. Guidami, non so raggiungere il tuo amore. Guidami, sono debole nello scalare la tua montagna. Per questo mi ha mandato qui, nell’abbazia ”Madonna della scala”. Mi scopro amato e ho l’esigenza di salire lassù ad amarti. Sei tu che mi fai ascendere. Questo cammino è l’incontro di due libertà. La libertà della mia testa che è così fugace e inesistente e la Tua che non so ancora comprendere. E mi perseguiti ancora: “Fuggi, fuggi il male. Fuggi le ingiustizie. Fuggi e pratica il silenzio. Il silenzio ormai di anni. Da queste radici nasce la libertà dal peccato e finalmente la pace del tuo cuore. Non mi dai altri strumenti che la solitudine e il silenzio, per poterti incontrare. Così inizia la lotta interiore contro le metastasi del peccato del mondo e che sovente si annidano dentro ogni cuore. E finalmente inizia la tua presenza, o Dio. Finalmente. Fino a quando? Perché così tardi? Tuttavia non sono al riparo dalle tentazione, specie quella di non perdonare. Non sono al riparo. L’abbazia non è un luogo senza prove. Sono così debole e povero da non essere immune dalle loro infezioni. Ma tu, mi hai reso una lampada ardente senza che io lo sapessi. Tu, o Dio, sei dentro di me e dal di dentro mi penetri di sicurezza e di purificazione. Il male o il maligno ha bisogno di realtà esterne per insinuarsi in noi. E’ vero, non ho fatto niente di buono ai tuoi occhi, ma almeno concedimi di cominciare. Comincio ora. Sono il chicco di grano seppellito nel fango, nelle macerie della società. Non rischiare che la pace della solitudine sia senza prove. Qui, acquietando i rumori del tempo, emergono quelli interiori. Ancora più terribili. Ancora più inquietanti. Così la terra del silenzio è il luogo in cui combattere le forze oscure che invadono lo spirito. Non riesco a respingerle se non con la tua grazia. Qui, a sera, dopo la compieta, tutto si quieta. Si spengono le passioni. Si calmano le tensioni. Si dimenticano i problemi. Si spegne il giorno nel tuo riposo, o Signore. A domani, Signore. Dormo in pace, persino pregando, perché so che il tuo tabernacolo, non solo qui, è pieno e traboccante, come queste campane che a notte invitano ancora alla preghiera.
Paolo Turturro |
UNA LAMPADA, PIENA D'OLIO
Brucia il cuore. Arde l’anima. C’è chi ha pregato ed è guarita da metastasi. Forse la stessa preghiera brucerà le metastasi del mio cuore. Non ho timore del Signore. Nessuno mi ama come Lui. Sono ministro della mente. Sono ministro del dolore. La terapia del dolore mi riempie di grazie. Nessuno sale per morire. Eppure tutti andiamo allo stesso luogo. Non ho mai comprato la coscienza degli altri. E’già una fatica gestire ciò che penso. Non voglio proprio entrare nel labirinto di certe menti. E’ l’ultima occasione per salire sul Tabor, o se volete sul golgota. Quaggiù non si vede niente. Quaggiù è tutto tenebra. E’ l’ultima partita dell’anima. Non posso proprio sprecarla. E’ l’ultimo sigillo. Sono in partenza. C’è un fischio prolungato. Si parte. E’ l’ultimo treno. E’ l’ultimo viaggio. E’ l’unica occasione per purificarmi e santificarmi, io peccatore incallito di superbia. C’è un bel da fare nel crogiuolo dello spirito. L’abazia è la dimora più adatta alla battaglia di ogni spirito. Vado. Siate certi, non è un viaggio senza ritorno. E’ un viaggio dello sposo. Vegliate. Vegliate. Non dimenticate l’olio della coscienza. Non dimenticate. Non prendete con voi solo la lampada vuota. Non attaccatevi all’apparenza. La lampada vuota è una persona vuota. Non siate vuoti di coscienza. Non splendete di apparenza. La lampada vuota non serve per illuminare. Non serve neanche per svegliarvi. No, non servono a niente il denaro e la potenza della terra. E poi dove comprare l’olio della coscienza? Non fatevi intimidire da chi vi chiede carità di olio, quando essi stessi non sanno come e dove accenderlo. Non nascondete la vostra luce sotto le tenebre. No, neanche per umiltà. La luce è verità. La luce splende e le tenebre non la potranno mai vincere. La lampada che Dio vuole ardere è il nostro cuore. C’è sempre una notte oscura da passare nell’anima. Non dimenticate che a mezzanotte c’è il grido dello sposo. Ardete di carità e lo sposo vi vedrà. Ardete di speranza e lo sposo non tarderà. Ardete di pianto e la sorgente della salvezza convertirà e gioirà tutti di perdono e di bontà.
Paolo Turturro
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UN PEZZO DI PANE AVANZATO
Il futuro è così nero. Ma in te, o Dio, è chiarissimo di grazie e di misericordia. Per tuo amore, non tacerò. Il prete è come un albero, piantato e radicato nella coscienza del vangelo che lo nutre. Noi preti indossiamo una stola lunga secoli di perdono. Non ho paura a perdonare. Anzi è l’unica gioia che mi rimane. Ho poco da imparare dalla terra, dagli uomini sagomati spudoratamente dal potere. Anch’io ho lasciato da tempo il Posto delle fragole. Non soffro di nostalgia. Il mio animo è una tempesta di ricordi, di azioni e di reazioni. Non vado tuttavia alla ricerca del tempo perduto. Amare e perdonare non è mai stato e non lo sarà mai un tempo perduto. Un prete mi ha ricordato una parabola di Gesù Cristo e dentro ho trovato per me un pizzico di verità. “Noi preti siamo quei pezzi di pane, avanzati e raccolti in dodici canestri. Sentiamo ancora la tenerezza del maestro:”Raccoglieteli tutti, perché nulla vada perduto”. Mi sento davvero uno di quei pezzi di pane raccolto da tanti amici e mai perduto. Nel dolore si è un bagaglio di emozioni. Sono un registro di battaglie, tante vinte e l’ultima così ardua, lacerante che non finisce mai. Salgo il golgota con frustrate di giornali. Non ci sono cirenei per me. Usque ad mortem. Ho imparato a non attendere niente dal tempo. Ho dentro di me la stagione dell’innocenza, corali di note profonde, voci di fedeli che mi intonano inni e canti di suppliche e misericordia, altari con miriadi di candele ardenti. Ho lottato con il diavolo. Ha un volto ben preciso e occhi di brace di cattiveria. Ho visto pezzenti pagati con ingenti somme di denaro per dire mendacità. Ho dentro di me tanti battesimi, nozze, funerali. In tanti ho letto sul volto il senso gioioso della vita, anche se calpestati da grandi sofferenze. “Non è affatto vero il proverbio, dice un mio amico, “Dio affligge, ma non abbandona”, aggiunge:” va tradotto così: nell’afflizione Dio non abbandona”. Cado sovente in collassi di nervi. Mi auguro che il Signore mi tenga sempre sul mio capo la sua mano. Non ho nessun accidente al cuore. Bevo una tisana. Bisogna berla in certi momenti. Fa bene. Esco dal collasso, grazie ai massaggi caldi e teneri di Daniele. Sono tutti allarmati. Chi vuole chiamare il medico. Chi prega. Io suono dentro me Chopin guardando P. Pio. Mi sorride. Non so perché. Tutto è suggestione della memoria. Un vescovo mi telefona e mi fa persino gli auguri, affinché al più presto finiscano le cattiverie. Non c’è una lanterna magica che cancelli i delinquenti? La mia lanterna quando si scalda non odora di tempo o di vernice. Voi capite che la mia lanterna altro non è che la coscienza. A volte mi lamento di averla. A volte non vorrei avere la mia mente. Caro cappuccetto rosso, non ti fidare. E’ il lupo. C’è sempre un lupo che inganna gli innocenti. Io non so fare l’eterno. Né so fare un tuffo nell’eterno. Ogni mio pensiero è un’immagine che fugge. Fuggono tutte le mie certezze. Il bene e il male lottano ancora. La vita e la morte sono in continuo duello. Non è un’illusione la vita. La vita è solo l’inizio dell’avventura dell’eternità. Nel solco amaro e profondo della mia sofferenza con amara tenerezza io offro a Dio tutto quello che sono. L’offro a Te che non ti conosco. L’offro a Te che non ti fai sentire. L’offro a Te che mi assicuri l’innocenza e la verità che è in me.
Paolo Turturro
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L'EDEN DELLA COSCIENZA
Siamo senza ossigeno. C’è un’asfissia nelle nostre chiese. Boccheggiamo di morte. Non è solo una croce la nostra vita. Noi annunciamo ciò che è già realizzato. E’ realizzato l’amore. E’ realizzato la risurrezione. E’ sposata la chiesa con Cristo Signore. Dio è audace nei suoi progetti di redenzione. Perdonare è la risposta dell’amore. Non c’è sempre saggezza con l’età. E’ il fiato che si fa più corto. La vita è una zattera che va alla deriva. C’è sempre quell’uomo però che si addormenta sulla nostra barca. Ci chiamerà ancora uomini di poca fede. Io con l’odio non voglio spartire proprio niente. A stento sto salvando il senso della vita. Sembra tutto provvisorio. Un fiore di campo che appassisce. Un giorno che finisce. In parco corpore magna virtus. Asserisco con rigore tutto ciò che è vero. Nella mia vita ho detestato la ricchezza e gli agi. Mi sono schierato con la saggezza che appena conosco. Eppure comprendo che nelle battaglie e nelle lotte s’impara il senso della concentrazione, rifiutando ciò che è effimero. Ho imparato a vincere il bisogno, a superare le notti insonni, a superare il limite delle menzogne, ad innalzarsi oltre il tempo. Nella fede non si cammina nel buio. Le pagine della filosofia e di ogni scienza cambiano continuamente. Relativo è il cuore che soffre. Relativa è la mente che pensa. Relativo è lo sguardo corto e maligno. Relativa è la poesia. Relativa è l’arte. Relativo è il tempo. Relativi sono i nostri affetti e le nostre emozioni. Relativo è il corpo dove abita con umiltà Colui che è l’essenziale, Colui che è la vita. Relativa è la vita, vista solo con il tempo. Relativa è la morte, vista con i nostri occhi. Relativo è il potere che non regala a chi lo possiede neanche un giorno in più della vita. Relativo è il denaro che non ti può annientare una malattia. Le leggi a misura di potere sono oppressive. La morale fatta con interesse economico è immorale. E’ oppressivo il debito pubblico sulle nazioni impoverite dal potere di espropriare materie prime di benessere. Eppure ognuno di noi con fatica procede verso l’Assoluto che abita in noi. Noi cerchiamo con tutti i sogni Colui che abita in noi per aprirci l’eternità. Anche le pagine della luce invecchiano. Sembra che non sia più la luce l’elemento più veloce del creato. Oggi si aprono le pagine dei neutrini. Domani già sono superati da energie che non conosciamo ma che sono in noi e che potrebbero essere più veloci. Quanto dolore può sopportare un uomo. Fino a quando le sue spalle non crolleranno sotto il piombo delle accuse. Quanti crimini taciuti. Quante falsità non smascherate. Quanta mendacità. Carissimo amico, anche le pagine del potere di oggi sono relative. Anche il nostro dire su Dio è relativo. In Lui scopriremo meraviglie sempre nuove da non saziarci mai. Relativo è il nostro stesso dissentire. Relativo è anche il nostro pensare su noi stessi e sugli altri. Eppure qualcosa nasce di certo nel giorno. Eppure Qualcuno, che ha accettato liberamente la passione di una croce, ci assicura che non siamo nati per caso e che non finiamo per caso nel nulla. Ecco perché, quando tu, o Dio, nascondi il tuo volto, io sono molto turbato. Ecco perché nel sacramento della Tua Parola, nel sacramento del Tuo Spirito, nel sacramento del tuo Amore, noi troviamo l’uscita di sicurezza dal dolore, dall’angoscia, dalle tenebre che opprimono di menzogne, dall’effimero e dal relativo che ci avvilisce di sabbia. Io so, nel dolore, che un tuo sacramento non ci opprime. Io so che il peso delle accuse non mi può schiacciare, se io sono nel tuo calice di salvezza. E sento la gioia della verità salire dal tuo calice di salvezza. E sento la gioia dell’uscita di sicurezza proprio nel perdono. E sento la gioia del discernimento che mi veste di innocenza. Io so, nel fallimento, che tu mi hai preceduto per sollevarmi e per cancellare nel mondo ogni avvilimento. Io so che da solo non posso sollevarmi dalla terra della sofferenza. Non ci sono ali per planare dal fango delle menzogne, solo tu sei la nostra ala non solo di riserva ma di essenzialità per uscire da ogni male. Perché sono precipitati sulla terra i demoni sconfitti e schiacciati dal cielo? O se fossero precipitai su marte o su un pianeta informe! Io mi aggrappo solo al tuo Amore, infinito per me. Anch’io seguo il re. Non rubo niente al tempo. Non rubo niente alla grazia. Non rubo niente delle monete e dei gioielli che cadono dal carro del re. Nel mio respiro corto di terra non mi basta. Ho bisogno di una boccata d’aria di cielo. L’ossigeno che ci manca si chiama fede. Tu lo sai ciò che desidero. Tuttavia non la mia ma la tua sia fatta. L’unico conforto sei tu e vorrei tanto vederti. Mi basterebbe, mica tanto, soltanto un tuo sguardo. Mi basterebbe anche un sogno che mi invita a seguirti per sempre.
Paolo Turturro
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Tu, condannato sulla croce, non esisti più nella storia
Tu, carissimo amico, sei stato condannato 2000 anni fa sul patibolo di una croce. Oggi invece condannato alla non esistenza. Non ci è bastato il tuo sangue per credere. Non ci sono bastati i tuoi spasimi per credere. Non ci è bastata una madre addolorata sotto la croce per credere. Non ci è bastato la tua morte per credere. Non ci basta ancora la tua risurrezione per credere. Ora ancora una volta questa nostra società, così sapiente, così scientificamente preparata, così evoluta nella mente e in ogni cosa, vuole condannarti alla non esistenza. Anzi da tempo ti ha condannato alla non esistenza. Ti ha condannato anche per la nostra poca fede. La gente ti ha condannato anche per la poca credibilità di noi cristiani. No, non esisti più per amare; non esisti più per riempirci di grazie e di sapienza. Sei solo un condannato alla non esistenza. Non sei mai esistito per i grandi giornalisti d’oggi. Non sei esistito per Voyager. Non sei mai esistito perché su di te ci sono solo alcuni accenni nella fiumara degli scritti grechi e romani. Quanta poca sapienza è la nostra, basata solo su carta scritta. Chi ha mai letto tutti i libri scritti dall’intera umanità? Chi ha mai letto tutti i vangeli apocrifi nati dalle reazioni e dagli scismi delle comunità cristiane? Chi ha mai letto tutti i diari dei santi? Chi ha mai letto i drammi e le conversioni di ogni cuore? Conosci i diari dei grandi convertiti della storia? Conosci le pagine ardite di Stein? Conosci le confessioni di sant’Agostino? Conosci le lettere ardite di santa Caterina da Siena? Conosci i drammi spirituali di P. Pio? Conosci la fede delle nostre donne siciliane prime martiri della nostra storia cristiana? Santa Lucia? Sant’Agata? Santa Oliva? Santa Ninfa? Conosci le notti oscure di tante donne, di tante sante, come santa Teresa d’Avila, di san Giovanni della croce? Conosci duemila anni di cultura, di arte, di fede su Gesù Cristo, oggi condannato alla non esistenza? Carissimo amico, io ti chiedo: come è possibile che un drappello di dodici tuoi amici, come gli apostoli, così sprovveduti, così lontani dalla potenza greca e romana di allora, così ignoranti del sapere del tempo, come hanno potuto capovolgere e convertire un impero romano? Senza un potere terreno. Senza un’arma. Senza un esercito. Senza una diplomazia. Senza un accordo. Senza un compromesso. Senza un 8 per mille. Come ha potuto Paolo di Tarso parlare e convertire i grechi nell’areopago di Atene? Io, è vero, non ti conosco bene. So tuttavia che la mia è una fiducia sullo spirito di fede. Non mi crolla la mia fiducia in te perché non ti ho visto, con questi miei occhi, risorgere. Ci sono altri occhi più profondi che scrutano lo spirito del tuo amore. C’è un’altra mente più acuta a penetrare la tua esistenza. Non mi crolla il cuore dopo tanti drammi ad amarti. Non mi crolla l’animo a saperti non creduto, a saperti ancora fallito. Il tuo mistero di amore, il tuo mistero di far nuove tutte le persone è così alto che svengo a immaginare che tu sei capace a rinnovare i malvagi e i dittatori del tempo. No, lo so, non qui sulla terra. Per te non esiste solo il tempo. Puoi rinnovarci e renderci salvi nel talamo del tuo cielo. La nostra vita, per te, non è una prova per conquistare il cielo. Tu lo regali a ognuno di noi facendoci nuovi dentro. Ho tanto da chiederti. Carissimo amico, io ti domando ancora: come hai potuto resistere fin’ora nella storia, nonostante le gravi deficienze della tua amata chiesa? Ci scoraggiamo dinanzi ad Alessandro Borgia. Ci scoraggiamo dinanzi alla superbia della tua stessa chiesa. Ci scoraggiamo dinanzi alla sacre inquisizioni. Tu che non inquisisci mai. Ci scoraggiamo dinanzi alla miseria morale della storia dell’uomo e di tutti i popoli. Ma proprio per questo tu sei la nostra forza. Proprio per questo tu esiste a rinnovare ogni cosa, ogni persona. In te non ci sono più Curdi massacrati, non ci sono più campi di concentramento. Non ci sono più Amazzonie devastate. E ci rinnovi e noi siamo tuoi testimoni di questo tuo amore che ci fa nuovi dentro. Testimoni oggi. Ci scoraggiamo dinanzi agli scismi e alla divisione di noi cristiani. Ma proprio per questo tu esiste alto nello spirito, nonostante la nostra pochezza di fede. Siamo testimoni sulla terra di quello che accade nello spirito. Eppure anche a me parli nel cuore. Ancora oggi ai deboli riveli la tua sapienza. Eppure ancora ai semplici riveli i misteri dei cieli, così chiari nel cuore di ogni uomo buono, libero, innocente. Eppure ti riveli anche ai potenti nel peccato per allontanarli dal male, dai loro sistemi corrotti. Si, anche oggi. Si, anche oggi incatramati di opulenza non solo mentale, ci liberi dal peccato del mondo. Chi ci libera dal peccato è Dio dentro di noi. La fiducia in te la sentiamo scorrere nel cuore del nostro spirito dove non batte più il male. Chi è capace di purificare i crimini della storia? Forse voi giornalisti d’oggi. Forse voi giornalisti pagati dai potenti del denaro per fare dei vostri dubbi e delle falsità voci di verità? Carissimo Gesù, la tua esistenza è una fiducia - grazia che ogni uomo può sentire, può avvertire nel giorno più disparato della propria vita. Non si può sapere dello spirito solo con le carte della storia. La nostra fiducia in te riguarda lo spirito che sa solo di certezza e di sapienza. Non come la carne che sa di tempo, di errore e di debolezza. Non come la mente del tempo che sa di cose della storia e non del cuore e dello spirito. Ancora, carissimo amico, in te crede il creato, credono i piccoli, crede l’amore che abbraccia persino l’eterno. Crediamo ancora, crediamo forte con il cuore. Crediamo nonostante la nostra pochezza, nonostante la nostra debolezza. Si, con la nostra debolezza del tempo, ma vestiti di fortezza di luce, noi nutriti di eucaristia divina. Paolo Turturro |
Nunei, la rosa del deserto Nunei, la rosa, la donna del deserto. Dal disastro dell’ umanità d’oggi si salverà qualche persona di valore che farà germogliare una nuova umanità. Mi rendo conto che ogni opinione passa, cosicché da sempre ho scritto poesie, fatti, racconti, eventi con l’unica pretesa che non siano definitivi. Domani già stanno cambiando le mie stesse convinzioni. Ho scaldato le mie rigidità con i miei stessi dubbi, con le mie stesse incertezze. Tutto ciò che si dice di Dio appartiene all’uomo, all’antropologia soggetta nel tempo minuto ad evolversi e a capovolgere ogni conclusione. Temo molto di guardarmi dentro. Non basta una rosa del deserto per respirare certezza. Proprio per non guardarmi scrivo sempre, dipingo dentro e fuori. O forse potrebbe essere il contrario, cioè dipingere, scrivere, raccontare è l’unico modo giusto per conoscermi, per sapermi, entrare dentro di me e capire qualcosa fuori di me. I miei poemi esistono perché esiste la natura e io mi sento da sempre abitato dal creato e dal suo creatore. Finalmente sono giunto alla porta dell’anima. E’ lunga la strada e io non so camminare nello spirito. Che avventura l’anima. Tolstoj ha scritto che i drammi più grandi accadono in camera da letto. Credo sia vero anche per chi dorme da solo. La notte è la solitudine più abitata. E’ il film più veloce e più chiaro. E’ il dramma dello stesso giorno. Dentro le sue pellicole scorrono immagini, pensieri, persone, popoli, strade, monti e soprattutto molte incognite. Incognite, per cui non basterebbero secoli per soddisfare una risposta. Dentro una notte costruisci dighe, grattacieli, inni di fratellanza, sinfonie di accordi senza che entrino le tenebre delle discordie. A me sembra di esistere affascinato dal respiro del creato, dal tuo respiro che ami, dalla tua volontà che ferrea superare ogni ostacolo d’odio mentale. A me sembra di esistere perché affascinato dal bello femminile e dal buono che non si imbratta mai e dal vero che non si spegne mai. Più ancora affascinato dall’intelligenza del cielo che come un lenzuolo ci avvolge tutti candidamente nelle pagine dell’infinito. Io non sono mai entrato nella fabbrica dei divieti. La fabbrica dei divieti è sorta per sigillare le coscienze nella paura del divino e così sfruttare e operare sicuramente sui poveri e sui deboli. Più vado avanti negli anni nulla cambia della mia primordiale genuinità che il creatore ha infuso dentro di me. Non è cambiato nulla della mia infanzia, quando credevo che il mondo fosse abitato da popoli che respirano la stessa aria, che camminano gli stessi percorsi della natura, che si affidano al cielo che è più alto e più sicuro. Resta sempre lo stesso fascino per il bello, per la natura carica di novità. Resta sempre lo stesso delirio di incontrare un giorno il creatore della vita. Resta sempre lo stesso stimolo alla fratellanza, alla fede, alla stessa attesa delle nozze del cielo che avvolgerà tutti di immortalità. Sono affascinato da tutto ciò che non è visibile. O Nunei, dove sei? Dove sei, donna del cielo? Dove sei, donna della croce? Dove sei, donna della risurrezione? Sei invisibile? Nascosta dentro il deserto di ogni uomo. Chi lo dice? Anche il cuore è invisibile. Anche il fiato è invisibile. Anche la donna è invisibile. Anche un figlio è invisibile. Anche il tuo stesso corpo è invisibile. Ogni uomo è invisibile al meglio di se stesso. Tutti noi siamo abitati da Colui che non conosciamo. Ogni uomo è abitato dalla sua donna per scoprire finalmente di nascere alla conoscenza. Tuttavia non è la donna l’albero della conoscenza, tanto meno l’albero della vita. Tu, o donna, sei Nunei, la rosa del deserto. Dicono che l’uomo è incapace di amare fino in fondo. Fino a morire? Questa visione romantica, questo svenimento è solo nei poeti, è in Giulietta e Romeo. Si traduce sempre in un destino tragico da commedie e da mito greco. Nella rosa del deserto cerchiamo sempre l’amante, la moglie, la madre. La rosa del deserto è sempre la più forte. E solo a queste condizioni stiamo bene con lei. La rosa del deserto non mi fa paura. Non mi mette addosso agitazione, ansia e oppressione. Ciò che affascina non ha un aspetto inquietante. Con la rosa del deserto, lungo il percorso delle dune, delle prove della vita, delle difficoltà del vento che spazza ogni solco di sicurezza, non mi sono sentito mentitore. Io dico tutto ciò che mi viene in mente. Non ho paura del profumo della rosa del deserto. Io abito il vento. Io abito il deserto. Mi sento amico della rosa del deserto, anche se l’amicizia appiattisce, fa scadere il mistero del rapporto. Così ti trovi sempre più in alto e cerchi quella rosa del deserto più nascosta, più alta alla visione umana. Forse quella che cerco è nel deserto del cielo. Nel baratro delle dune del deserto dell’anima sono sempre indifeso. Mi basta niente per farmi precipitare nelle ansie di quel giovanetto magro, allampanato, insicuro, escluso da ogni competizione, avvolto dal fascino della filosofia, testardo ad ogni raccomandazione e a ogni favore, alieno a ogni successo che gli altri mi volevano regalare. L’ultimo incontro, sono certo, avverrà nel calice della rosa del deserto. Sarà il mio talamo per sempre. Non voglio per ora immaginarlo. Faccio già troppa fatica a pensarlo. Chissà come sarà? Avvolto di mistero o di candida certezza? Lasciamo stare. E’ meglio pensare a Rita che traduce ogni evento in comicità. Paolo Turturro
Coraggio, alzati. Scriverò con ali di pensiero perché ogni fiato sia un’energia da sostenere poveri e miserabili. Al lampadario della nostra sala d’arte mancano delle lacrime. Non guardate me, perché non ho più neanche una. La mia sorgente è secca, si è prosciugata al punto che le rocce delle costole sono tutte fuori. Vi posso donare un lacrimatoio dell’antica Roma, che ho scoperto negli scavi di Herdonia. So che ogni cuore è pieno. Provate ad aprire il vostro pianto, sarà abbondante la sorgente della vostra stessa salvezza. Nessuno conosce il cielo del proprio spirito. Dentro vi sono sorgenti di milioni di anni e di persone. Non chiudere sempre la tua vita dietro il nulla dei tuoi giorni. Passano e sulle tue spalle restano solo gli affanni. Apri la vita, spalanca il tuo amore oltre il tempo. Apri la vita. Stupisciti di te stesso. Abbraccia l’ineffabile che è dentro di te. Ti aspetta l’eterno. L’appuntamento è dentro di te. La decisione ora è solo tua, per assaporare tutto quello che per cent’anni cerchi con affanno senza mai trovarlo. Ecco è la volta buona. Si chiama coraggio dello spirito che rinnova la faccia della terra e della nostra società così sterile e tenebrosa. Aiuto coloro con i quali cammino per poter raggiungere Colui con il quale rimarrò per sempre. Coraggio, alzati. Alziamoci e leviamo il capo. Facciamo qualcosa assieme. Il mondo cambierà. Anzi già sta cambiando. Non vedi il disagio attorno a te? Non senti il disagio di vivere in questa società sterile? Coraggio. Non restare bloccato sull’asfalto dell’impossibile. Coraggio, alzati. I giorni portano nuove primavere, nuovi orizzonti e gli stessi tramonti portano nuovi giorni. Qui, sulla terra l’uomo attende il ritorno del Signore, in cielo il Signore attende il ritorno dell’uomo. Coraggio, alzati. Il Signore è l’eucaristia del quotidiano. Il Signore è la persona che aiuti. E’ lo smarrito che troverai sulla strada da confortare. Coraggio, alzati. Il Signore che vuoi vedere nel suo splendore più candido è il malato che sostieni. E’l’operaio che riprende a lavorare dopo tanti licenziamenti. E’ il giovane che trova impiego. Coraggio, alzati. Il mondo cambia in fretta. Potrebbe cambiare in peggio se manca la tua mano onesta, saggia e pulita. Coraggio, alzati. Il ritorno del Signore che attendi è la giustizia che redimi; è la povertà che vivi; è la limpidezza del tuo sguardo nelle omelie che professi; è la stessa pazienza dei tuoi progetti che puntualmente nel cuore di Cristo si realizzano. Coraggio, alzati. Il mondo sta cambiando, grazie alla tua testimonianza evangelica nell’abbracciare ora il tuo dolore. Coraggio, alzati e partecipa attivamente alla solidarietà del tuo e del cuore degli altri. Coraggio, alzati. Non vedi che sei in piedi ora più che mai e il tuo silenzio ha generato in alto fratellanza, uguaglianza e legalità? Coraggio, alzati. Io ho bisogno della tua ala di fortezza per volare al di sopra delle scorie umane. Coraggio, alzati. E’ finito il tempo dell’odio. In me non è mai stato. E’ finito il tempo del male. Hai avuto la forza di distruggerlo nelle tue stesse vene. Non ti accorgi che nel tuo animo è schiarita la tempesta del dubbio, la bufera dell’impossibile. Coraggio, alzati. I popoli son comunità. Gli uomini hanno imparato a leggersi tra di loro. Sono cadute davvero le frontiere mentali, le frontiere delle nazioni, le frontiere delle religioni. Coraggio, alzati. Tocca a te impugnare la speranza. Tocca a te arare la gramigna del tuo disimpegno. Tocca a te ricostruire il disastro ambientale e culturale. Coraggio, non mancare all’appuntamento dell’umanità che cresce grazie alla tua giovane volontà. Immaginavo di poter trascendere le facoltà del mio intelletto. Devo ammettere che le questioni ultime, quelle che noi chiamiamo dell’oltre, non possono avere risposte definitive. Ciò non significa che cado nel nulla. Anzi. Ho toccato il limite della mia comprensione e devo fermarmi qui. Qualcuno mi farà procedere oltre solo con il suo amore. L’albero della conoscenza mi tenta continuamente e mi inquieta a tal punto da smarrirmi nelle pagine dell’infinito. Mi prende fino a farmi dimenticare e trascurare l’albero più importante della mia esistenza: l’albero della vita. Questa è la mia umile conclusione, forse dopo tanta presuntuosa ricerca: amo la vita, quest’albero che ha profonde radici nell’albero della conoscenza.
Paolo Turturro
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Una dote di felicità
E’ finito il chiasso. E’ finito lo smarrimento. Ora medito Dio, l’ignoto, l’ineffabile, il semplice, l’irraggiungibile, il paterno, l’affettuoso. La natura mi ha insegnato la vita. Mi ha indicato il sentiero. Mi ha insegnato a crescere dentro. Mi ha spronato a superare gli ostacoli delle tenebre. Mi ha catapultato ad affrontare le tempeste più burrascose, più agitate dello stesso spirito. Mi ha educato ad amare, a perdonare, a contemplare l’oltre che circonda l’infinito. Vivo il deserto dello spirito. Qui nessuno si avvilisce. Qui, nell’orizzonte dell’anima, si aprono speranze inattese. Qui nessun passo si affonda nella sabbia del nulla. E’ proprio vero! Senza Dio nulla esiste di valido, di certo e di santo. A piedi nudi cammino sulla brace dello spirito. Voi non sapete come arde il cuore. Voi non conoscete la veste candida dello spirito. Né il cingolo che ci circonda di sicurezza e di fortezza. Lo spirito non si veste di tempo. Sono nel crogiuolo dell’anima. In questo ardire di fuoco non mi resta nulla, non ti resta nulla neanche le ossa dei peccati. Qui, in questo cammino dello spirito, l’incerto diviene certo, l’assurdo è reale, l’ignoto si apre alla conoscenza. Procedo con le ali del respiro, dato che da tempo il potere ha tarpato le ali alla gente. Il potere tarpa solo il tempo. Tarpa le mani che sanno solo di falsità. Il potere non ha potere sulla spirito. Non ti fare comprare l’anima con un fazzoletto di raccomandazioni. Non spedire bustarelle di cenere per un posto di lavoro. L’inerzia qui dentro non è una virtù. La virtù è la chiave dello spirito. Si procede sempre nella contemplazione e non ti sazi mai di Dio. La paura svanisce. Il tuo cammino diviene luce del discernimento. Qui, il passato, ciò che ho amato, ciò che ho sperato, ciò che ho gridato con l’indignazione del cuore, è presenza reale. E tu tocchi senza sapere la presenza di Dio. Sei Elia. Sei Isaia. E’ il tuo pensiero, le tue decisioni sono voci di Dio. Sei il profeta che conosce Dio. In me ogni persona che ho conosciuto, s’incarna ala del mio stesso respiro. La porta dell’oltre è il tabernacolo. Si apre con la chiave del silenzio. Mi effonde ciò che nei secoli non posso apprendere. Sottile è il passo dall’abisso all’estasi. Il tempo è bruciato senza mai consumarsi. Dentro sono oltre. Fuori non so chi io sia. Qui scopro che la gioia dell’eden è dentro di me. Il mio mondo interiore è il paradiso che cerco lontano. Quel mondo interiore che troppo spesso ignoro e con facilità tutti noi dimentichiamo. Qui mi irrompono sorgenti di sapere pulito. Senza sapere le sofferenze del tempo sono divenute cibo che mi illumina nelle tenebre dei dubbi del tempo. Sviene persino la luce dinanzi a tali prodigi. Medito ciò che è assurdo sapere dell’infinito. Le sinfonie del tempo create da musicisti impazziti d’amore, qui pallidamente svaniscono dinanzi alle armonie pur mute dello spirito. Ogni uomo non perderà la fiducia in Dio, perché le radici dell’anima sono irrorate da volere divino. Ogni uomo non perderà l’alito di Dio. Il tempo è una burrasca, ma nulla può sulla potenza dello spirito. Il tuo spirito è capace di guarirti da un tumore. Dentro di noi, nonostante la sedimentazione delle scorie degli odi dei secoli, non può calare la corruzione. La corruzione del male è la fogna più fetente che inquina la gente. Mi avvolgo con le ali delle beatitudini per non cadere nella ruta della corruzione. Esci dalla tomba della sterilità di questa nostra società. Esci dal possibile di affondarti senza sapere. Esci dal potere che ti infanga di rancori. Esci dal chiasso della mente. È la mente corrotta, il tumore dello spirito. In cento anni non posso sapere nulla su Dio. Egli si rivela continuamene a tutti gratuitamente. Non si rivela soltanto nelle capsule dei sacramenti, chiuse e aperte solo a pochi. Si rivela a tutti. E’ fuori di ogni schema. E’ fuori delle mura di ogni pensiero. E’ fuori dalla mura di ogni appartenenza. E’ difficile camminare con lui. Ora te lo trovi avanti. Ora è con il misero che tu hai disprezzato. Mentre dubiti di lui, ti riempie di certezze. Mentre ti ribelli a lui, egli ti carezza. Mentre lotti i dogmi, egli ti effonde vera conoscenza. Che so di Dio, mentre lui mi gioca solo di amore. Che solo di Lui, mentre mi rapisce il cuore e più ancora sono smarrito. Dammi, Signore, fortezza, dove sono debolezza. Donami soccorso, dove sono spezzato di angoscia. Donami la tua mano, mentre sono disprezzato. Donami coraggio, mentre sono turbato. Ecco, tu sei la mia unica dote di felicità. Una dote non meritata. Una dote inaspettata. Una dote oltre che nessuno sa rinchiudere in una banca. Ecco ho scoperto: la santissima Trinità è la mia dote di felicità.
Paolo Turturro
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Non capisco proprio niente
Vorrei che questa esperienza del dolore non finisse mai. Perché più soffro e più mi purifico. Più soffro sulle mie mancanze e più Cristo in croce si manifesta. So che voglio meditare la sua passione, il suo spasimo, il suo costato e più la mia immaginazione è buia. Buio dentro di me. Buio attorno a me. Solo la volontà mi riprende a meditare il Vangelo, la sua Parola, la sua crocifissione. Ora quasi quasi sento dentro che non è Cristo che non vuole che io entri nel suo costato, ma sono io che ho paura di entrare. Soffrirò di più. Mi è tutto incerto. Mi è tutto insicuro. Mi è tutto nulla. Solo la mia volontà resta di ripresa. Voglio contemplare la sua croce. Voglio contemplare i suoi chiodi che penetrano nelle sue mani, che trafiggono la carne dei suoi piedi. Sento lo spasimo dovuto a causa dei miei peccati, di aver sperperato la sua grazia, i suoi doni. A me capita il rovescio: ho ricevuto prima doni, grazie, miracoli, e io incurante peccavo. Ora ricevo profondo il mio pentimento. Ho paura di continuare nella sua chiamata totale. Questo percorso mi dà insicurezza, tormento. Da quando ho cominciato davvero a meditate la sua passione, tutto mi va male. Sento dolori al petto. Sento la mia nullità. Sento la mia totale miseria. Come sono carnale. Credo più alla materia che alla forza dello spirito, alle energie dell’anima. Lo spirito è capace di guarire un corpo di cancro. Il corpo non è capace di curare lo spirito. Ritengo la mancanza dello spirito e della sua preghiera cosa più tormentosa della stessa morte. Perdere lo spirito è la morte di se stessi. Come spogliarsi dei pensieri passionali? Come spogliarsi dei pensieri semplici, fino all’assenza completa di immagini, di concetti e di forme materiali e mentali? Spogliarsi delle immagini che vengono dalla carne, per tuffarsi nei pensieri che vengono dallo spirito. Se non accelero lo spirito, rischio di spegnere il dolore. Così la vita diviene tanto miserabile. Non so lodare il Signore per questo tempo di grazia. Sto vivendo momenti di stanchezza spirituale. E tuttavia so che ogni volta che disprezzo il male, acquisto vigore. Signore, non capisco niente. Capisco la mia superbia, il mio orgoglio. Non capisco niente. Come tutti usano le stesse tue parole. Non capisco proprio niente. Dove sei? Qual è la tua Parola? Qual è la tua strada? Tu sei la mia via e io non la percorro. Tutti la percorrono con il potere del tempo, con il potere della politica, con il potere delle diplomazie. E sono chiesa? Signore, io non capisco proprio niente. Non so niente. Non sono niente. Mi sento trafitto il cuore dalla mia nullità. Signore, che vuoi che io faccia? Signore, non capisco niente. Sono ancora ancorato alle mie opinioni. Vedo ancora i movimenti della chiesa come forma di potere temporale. Svuotami delle mie opinioni. Svuotami. Sarò meno certo. Sarò libero da tutto. Così, con le mie opinioni, mi blocco verso l’altro che pensa diversamente da me. Liberami, liberami da queste catene mentali. Sono incapace di accettare tutti dentro di me. In me potete notare due profonde realtà: la prima è mia, piena di limiti, di dubbi, di perché, di peccati. La seconda è di Cristo Gesù, piena di misericordia, di conforto, di grazia. In me non c’è niente da lodare, ma solo biasimo. A santa Teresa Gesù Cristo stesso le risponde:” E di che temi? Da questo non possono risultare che due cose: o mormorazioni contro di te o azioni di gloria a mio riguardo”. “ Ci vuole più coraggio a seguire la via della perfezione che non per subire un rapido martirio”. Ancora Teresa. Così lei mi sta insegnando a spogliarmi della mia reputazione, del mio onore. Gesù Cristo fu coperto di sputi, di ingiustizie e di falsità. Che vuoi di più. E appena in me una piccola falsità mi rizzo a dovere, a difendermi, a rispettare la mia reputazione. Seguirò la scelta di Gesù Cristo, la scelta di incassare, la scelta, per quanto è possibile, del silenzio. La scelta di spogliarmi di tutto. Sento l’urgenza di riformare in me ogni cosa. Di riformarmi nell’umiltà di Cristo. Di acquisire la giusta dimensione della sua vocazione in me. Che è impossibile parlare e agire di pace, se la quiete non è in me, in noi. Che Cristo è la via della pace. Urge seguirlo interamente nei suoi atteggiamenti, nelle sue scelte. Non posso amare solo quelle persone che pensano come me e disprezzare quelle che reputo inferiore e diverse da me. Voglio essere disprezzato per quello che sono. Non cerco di comprendere per amare, ma nell’amare conosco e comprendo. Mi rendo conto che partorire questa scelta è dolorosa. Tanto più è lacerante dentro ognuno di noi partorire la grazia. Bisogna spogliarsi di ogni cosa. Si soffrono dolori atroci, perché la grazia come una spada di fiamma penetra dentro, purifica tutto, santifica e riempie di grazia. Attendo questa spada di fiamma che mi purifichi l’anima, come l’oro nel crogiuolo. La violenza non paga. Il dolore paga molto. Ho solo paura che il peccato mi prenda ancora e mi accechi di odio. Signore voglio camminare solo nella tua luce. Il peccato non può impedirmi di avvicinarti a Te. E’ tempo di cominciare daccapo. Sono all’inizio del calvario. Lascio dietro di me queste calunnie. Voglio camminare solo nella tua luce. Sento lo spasimo dei tuoi occhi. Non riesco a capire come è stato possibile condurre una vita così tiepida. Seguo il sentiero delle mie lacrime. Piangere solo per le calunnie è troppo meschino. Ora piango per le piaghe che ho lacerato nel tuo Corpo Santo. Non voglio odiare. Voglio perdonare. Ringrazio per questo tempo dello spirito. Dinanzi a me c’è un baratro fitto di odio e di diffidenza. Hanno imprigionato la mia anima. Affluisca in me ciò che defluisce da te. Infatti, benché sia difficile comprendere come nella tua giustizia possa esserci misericordia, tuttavia è necessario credere che in nessun modo va contro la giustizia ciò che sgorga dalla tua bontà. Riesci a trasformare i malvagi in buoni. Trasformi la malvagità in bontà. Tu senza contraddizioni punisci giustamente e giustamente perdoni. Ciò che viene dalla bontà non può essere che giusto. E’ giusto rispetto alla tua bontà, non rispetto ai nostri meriti. E’ solo a tua lode e gloria. Non ti vedo, perché sei luce inaccessibile e noi tenebre. Siamo ciechi e spenti dentro. Nella tua luce sono così lontano da te e tu così vicino a me. Sei dentro di me e io non sono con te. Sei tutto intorno a me e non ti avverto. Dentro te mi muovo e non mi posso avvicinare a te. Sei così dentro di me e io non ti vedo e non ti sento. Se tu mi ami, perché non sento dentro di me la tua gioia? Perché i dolori di questo mondo sono più forti della tua grazia? Perché il tuo sangue è dentro di me e non mi trafigge l’anima? Perché sono capace di afferrare le gioie di questa terra, di un pensiero, di un’opera d’arte, di un colore di un fiore, del caldo dell’affetto e non sento niente di te? Tu che sei il creatore di tutte le gioie? Che assurdo! Perché tutto questo? Qual è la tua presenza? Almeno dammi la certezza che ci sei. Se mi ascolti, mi basta. Qui sulla terra almeno una fiamma di quel fuoco che desideravi accesso dentro di noi.
Il gabbiano Giustizia
Giocavo sulle onde della spiaggia di Carini, assieme a una decina di ragazzi che danzavano come pietre sfrecciate sulle onde del mare. I gabbiani picchiavano alghe porose di pesci. A riva gli strati di fogli di roccia sagomavano diluvi e battaglie primordiali. Un gabbiano, dalle ali più possenti, guidava uno stormo sui crepacci e sui cavalloni biancastri impennandosi più alto, oltre, oltre il punto estremo dell’orizzonte. “Come lo chiamiamo?”- suggerii ai ragazzi che perdevano i sogni tuffandosi nei muri d’onda. “ Lo chiamiamo “Gabbiano Giustizia”, per il suo ardire il cielo, per il suo desiderio di trasparenza, per le troppe stragi sui gabbiani. Volava alto, volava oltre il nostro sguardo. Oltre il monte. Volava oltre le visioni basse di ogni altro gabbiano. Volava oltre le barriere di ogni divieto, di ogni ostacolo alla libertà. Si perdeva nei sogni, appariva di nuovo sulle vele dei bastimenti, si impennava oltre il blu scavato nel mare. E un ragazzo sfidando il vento sognò che il Gabbiano Giustizia scomparve lontano, sulle steppe dei pianeti, nell’entropia degli spazi e dei tempi. Il gabbiano Giustizia volava alto, non voleva assuefarsi al volere dell’atmosfera, al volere del potere, al volere dei governi corrotti, al volere dei potenti, al volere del denaro, al volere delle mafie, al volere delle massonerie che usa comprare le coscienze per concedere poteri, impieghi, successi, onori e posizioni. Quanto soffrire per volare libero. Quante umiliazioni per innalzarsi oltre le banali visioni umane. Ogni potere ha sempre una chiave blindata di misfatti. Il gabbiano Giustizia volava alto, pur emarginato dai suoi stessi compagni, anzi esiliato dalle loro convivenze, volava in alto con la chiave della sua coscienza per aprire quella blindata maledetta porta. Dentro quella cassaforte c’erano scritti tutti i segreti del potere, persino quello assurdo di credersi Dio o di divenire Dio. Il gabbiano Giustizia pigolava alto:”Quis ut Deus?” “Chi come Dio?” E in questo suo ardire picchiava muri, raffiche di vento, incontri, convegni per svegliare la coscienza della gente. E molti gli urlavano:” Chi sei tu per vedere così in alto, per aprire le nostre coscienze assopite?” Stormivano gli altri gabbiani. Allora il gabbiano Giustizia decise di entrare nella politica della coscienza, libero da tutti. Sembrava a molti una utopia, un’alienazione, un ritirarsi in convento, un segregato dal mondo, un abbattersi da solo, un relegarsi nel mondo di una coscienza che nessuno sa leggere. Invece liberamente ardiva salire sul monte della sua coscienza, liberamente sul monte del discernimento, liberamente sul monte di ogni pensiero, liberamente sul monte di ogni decisione. Salire con lo spirito per generare nella terra la politica della coscienza. Salire con i piedi non è sempre difficile, si suda soltanto. Salire invece sul monte dello spirito, sul monte dell’impegno, sul monte della solidarietà, sulla sorgente della speranza, sul monte dell’onestà è più ardo e si rischia il capogiro delle gelosie. Saliva, volava sulla cima di un monte dove splendeva la chiesa della verità. Pensò di riposarsi un po’ sul campanile dell’orizzonte. Si posò sul nido dentro le bifore del convento, poi dentro la cupola, non delle mafie, non delle banche del potere ma dentro una piccola cupola della moralità. Spiccò il volo e abitò silenzioso in quell’eremo di coro eterno di frati. Nessun politico oggi chiede consiglio a un santo. Non dirai mica che non ci sono più santi sulla terra? E padre Pio? E padre Puglisi? E padre Diana? E Oscar Romero? I monaci oravano salmi e preci per i poveri. Salmodiavano inni di giustizia. Oravano per il bene della valle delle metropoli. In quella piccola nicchia il nostro gabbiano Giustizia scorse appollaiato sereno e mite un altro gabbiano: il gabbiano Misericordia. Volava sempre sullo stesso colle, a chiede consigli a una croce. Beccava baci a un Crocifisso e ora amava tutti quei gabbiani che lo avevano spennato di sangue un tempo sulle scogliere del male. Il gabbiano Misericordia amava sempre, dimentico del male ricevuto. Era nato per amare e basta. Non posso qui, amici, nascondervi l’evento stupendo che accadde in quella piccola nicchia del convento della coscienza. Il gabbiano Giustizia s’innamorò del gabbiano Misericordia. Allora assieme volarono più in alto, più alto dell’impossibile. Cercarono un convento più alto, più silenzioso per sposarsi. Trovarono il cielo per letto. Capì il gabbiano Giustizia che non si lotta da soli. Un gabbiano solo è sempre in cattiva compagnia. S’innamorò e nel loro amore nacque il gabbiano Pace. Buon volo gabbiano Pace nelle valli della terra. Buon volo negli anfratti delle ingiustizie. Buon volo nel tuo ardire giovane. Buon volo. Suo padre, il gabbiano Giustizia, gli suggerì pochi consigli: “Non mollare mai. Conosci e supera subito le difficoltà di ogni volo. Non essere superficiale. Fortificati con le ali della cultura. Ricordati che si vola su due ali: cultura ed economia; salvezza e amore; giustizia e misericordia. Spezzandone una si perde e si muore dentro. Abbi sempre nell’altro gabbiano, nell’altro che ti ostacola, un’ala di riserva. Non beccare insetti o lombrichi per salire in alto. Non tuffarti sui vermi dell’immondizia dei pensieri del potere. Il gabbiano Pace volò e vive tuttora nel nido di ogni nostro cuore. Ci insegna che le ali della cultura planano con quelle dell’economia. Ci insegna che le ali del possibile planano con quelle dell’impossibile. Vive da sempre nel cielo della giustizia. Vive da sempre nelle utopie di ogni giovane, nelle utopie dei nostri occhi. Vive da sempre negli sguardi di ogni speranza. Vive da sempre nei milioni di anni carichi di silenzi. Vive nella coscienza di ognuno di noi. E’ il padre di ogni nostra speranza. E’ il padre di ogni giorno. Apre in ogni mattina la politica della coscienza. Per questo ogni vivente, se vuol far giustizia, deve volare sul monte della propria coscienza. Là è il sapere giusto. Là è il sapere vero. Là è amare il nemico. Là è perdonare chi ti ha ucciso. Là è la fonte del vero amore. Là è la sorgente di ogni bene. Là è la chiesa della coscienza.
Paolo Turturro
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I giardini di Dio
Mi incammino alla ricerca dei giardini di Dio, non per essere il custode, ma solo come giardiniere, il coltivatore dell’amore. L’eden è all’inizio o alla fine dell’uomo? Come trasformare un campo di concentramento di morte in un giardino della vita? Come trasformare un campo di guerre in un giardino fertile? Quali foglie potranno essere medicina dell’immortalità? E quali frutti, cibo spirituale? Perché nella genesi ci viene negato l’albero della vita, mentre nell’apocalisse di Giovanni viene offerto ai beati? Forse l’uomo è la vita? E’ il principio della vita? La vita ci viene offerta. E’ un’occasione unica, irripetibile per l’eternità. Non c’è simbolo che possa raffigurarlo. Non c’è lepre che possa in esso rapidamente fuggire. Non c’è trono che possa essere innalzato. Non c’è porta da cui qualcuno possa entrare. Non c’è fuoco che ci possa infiammare. Non c’è fiume da cui possa scorrere acqua di cristallo. Non c’è mare dove possiamo placarci. Non ci sono quattro esseri viventi da cui viene irrompente il divino. Non c’è nessun vegliardo che possa vegliare l’Agnello. Tutto è inafferrabile. Tutto è ineffabile. Tutto nella tavola delle gioie del paradiso è descrivibile e indescrivibile. Ci fa venire l’acquolina celestiale il gesuita Jeremias Drexel. Non ci sono sigilli che possono con il fuoco essere sciolti. Né il primo, né il secondo, né il quinto, l’Agnello può aprire. E pur tuttavia l’oltre è dentro il cuore che si apre di anime, di angeli, di santi, di doni, di virtù, di martiri immolati a causa della Parola di Dio. L’Oltre è Cristo che apre le sue beatitudini. L’Oltre è il pane di Cristo che ci possa consacrare al Padre. Il sangue è Cristo che ci possa purificare nelle acque del giardino del Padre. No, non credo che il paradiso sono io. No, non credo che l’inferno sono gli altri. Io credo che dentro ognuno di noi c’è Altro, c’è Oltre ancora da scoprire. No, non credo che esso sia un tòpos, cioè un luogo. No, non credo che esso sia un ùtopos, cioè un non-luogo. E quindi oggi nella forza delle beatitudini una utopia. Dio non è una utopia. Il cielo è qui, come la terra è nel cielo. Possono distruggere l’eden del Tigre e dell’Eufrate, mai l’Eden dello Spirito. Io non credo che Nerone o un qualsiasi dittatore possa incendiare i giardini di ogni cuore. Io non credo che il diavolo possa svanire il cielo. Si, i giardini di Dio sono in noi. E’ il giardino delle virtù di ogni uomo. E’ oltre le nostre grazie. Non solo capace di asciugare le lacrime, il pianto, il dolore. Non solo capace di eliminare il peccato del mondo e la morte. E’ Oltre. Indescrivibile. Persino ora impercettibile. Tra noi e il cielo non c’è una bara. Tra noi e il cielo non c’è una carrozza funebre a viaggiare. Tra noi e il cielo non c’è un passaggio da pagare. Tra noi e il cielo c’è solo l’ascesi di Colui che è disceso dal cielo. Tra noi e il cielo ci sei tu che ci unisci al Padre. Tra noi e il cielo non c’è un fiume che ci separi o da traversare. Tra noi e il cielo non c’è una negazione che ci impedisce di andare. C’è Oltre. Come capirlo? Come entrare? Non c’è dato comprenderlo se non con i simboli. Tra noi e il cielo tuttavia non ci sono solo simboli. Eppure Gesù Cristo ce l’ha svelato il giardino del Padre. Ecco lo svelo anch’io a voi, seppelliti di terra, seppelliti di materia. Non seminati per germogliare. E’ il giardino delle delizie delle beatitudini. E’ l’Eden delle parabole. E’ l’Eden della misericordia. E’ l’Eden: c’era un uomo che scendeva…E’ l’Eden dell’adultera che coglie sulla sabbia della rabbia solo il perdono e l’amore: la tua fede ti ha salvata. E’ l’Eden del cieco nato che apre gli occhi all’incanto che Dio è qui che ti parla, è qui che ti ama. E’ l’Eden del Cenacolo: questo è il mio corpo, per voi dato. Questo è il mio sangue, per voi versato. E’ l’Eden della croce che puntualmente all’alba dell’ignoto risorge. E’ l’Eden del Cenacolo che pieno di paura e di morte si riempie di ”pace a voi”. E’ l’Eden della samaritana che inonda di sorgente che zampilla dentro l’uomo, non solo dentro un pozzo di terra, pur profondo. E’ l’Eden di amare Dio in Spirito e Verità. E’ l’Eden dell’amare: Ama Dio e il prossimo tuo, come te stesso. E’ l’Eden di amare persino il nemico, perché nessun uomo è fuori di Dio. E’ l’Eden dello Spirito di Verità. Ecco il quinto sigillo: tra noi e Dio non c’è altro che amore. Il quinto sigillo è l’amore. E sulla tavola dell’Eden si consacrano i pensieri di Dio. Benvenuti nel giardino di Dio. Benvenuti, anche se tutto è indescrivibile. Benvenuti anche se tutto inconoscibile. Eccoti, siediti a mensa con lo Spirito della verità. Benvenuto, anche se qui canti l’ineffabile. Benvenuto alle nozze dell’amore. Benvenuto al giardino dell’amore di Dio. Paolo Turturro
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CON LO SGUARDO DI CRISTO
Il dolore mi ha reso uno sguardo che penetra dentro l’infinito amore di misericordia di Dio. Il dolore mi ha aperto la coscienza di quello che ero quando a Roma studiavo teologia; quando divoravo i profeti: quando masticavo i poeti; quando mi illuminavo del cielo dei santi; quando leggevo Mazzolari; quando aprivo le lettere di don Milani; quando mi infiammavo delle analisi di don Giulio Girardi; quando Van Gogh mi striava di colori i miei sogni; quando nelle notti mi preparavo agli esami; quando mi entusiasmava don Bressan e don Raffa; quando le porte della coscienza le ho spalancate per non chiuderle mai più; quando sentivo i brividi delle lettere scritte da Bonoeffer dal carcere; quando il nord non era sopra il sud per dominio ma solo geograficamente; quando il sud non era sotto il nord ma solo geograficamente; quando Gramsci osava entrare nelle mie chiese; quando Ernesto Balducci e don Armando Corrado mi segnavano la strada della coscienza; quando don Caione e don Crucitti mi spalancavano le porte della pastorale parrocchiale. Sto penetrando con lo sguardo dello spirito non solo il passato. Avverto ora una grande responsabilità: nel dopo guerra gli italiani hanno ricostruito paesi, strade, ponti e città. C’era la passione di una nazione onesta, leale, piena di speranza, piena di osare di ricostruire il proprio paese. Ora invece sento che gli italiani sono inerti e sterili, in questa nostra Italia distrutta di valori, a ricostruirla. Certo è più arduo ricostruire una morale che un palazzo, una strada, un ponte. Nessuno più osa dare coscienza alla Costituzione. Nessuno più osa donare lealtà ai municipi. Nessuno più osa pulire i palazzi di giustizia. Nessuno più osa parlare del marciume che impera nelle nostre strade. Nessuno più. E tutti noi siamo chiusi in una cerchia di ozio. Tutti noi siamo chiusi di parlare, perché basta una menzogna pagata e ripetuta più volte che diventa verità e un calvario per ogni italiano. Nessuno più osa spendere la verità in certi palazzi. Nessuno più osa scrivere come te, don Milani. Nessuno più osa ardire la carità senza l’8 per mille. Nessuno più osa vergognarsi di vivere in un sistema che ci fa muti, ci fa scheletri di spirito, ci fa insensibili l’uno all’altro, insensibili alle guerre, insensibili alle carneficine delle dittature, insensibili alle televisioni che proiettano massacri,crimini e processi già pagati e scontati. Siamo divenuti vetrine di manichini, dove l’apparenza della bellezza, dello shopping non potrà mai essere vita, una dolce vita. Siamo una corsa di fare ogni mattina ma senza amore. Siamo parole alate che non si elevano mai dalla terra dei nostri cervelli e che non volano più di un centimetro sopra il nostro capo. Siamo canto spento di rutti e di boati. Vestiamo abiti costosi e nessuno si accorge che siamo nudi di anima. Nessuno più sa distinguere un soggetto grammaticale dal complemento oggetto. Siamo tornati nell’ignoranza di ritorno. Eppure basta uno sguardo per uscire dall’inferno dell’ignoranza. Basta uno sguardo per uscire dalla bolgia delle cattiverie. Basta uno sguardo sincero per elevarsi sopra le montagne delle immondizie dei certificati falsi e delle carte pagate. Donami Signore uno sguardo che mi inviti a sovrumane trasparenze. Donami sguardi che penetrano verità che non feriscono e che non umiliano. Donami sguardi che aprono speranze a chi è afflitto di disperazione, a chi grida nel silenzio che nulla è possibile cambiare. Donami il potere del tuo sguardo che sulla croce ha aperto l’eternità per ognuno di noi. Donami il potere del tuo sguardo che abbraccia orizzonti di perdono e di amore. Il tuo sguardo è l’aurora che i passeri, i minuti passeri, stamani mi hanno svegliato. Il tuo sguardo è la parola che leggo nel vangelo. Il tuo sguardo è la persona che al mattino saluto. Il tuo sguardo è oggi il giovane che mutilato di coscienza e avvezzo alle notti delle birre, mi chiede di uscire dall’orgia della distruzione. Il tuo sguardo è un concerto di beneficenza che la natura ogni giorno mi regala. Il tuo sguardo è nei sacramenti della vita. Il tuo sguardo è nel calice della tua salvezza. Il tuo sguardo è nell’eucaristia che spezziamo. Il tuo sguardo è sotto il ponte dei barboni che attendono l’aurora per uscire dal freddo delle paure. Il tuo sguardo è oltre le nostre chiese solo aperte per un breve sacramento. Il tuo sguardo è oltre le nostre associazioni di solidarietà. E’ aperto oltre il cielo delle nostre speranze. E’ aperto oltre l’orizzonte delle nostre visioni. Ecco è lo sguardo di una madre che piange. Ecco è lo sguardo di un giovane pulito e che soffre d’essere in una società marcia di potere. Ecco è lo sguardo di tante piccole donne della carità che vestono sai di povertà. Ecco è lo sguardo del silenzio di tanti sacerdoti che nella contemplazione intima con te vedono già il cambiamento del mondo, vedono già i tuoi passi solidali con giovani che marciano la pace. Ogni sguardo è la firma della tua anima.
Paolo Turturro
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Maria, Vergine del perdono
Maria, sorella e amica del perdono, io t’imploro di starmi vicino nel momento di perdonare. Maria, vergine del perdono, sto comprendendo che quando incombe il dolore, quando irrompe la prova, quando impera la menzogna, è arduo perdonare. Vergine del perdono, ti vedo signorina per le strade di Nazareth e perdoni gli sguardi sornioni della gente, che uccidono la tua bellezza, che squartano l’attesa prematura del nostro redentore. Insegnami, Vergine del perdono, a prevenire il dolore degli altri, quando a Cana nelle nozze dei due giovani sposi hai fatto anticipare il cammino di salvezza con segni e opere della meraviglia del tuo figlio. Maria, vergine del perdono, ti invoco di starmi vicino quando sovrastano le tempeste dello spirito, le nauseanti ansie della società, che annientano con parole false il mio cuore. Maria, vergine del perdono, facci comprendere che perdonare non è una vigliaccheria ma frutto dell’intelligenza del nostro spirito, della nostra fede che è capace di convertire il male in bene. Maria, vergine della croce, non lasciarmi solo nel mio calvario. Fammi camminare spedito sulla cima del dolore, sulla montagna della sofferenza, sulle alture dello spirito. Maria, non lasciarmi salmodiare solo l’attesa della risurrezione. Mettiti vicini a me in ogni istante del perdono. Si, comprendo che perdonare nel sacramento della riconciliazione è un grande dono di letizia dello spirito in ogni sacerdote che assolve. Io per di più, da te ho appreso, che la misericordia che scende sui nostri fratelli nella confessione, passi prima dentro di me e poi effonda di grazia il peccatore. Maria, vergine del perdono, come è salato l’animo quando si perdona. Nel sacramento assolvere è una letizia, nella vita delle menzogne perdonare è il mistero del martirio che mi redime di gioia. Maria, vergine del dolore, la sorgente del pianto del perdono è in me ormai disseccata. Maria, vergine del perdono, stammi vicino alla mia croce, come quando infliggevano i chiodi nella carne del tuo figlio. Vergine del perdono nell’oscurità delle menzogne donami sguardi che penetrano l’attesa della verità della luce. Vergine del perdono, anche tu hai atteso la luce della risurrezione. Anche tu hai visto squarciare il sepolcro di luce lunga secoli di perdono. Anche tu hai perdonato non solo i carnefici ma i sommi sacerdoti che tu amavi, Pilato, Erode e la poca gente che nel Litostroto, gridava:” Crocifiggilo”. Maria, vergine del perdono, ti confesso che non so perdonare. Eppure scorre dentro di me la linfa del perdono per chi mi squarcia di bugie. Vergine del perdono, stammi vicino, in questo cielo nero di dubbi della gente, in questa stagione fredda dello spirito, in queste ali spezzate dagli sguardi sornioni di compiacimento. Non mi lasciare solo nella notte del calvario. Sto salendo a carponi, sto salendo sfinito. Sto salendo senza certezze. Sto salendo sapendo di attendere la luce della verità. Forse la sorgente del nostro pianto sveglierà l’aurora del mio perdono. Sento già le tue lacrime sul mio capo, sento la tua mano sfiorare i miei bianchi capelli, sento che sei accanto a me, come quando hai visto spogliare nudo di dignità il tuo figlio. Ecco, sto salendo anch’io nudo e ora più spedito. Ecco, sento che la grazia è fatta proprio sul martirio della condanna. Santa Maria, vergine del perdono, non lasciarmi solo sulla cima del calvario. Stammi accanto in questo martirio delle tenebre. Stammi accanto, perché il mio cuore non si è disseccato di fede. Stammi accanto. Sveglieremo assieme l’aurora della verità.
Paolo Turturro
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Cosa potrebbe pensare e dire Cristo Gesù alla sua chiesa oggi.
La mia discendenza è il pensiero del bene e le opere di amore. La mia discendenza è l’alito del cielo. I secoli fuggono come raffiche di vento. Spazza via tutto l’uragano dello spirito. Abito ignudo nell’anima. Sono coperto solo da spine nutrite dal calice di salvezza. I miei giorni salgono sulla cima della mia origine. E nulla conosco se non l’invisibile che fluisce in me. Cammino con le ferite aperte non solo nel costato. Le ferite inflitte persino dal tuo stesso dubbio. Le ferite squarciate dalla pastorale dei sacramenti che oggi non produce più fede. Nessuno si è accorto d‘aver incontrato secoli di profeti. Nessuno si è accorto d’aver curato la bellezza del cielo come quella della carne. Nessuno si è accorto che l’universo rotava nelle mie pupille. Eppure tutti cercavano di toccarmi. Solo una mi ha toccato l’anima. Tutti cercavano di fermarmi. Solo una mi ha donato il suo passo. Tutti cercavano di parlarmi. Solo una è la mia voce. Nessuno si è accorto che ero solo l’ombra di tanti desideri. Nessuno si è accorto che ho vinto la morte, quella fisica, per tutta l’umanità. L’uomo vivrà senza la morte. Nessuno si è accorto che ho distrutto per sempre i crimini nel cancro sclerotico dei dittatori. Nessuno si è accorto che ho spaccato il mare dell’odio in barre altissime di salvezza. Apertamente la pena di morte. Nessuno si è accorto che ho rinunciato all’estrema ratio, donando la mia vita, per condannare la pena di morte. Sono l’unico che ho disubbidito alla vita accettando la morte. Sulla croce mi sono accorto che il grido dell’uomo è lo stesso di quello di Dio. Nessuno ha mai preso in considerazione che il peccato è solo un disperazione. Sono la chiesa del silenzio che grida ogni ingiustizia. Sono la chiesa del grembiule che serve ogni uomo. Sono felice di incontrarti nella cellula del silenzio. Sono la chiesa della povertà per rendere nobile di cuore ogni misero della terra. Sono la chiesa dell’eucaristia per spezzare e condividere a tutti il pane del cielo. Sono la chiesa del silenzio, là dentro vi abito da secoli eterni. Nessuno è estraneo ai miei occhi. Il mio sguardo è da poeta dei cieli. C’è sempre qualcuno che si alzerà lassù ad ascoltarmi. Non ho costituito una chiesa – stato. Non me la sarei mai immaginato. Mi sono liberato dai templi delle paure. Sono la chiesa dell’amore. Sono la chiesa della creatività. Sono la chiesa dove ogni uomo è la via di Dio. Vivo dentro la chiesa dello spirito. Professo la forza del diritto in una società dove impera il diritto della forza, il diritto del denaro. Io sono convinto che possiamo distruggere il potere con la forza della bontà. Non esiste il potere dello spirito per comandare e dominare gli altri. Lo spirito della bontà, lo spirito del servizio, lo spirito dei valori è solo un dono per gli altri e non un’opportunità per dominare l’altro. Ho fatto la scelta di Dio e la porto fino alle ultime conseguenze. La bontà della mia carne è la porta dell’eternità. Io sono la porta della verità. Io sono la porta che è solo libertà. Le vostre porte sono chiusure mentali, fisiche, spirituali e psicologiche, anche se dentro le vostre porte c’è tanta stracarica ricchezza da sfamare i poveri. Le porte chiuse disturbano non solo la mente. E’ totalmente diverso il mio modo di pensare: per me la porta è solo l’inizio della libertà, per voi è soprattutto chiusura della mente, chiusura dell’anima. Nulla è più grave della mormorazione. Io non mormoro su mio padre che mi ha mandato a voi solo per amore. Molti di voi, e io non vi giudico, non sono capaci di dire ciò che si pensa e alle spalle mormorano su vescovi e cardinali. Io non mormoro nei secoli di essere stato usato proprio dai miei consacrati. E’ facile parlare alle spalle. Il mio discepolo è colui che dice ciò che pensa proprio perché è pregno della mia dignità regale. Il mio discepolo non può non costruire unioni, proprio perché è incarnato della mia dignità sacerdotale. Pontifex è il costruttore di ponti. Il mio discepolo non può non essere testimone dei valori proprio perché è irrinunciabile in lui la mia dignità profetica. Ho effuso il mio spirito su di voi per essere non solo sulla terra l’assemblea di Dio. La chiesa è il popolo di Dio e non una monarchia, né tanto meno una gerarchia. La gerarchia dei valori non può essere strumentato per il potere sulla terra, né tanto meno per il potere sulle coscienze. I profeti hanno il passo troppo lungo per essere ammazzati nello spirito. I profeti hanno uno sguardo oltre per non discernere i segni della verità. La verità dei segni è nutrita di povertà. No, non esistono i segni della potenza. Non rischiate di essere vestiti dei miei segni e vuoti dentro persino di amore. Nello spirito arde la potenza dei segni: la potenza dell’accoglienza, la potenza del perdono, la potenza della bontà, la potenza della chiarezza. Così tutti i profeti hanno sofferto e soffriamo anche noi. Questo è il destino dei profeti. Non dimenticare, caro figlio, che la missione della chiesa, la missione che mio Padre mi ha affidato e che io con gioia affido a voi, è quella di aiutare i poveri a prendere il loro destino in mano, quello cioè di essere figli di Dio. Nessuno è escluso dalla paternità di mio padre. Dio è l’amore che scorre nelle vene di ogni uomo. Scoprite questo grande fiume che inonda l’umanità di Spirito Santo.
Paolo Turturro |
Pagine dello spirito
Io ti cerco senza certezze. Il volere non è ala che può raggiungerti. Sono niente e ti sento. Oso persino cantare la tua presenza, quanto solo pensarti è morire. Io, come foglie, cado nel nulla, dove, con mia meraviglia, tu mi abbracci. Mi sono assicurato su ragionamenti di cenere, mentre tu risplendi la mia debolezza di bellezza. Quale conforto posso impugnare nel deserto del tempo? Tutti e due ci lottiamo e ora all’alba dell’eterno usciamo dalla notte. Nel fittissimo buio annaspo come un ragno in una ragnatela di luce. Basta a lottarci, tu che muori di sangue per me. Mi arrendo al tuo silenzio nelle frenetiche e chiassose mie parole. Tu intendi la mia perdita, il mio urlo di sconfitta e il mio lamento. Sono onda che s’inabissa dentro, un tsunami nella notte delle incertezze. Tu sei persino tenebra luminosa per riprendermi negli scogli inabissali dell’orgoglio. Pigolo la luce solo quando mi sfacelo di niente. Tu mi inventi il giorno per sopportare il peso del mio rigetto. Conosco quando male mi faccio. Conosco la tua tristezza di non poter riversarmi dentro tutta la tua esistenza. Tu per me inventi il creato e io puntualmente nelle tue meraviglie a rifiutarti. Siamo due sconosciuti. Tu tuttavia mi hai pensato e amato nella fondazione del mondo. Mi hai fondato nella tua immagine e somiglianza. Nella mia ignoranza hai scelto di non farmi del male, di non buttarmi fuori di te. Sulla tua croce la tua divinità è divenuta per noi sangue di martire. Il mio peccato non ti ferisce, lo accetti, perché non mi ferisca e non mi sparisca. Soffri tu che non sopporti che soltanto un filo d’erba bruci nel nulla. E tu previeni prima che colpa o rimorso ci distrugga. Tu e io, il dramma della molecola dell’esistenza. Tu e io, oltre il duello, siamo. Tu mi lotti perché io non sparisca e io accetto la sconfitta. Perché mi insegui ora nella mente, ora nel cuore, ora nello spirito, quando la mia carne è solo passione? Basta, la mia tranquillità è il nulla. Sono felice solo quando la tempesta del pensare si quieta. E tu non mi togli la mente per non annientare il tuo spirito in me. Il pensare è l’origine del creare. Mi spaventa il diluvio degli universi. Ho strappato il cuore dal veleno degli oleandri. Tra le petraie dei mie pensieri, Dio rischia di sparire. Ho scalato la luce con la bocca e ho incenerito l’anima delle tenebre. Tu abiti dentro me, come un vento leggero per non gettarmi nell’oblio delle mie paure. Non ho paura del tuo amore. Non ho paura del mio corpo. Non ho paura della tua misericordia. Il dramma è dentro di te, peccare. Non fuggo l’esistenza, so che è un peso insopportabile. Non so quando passeggerò il tuo paradiso, non so quando mi inviterai a cena a casa tua? Non so quando finirò di dubitare e i sensi a generare tempo. Non so il cuore con quali ritmi batterà, né la mente con quali intuiti procederà. Potrò contemplare il tuo volto senza sparire, io che ho sognato per tutta la mia esistenza di vedere il tuo volto? Anch’io arrossirò per non averti amato. L’ultima vendetta sarà la tua misericordia. Tu, senza volto, tu senza nome, prendi già il mio volto, prendi già il mio nome per portarmi dove non posso essere. Mi arrendo. La mia carne diventa il tuo amore. Non c’è salmo, non c’è altare, non c’è calice, non c’è pisside che contenga la tua passione per me. Solo gli occhi abitano la tua luce. Tu ti doni e io mi arrendo al tuo esistere in me. Tu mi hai scalato l’anima per infilarmi l’anello della tua vita. Io ti fuggo per colpa e tu mi insegui per grazia. Il nostro è un inseguirci di rimorsi e di grazie. Io urlo a franare e tu continuamente sei mio argine. Il canto più dolce che innalzo a te è la mia rabbia. Tu l’ascolti e me la trasmetti in sinfonia di perdono. Con te non posso lottare, mi batti sempre sulla tua croce. Trono di divinità per tutti noi. Ti ho sfidato tagliando la morte e tu mi hai reso nuova generazione. Basta, non posso sfidarti, tu che sempre mi salvi. Tu sei ciò che nella salvezza non si può dire. Tu ti diverti a essere ignoto. Resta nel nostro impetuoso gioco solo il tuo amore. In nessun modo potrò raggiungerti se non nel tuo discendere di essere nostra carne. Tu non disprezzi i sensi, tu fatto nostra carne. Tu non sei nostra indifferenza. Sei un Dio inquieto perché pazzamente ami. Vieni tu che dai carne al Verbo. Vieni, alfa e omega di ciò che non so pensare. Vieni, alfa e omega di ciò che non posso essere. Ti scopro nel riempirmi gli occhi di grazia e di pianto. Ora che sono distratto ti incontro senza sapere. Sono, dove franano i pensieri. Sono, dove nasce la mia assoluta disfatta. Sono, dove sono naufrago della mia nullità. Sono il tuo volto nella caduta del mio essere tempo. Quante maschere ha indossato la mia faccia? Il tuo volto non è a misura d’uomo. Non so dove andare nella cenere del nulla. Strazio la notte e urlo:” Dov’è il tuo volto? Mostrami il tuo volto!”. E tu puntualmente altrove per portarmi oltre. Che ti ho fatto a tanto negarmi? E mi rispondi:”Guarda il tuo volto!”. Io mi guardo e sono volto senza sangue, e sono volto senza pianto, e sono volto senza volto. Non mi riconosco ora che sono in te. Sono nuovo senza sapere. Sono il tuo volto, senza che io sappia la mia e la tua felicità. Paolo Turturro
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L’umile relazione di Cristo Nell’incarnazione Cristo manifesta l’umile relazione col Padre che, con atto libero e umile, lo manda tra gli uomini per divenire Padre nostro. Nascendo come Figlio dell’uomo diventa il primogenito tra molti fratelli (Rom 8,29). Il dono del Figlio coinvolge in primo luogo il donatore, Dio Padre, a cui appartiene l’iniziativa della missione di Cristo. In tutta la sua vita Gesù non fa altro che umilmente narrare la libera decisione di Dio di diventare padre di un’umanità peccatrice, di volersi legare a noi in un legame di paternità ( F.X. Durrwell). L’umile natale di Betlemme non manifesta forse la compartecipazione alla nostra fragilità, indelebile segno di una vita ricevuta in dono? Non è forse segno di umiltà quell’abbassarsi a richiedere il sì ad una sconosciuta fanciulla di Nazaret per non eludere o sopraffare la libertà umana? Sintomatica è l’osservazione: e Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini (Lc 2, 52). Colui che è sceglie di divenire, di crescere come un qualunque figlio d’Adamo, e solo per amore. Così Cristo si fa seriamente uguale all’amato peccatore. L’Emanuele, il Dio-con-noi mostra la profondità dell’umiltà di Dio che si fa seriamente e veramente (eccetto nel peccato) uguale all’uomo che ama e con lui si compromette, partecipa della sua storia, condivide la fragilità solo per amore. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d'amore della sua volontà (Ef 1,4-5). Gesù partecipa dell’eternità di Dio eppure rivela la sua identità nell’umile servire quotidiano. Tutto il messaggio di Gesù è focalizzato sull’annuncio del Regno di Dio. Non parla Gesù di se stesso se non quando è necessario per narrare il Padre. A Lui attribuisce ogni azione prodigiosa. Tutta la sua missione la racchiude nell’affermazione Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l'opera che mi hai dato da fare. Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me, ed essi hanno osservato la tua parola (Gv 17 4.6). Non solo parla di un Padre che si inchina su ciascuno, iniziando dai più piccoli, che si commuove per loro e li va a cercare, ma agisce in tal modo da manifestare in concreto l’umile amore di Dio. Manifesta un Padre interessato più alla vittima che alla condanna del colpevole. Rifiuta l’autosufficienza e si fa bambino bisognoso per puro amore folle (N. Cabasilas) verso l’orgoglioso peccatore. Sceglie di con-vincere e non di vincere, sceglie di pro-porsi e non di imporsi (J. Moingt), diversamente l’uomo non sarebbe un partner dalla relazione viva. Cristo non ha fretta: prende tempo per amore dell’uomo perché ha tempo per l’uomo peccatore. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi (Gv 15,15). Sceglie la croce per rifuggire alla tentazione del potere. Sul Golgota si rivela tanto amico degli uomini da offrire loro la vita, nel Cenacolo inventa l’eucaristia per essere pane fragrante d’ogni pellegrino. L’umiltà di Cristo rivela la grandezza della libertà umana! Si tratta di debolezza liberamente scelta per amore dell’uomo che consente a Cristo di essere con e per ogni uomo. Nell’ora della Passione, di fronte ad accusatori mendaci, Gesù taceva (cfr.: Mc 14,61), e anche i servi potevano percuoterlo (cfr.: Mc 14,66). Umiltà e regalità rivelano le due facce dell’incarnazione. In Baviera, ai piedi d’un crocifisso, si può leggere la seguente quartina: Grande è Dio nella natura, / dappertutto c’è la sua impronta. / Vuoi vederlo ancora più grande? / Fermati davanti alla croce. Umile servizio sacerdotale, profetico e regale vissuto in tutto il suo splendore nel cenacolo. Pace a voi. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco (Gv 20 19-20) per confermarli nella fede. Benedetto Fiorentino
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NICODEMO DELLO SPIRITO Si arriva sempre dove si vuole arrivare. Si arriva in treno, con il pensiero. Si arriva a Bologna, a New York e a Napoli. Si arriva sempre alla vita. A volte suonano il campanello al nostro arrivo. Ma non mettiamo mai in conto i nostri giorni, i nostri anni, i nostri acciacchi. Si arriva a volte pesti, a volte stanchi, a volte sfiduciati. Ma si arriva sempre dove si vuole. Non si fa una vita con i soldi. Non si fa una vita con il pianoforte. Né gridando con la chitarra, né vestendo da barbone per terra. Ci sono tanti bovari in questa terra che sanno meglio dominarsi, più di un prete, più di un medico, più di un professore. E io non sono un bovaro. Per questo devo ancora comandarmi. Questa debolezza è di tutti. E’ difficile comandare se stessi. Mi accorgo oggi, che se non capisco niente o non capisco bene. Basta alzare gli occhi e te ne accorgi che non comandi tu, né tua moglie, né un prete, né l’asino nella tua stalla. Anche se Mario mi ripeteva che in una notte avevamo rubato al mafioso del paese, un mulo e cento pecore. Nessuno ha mai creduto a questa balla e tutti dicevano che erano troppo poche e poi un mulo. Chi poteva sfidare un mafioso per cento pecore e un mulo? Mario quando andava in casa di Elisa, la parrucchiera del paese, si sedeva sempre alla sua sedia. Scegliere una sedia per amore. La sentiva calda, la sentiva viva come Elisa. E tutti dicevano: “Prima o dopo si sposano ”. Ma Elisa comandava la parrucchiera e sentiva tante donne, tante ciance, tanti uomini all’apparenza onesti e forti, ma poi fuori sempre traditori. Non conviene sposare o mettere in casa un uomo. Così, anni dopo anni, faceva ancora la parrucchiera e Mario, anni dopo anni, sedeva sempre sulla sua sedia. Alla mattina Elisa scendeva sulla strada, salutava la piazza, le macchine e le bestie che passavano e poi si infilava dritto nel suo salone. Tagliava corto le dicerie che volevano che Mario si sposasse con lei. E ogni giorno trovava sul tavolo di lavoro un mazzo di rose. Tutti dicevano: “E’ un atto di rispetto che Mario da anni faceva e non dimenticava ”. Il prete del paese passava a benedire le case con il chierichetto che portava sempre un paniere di uova in mano. Quella volta si fermò da Elisa che si ricompose già troppo seria. Sulla porta a vetri si radunò tanta gente e il prete per niente preoccupato cominciò a salutare tutti e invitarli alla s. Messa. Al chierichetto cadde il paniere delle uova. Una fresca frittata a terra. Tutti risero ed Elisa li cacciò a tutti fuori della porta a vetri. Nessuno poteva criticare Elisa, per questo tutti accettarono e si dileguarono dal salone. Fuori, sotto le stalle, i ragazzi salivano e scendevano dai covoni e le vecchie gridavano con i bastoni: “Via, via maledetti. Così il pane non viene per niente benedetto.” In quei giorni pulivano tutto. Le cantine, i bar, i balconi per vestirli a fiori, i pavimenti della chiesa. Anche Elisa, come il sindaco del paese, andava in chiesa e aveva la placca d’ottone sul banco. Il prete mortificò il chierichetto con uno scappellotto e poi iniziò: “Qui c’è troppa gente, più che in chiesa. Fatevi belli i capelli, ma non date l’anima al diavolo. Su, alzatevi. Benediciamo prima le persone e poi gli arnesi e le pareti. Un giorno Cristo annunciò che proprio nell’anima si adora Dio. Non vorrei pensare alle vostre case sporche, con le imposte chiuse, con le ragnatele ai vetri delle finestre, per accogliere Dio nelle sozzure. Su via, vi raccomando, pulite le case e le vostre anime. Anche gli apostoli accoglievano con gioia Cristo e invitavano tutti a far festa. Oh! Quel Nicodemo, non ci voleva credere, come i nobili. Ci andò per sfizio a vederlo. Sul Giordano, tra le canne al vento, lui che insegnava sotto il fico. Socrate sotto i portici. Gli ebrei non avevano scuole. Insegnavano, per l’ombra, sotto i fichi. Anche se per loro il fico era simbolo di infedeltà. Ma lui insegnava ugualmente sotto il fico, pur fedele a Dio. Per questo Cristo, prima che lo vedesse gli disse: “Ti ho visto sotto il fico ”. E Nicodemo non ci stette. “Io il maestro? Io a insegnare sotto il fico? No, sei tu il Maestro che hai visto lontano, mi hai visto sotto il fico ”. “Oh! Solo per questo? – disse il Signore. Ne vedrai di altre cose, di altri più rigogliosi alberi.” “So – rispose Nicodemo – che nessuno può fare segni che tu fai. Risorgere i morti. Dare la vista ai ciechi, se Dio non è con lui.” “Oh! Ti dico: se uno non rinasce dall’alto, non può vedere Dio ”. “Vedere Dio – incalzò Mario al prete – Io sono qui da tempo e non l’ho visto ancora. Non posso andare più in alto.” “Ascolta – disse il prete – E’ Gesù l’alto. E’ Gesù dall’alto. Occorre rinascere in Lui e non di nuovo nel grembo di una madre.” “Sta zitto – rimproverò Elisa. E metti l’acqua alle rose. E’ già tanto che capisci gli steli, ora vuoi anche comprendere le rose?” “Qui nei nostri paesi – riprese il prete – il vento soffia forte, ma non si sa se viene dall’est o dall’ovest. Se è maestrale o se è grecale. Il vento è la voce dello Spirito che è libero di andare. Salta da per tutto, sbatte i potenti a terra, fa volare le terre, i peschi e le pere. Andiamo, - disse al ministrante – come fare capire le cose del cielo, se qui non capiscono neanche i capelli? Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito. Dio ama e chi ama nasce di nuovo dall’alto ”. Elisa fu felice. Certamente all’indomani sarebbe entrata più gente per i capelli. Le rose non sarebbero mancate e l’acqua benedetta avrebbe accontentati tutti nella vendemmia, nella mietitura, nelle more, nella raccolta delle pere e delle mele. Tutti, tornati a casa, si sentivano un po’ più benedetti. Solo Mario non nasceva dall’alto, a causa di quella sedia. Gli era rimasto un solo dispiacere: quella fresca frittata a terra. Pazienza. Domani ne farò una, tutta per me, con il prezzemolo, l‘olio, il sale e con un bel fiasco di vino rosso da tracannare. Che stupore mi dà la brace accesa di Cristo Gesù sul lago di Risorto. Che meraviglia la cena preparata sulla riva dal Risorto. E poi quel pane cotto sulla brace da Dio stesso. Che stupore l’eucaristia! Che meraviglia grida il celebrante nella consacrazione: Misterium fidei. E’ l’atto d’amore della presenza continua e reale del Risorto. Vivo ogni istante nel celebrare tale mistero, tale sacramento d’amore di Dio per me, per tutti noi.
Paolo Turturro
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Un testamento d’Amore
Un vasetto
di unguento. Un vasetto di alabastro. Frantumato e versato sul capo da
una donna amata. Spandeva aroma in tutta la casa di Simone il lebbroso.
Un nardo da far girare la testa dalla intensità del profumo. Dal capo
fino ai piedi, unto di profumo. Una sepoltura d’amore. Un balsamo:
preannuncio di risurrezione. Una donna ai piedi a piangere. A irrorare
l’amore con le lacrime. A spandere profumo in quella nuova stanza
nuziale. Piangere ai suoi piedi. Lacrimare amore e asciugarli con i suoi
capelli. E dentro di me, anch’io aspergo lacrime sul mio quartiere.
Aspergo lacrime sui carcerati, sugli orfani, sulla comunità che tanto mi
manca. Aspergo gli occhi di pianto e mi commuovo ai piedi di un
Crocifisso in alto appeso. Ecco: sia fatta la tua volontà. Il viso
gronda lacrime al crocifisso. Le mani raccolgono sorgenti di perdono. E
aspergo le case e le famiglie, le mie famiglie. E aspergo il coro e i
ministranti. E aspergo con le mie lacrime chi ancora ha nel cuore tanto
rancore. Aspergo e il viso e il volto si illuminano del tuo volto, del
tuo amore. “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con
voi, prima della mia passione ”. E le lacrime sono più copiose. Oh!
Paolo Turturro
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La relazione umile
La società contemporanea cerca nuovi punti fermi a cui ancorare la vita, invoca i valori quali segnaletica per il cammino quotidiano, chiede mete che possano finalizzare le sofferenze. In questo terreno, la semina della Parola richiede modalità nuove. Le nuove generazioni avvertono la vitalità dirompente del Vangelo e chiedono interlocutori capaci di accompagnamento, tali da far vibrare le scordate corde del cuore. Si desidera incontrare qualcuno che, ascoltando, si sintonizzi sulle onde del cuore, ammiri la fatica della ricerca e si metta accanto, a somiglianza del buon Pastore con la pecorella smarrita (Lc 15,4-7), di Cristo con Nicodemo (Gv, 8, 1-11) e la donna adultera (Gv, 3,1-21).
Al cristiano è chiesto di essere
voce del testimone, che introduce all’incontro con
Adotta il metodo critico, tipico del mondo razionale, che gli permette di entrare nelle cose, nella cultura, nella vita, nelle motivazioni più recondite. Conoscenza, riflessione e giudizio sono gli elementi qualificanti l’agire cristiano, necessariamente ancorato a solidi agganci. Alla prima generazione incredula della storia dell’umanità, che tira avanti senza Dio e senza Chiesa, è necessario far gustare la bellezza del vantaggio di credere.
Occorre riprogettare l’annuncio,
valorizzando la sensibilità postmoderna alla bellezza e di questa
categoria Il fallimento del pensiero forte, imperniato sull’autoritarismo, e del pensiero debole, autostrada al nichilismo, passando dal relativismo, fa intravvedere una terza via all’evangelizzatore cristiano: la via della relazione umile. È la relazione di amore libero, tipica di Dio, che cerca tutti i canali possibili per incunearsi nel cuore umano e aprirlo al dialogo sino all’offerta del suo Figlio, l’Unigenito. È umile s. Francesco d’Assisi quando s’inginocchia dinanzi al lebbroso per onorarlo col suo servizio, quale fosse il suo signore. Nel mistero della passione non risplende forse l’umile amore del Padre, l’umile ubbidienza del Figlio, l’umile sapienza dello Spirito? A contatto di quella umiltà, Pietro si pente, il buon ladrone chiede perdono, la folla si batte il petto, il centurione può esclamare: “Quest’uomo era giusto” (Lc 23,47). La relazione umile raggiunge ogni cuore, anche il più indurito dall’intellettualismo e dall’efficientismo. Cristo non umilia la peccatrice, non umilia la samaritana: con la relazione umile le guida alla guarigione dalle passioni e le avvia per le strade della santità. Non umilia Erode tantomeno Pilato! E la sensibilità odierna, così attenta alla riservatezza, chiede all’evangelizzatore un approccio, una relazione umile, discreta. La relazione di Dio è umile perché rispettosa dei sentimenti, della dignità, della fatica di credere, della difficoltà dell’ascesi. Umile perché cosciente della potenza della verità che come l’olio, lentamente si fa strada e, dove giunge, vivifica. La relazione umile non infilza il dito nella piaga del peccatore, non fa sfoggio di sapere, non agita lo scettro, ma aiuta a rialzare gli occhi e intravvedere la meta, risveglia la speranza d’essere curati nell’ambulatorio, ben noto al buon samaritano d’ogni tempo (cfr.: Lc 10, 30-37). Relazione appassionata, non finalizzata alla vittoria del tornaconto individuale, ma a scongelare il cuore per riscaldare l’intelligenza e orientare la libertà. Non condanna di questo mondo, pur sempre abitato dall’amore di Cristo, ma evangelica capacità di relazionarsi con l’altro, nella scia di Gesù che ha affermato: ”Non sono venuto per condannare, ma per salvare il mondo” (Gv 12,47). L’incontro con Nicodemo il dotto (3,1ss) e Zaccheo il furbo, (Lc 19,1-10), con Matteo il pubblicano (Mt 9,9-13), e Paolo il persecutore, (At 9,1-19), è impastato di comprensione e fiducia, di stima per la fatica di credere.
Benedetto Fiorentino
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L'EUCARESTIA CARTA D'IDENTITA' DEL CRISTIANO
Ho un volto che pensa le cose di Dio. Spesso incontro uomini che hanno un cuore di gelo. Lancerei un fuoco ardente per sciogliere i ghiacciai della loro mente. Sto scalando le altezze delle origini di ogni esistenza. Ho scalato la musica dei colori. Ho scalato i pensieri di Cristo. Non mi bastano mangiate di sale per lenire le ferite e i crimini del mondo. Sono qui, stasera, nel tuo cenacolo. Hai tutto preparato. Non manca il pane. Al povero manca sempre il pane. Finisce sempre il pane buono. Non deve mancare per nessuno questo pane, almeno un tozzo di pane. Il pane mi rammenta un altro pane. Quello spezzato nella tua ultima cena. Sono qui. Le erbe amare non mancano mai, anche in questa ultima tua cena. C’è sempre un’erba amara nella vita di ogni uomo. L’erba di una malattia. L’erba dell’esilio. L’erba dell’incomprensione. L’erba dell’abbandono. Eppure le erbe mediche non fanno male. Tuttavia quelle salutari sono le più amare. C’è sempre un salmo dietro un’erba amara. C’è il salmo della speranza. C’è il salmo dell’esilio. C’è il salmo del ritorno. C’è il salmo della lamentazione. C’è il salmo del perdono. C’è il salmo dell’amore. C’è il salmo della danza di Miriam o di Rebecca. Quanti Salmi per cantare. Quanti salmi per sperare. Quanti salmi per pregare la luce che non finisca. Quanti salmi per perdonare il proprio marito, la propria moglie, l’amico, i figli, i nemici. Salmi cantati in fabbrica. Salmi letti sulla strada. Salmi inneggiati nelle vittorie. Salmi meditati nella melodia del silenzio. Si perde tutto nella vita. Sono qui nel tuo cenacolo. So che qui non si perde nulla. Devo giungere ancora al piatto della mia erba amara. Sulla tua tavola ci sono terrecotte, piatti di creta, bicchieri, pagnotte di pane azzimo. Il canto. Il canto delle donne. La donna fa il cenacolo. E tu inizi. Cominci dalla creazione e poi le terrecotte e i calici si alzano al Giordano, al Nilo, alle piramidi, all’Egitto della liberazione, alle spalle flagellate nella schiavitù, ai piedi che pestano paglia e argilla per mattoni delle città deposito. E tu inizi: canti Abele, lamenti Caino. Sali sul Sinai a leggere il cielo. Sali sull’Oreb a infiammarti di Dio. E scendi ad annunciare l’unica retta parola incisa in ogni cuore d’uomo, in ogni fibra della creazione. Sali sulla roccia delle sorgenti a inondarti di Dio. Sull’Oreb ancora a rischiare il fuoco. E poi la fuga sulle barre di mare, sul mar morto, sul mare spaccato, e qui mi ricordi i nostri continui zumami. Profetizzi Isaia. Ma questa cena quando finisce di cantare e si inizi a mangiare? Profetizzi Ezechiele. Profetizzi Elia che non termina mai di ribellarsi. Quanti profeti del tuo cenacolo. Li vuoi rammentare tutti. Sono troppi per dirli in una cena. Sono troppi non finirebbe mai questa cena. E tu inizi il cenacolo del pane. Il pane azzimo della fuga. Ancora oggi in Egitto, Ancora oggi in Libia. Ancora oggi in Tunisia. Il pane pigiato nei sacchi per la sopravivenza. Il pane nascosto nei fagotti sulle spalle. Il pane per fuggire la notte, per fuggire la morte. E alzi il calice. Il calice di ogni sangue. I calice dei martiri di ogni liberazione. Il calice che noi tutti nel dolore beviamo. E beviamo. E beviamo ebri di laudi. Ebri di speranza. Ebri di libertà. Ebri di ogni diritto. E benedici la fuga. E benedici il cammino di ogni popolo in ceca di libertà. E benedici i viandanti. E benedici le mani che soccorrono. E benedici i passi che procedono. E benedici gli occhi che scrutano ogni orizzonte di libertà. E benedici anche le erbe che si raccolgono dietro i cespugli, dietro le dune del deserto che l’uomo aspramente ara all’uomo. E benedici ogni eredità di salmo che invoca la liberazione. E benedici le erbe amare che purificano il sangue infetto di odio e di guerra. E benedici i secoli di attesa. E benedici secoli di martiri, secoli di profeti, secoli di preti scomodi, secoli di pensieri oltre. Ma quando benedici l’agnello. Non c’è su questa tua tavola l’agnello. E’ cosa grave. Manca l’agnello. E Isacco dov’è? E i Maccabei dove sono? E Lot dov’è? Ed Elia dov’è? Non c’è neppure il suo carro di fuoco. Dove sono i profeti uccisi? Dove sono gli innocenti condannati? Non c’è un agnello su questa tua tavola. E’ Abramo che sacrifica? E’ Martin Luther King che si offre? E’ Oscar Romero che ammonisce di non uccidere? E l’Agnello dov’è? Qui sulla tavola della tua ultima cena l’agnello non c’è. Nessun agnello da sacrificare. E noi siamo altamente preoccupati. Senza un sacrificio salvezza non c’è. E poi senza il sangue che scorre per terra della abbia che lotta è? Siamo disarmati dinanzi a tanta mancanza. E’ una cena a metà. E’ una cena che non può finire. I nostri occhi si incrociano a chiedersi senza dir nulla. Perché? Smarriti anche a cena? Vuoti anche in questa tua ultima cena? Capiamo una cena senza pane. Comprendiamo una cena senza canti. Come cantare nel dolore? Ma una cena senza agnello, senza che nessuno si sacrifichi. Ci sembra fuori umano. E tu vuoi così. Nessuno deve essere ucciso se non Dio solo. Ecco la sorpresa. Sei tu l’Agnello. Si, l’Agnello di Dio. L’Agnello che apre la speranza a tutti i popoli, a tutti i derelitti. A tutti gli smarriti di cuore. Sei tuy l’Agnello che toglie il peccato del mondo. Tu, l’Agnello per tutte le razze. Tu, l’Agnello per tutte le religioni. Tu, l’Agnello per tutti i secoli dell’universo. Ecco le tue mani spezzato il pane che è il tuo corpo, nuovo Agnello di liberazione. Unico Agnello che toglie ogni crimine sulla faccia della terra. Unico Agnello senza sangue. E’ un Agnello – pane. E’ un Agnello - Corpo divino. E’ un pane spezzato per tutti. E’ un pane immacolato. E’ il pane azzimo per l’umanità. E’ il pane eucaristia. E dentro c’è ogni uomo. Ci siamo noi. Ci sei tu. Nessuno escluso. Ci sei tu anche divorziato, perché Cristo non si divorzia dalla sua chiesa, dalla sua cena. Dentro l’eucaristia i nostri nomi. Il tuo nome. Il nome della persona che odi. Il nome del tuo nemico. Il nome di ogni extracomunitario. Ecco l’eucaristia è la carta d’identità di ogni uomo. Nome: Figlio. Cognome:Dio. Residenza: Terra, cielo. Domicilio: Via Corpo di Cristo. E’ l’Eucaristia del mondo. Non si sciupa mai. Non si rinnova mai. Non si cancella mai. E’ un sigillo indelebile. In questa carta d’identità non ci sono impronte se non quelle di Gesù Cristo. Non ci sono annotazioni se non le sue beatitudini. Non ci sono condanne se non la sua croce. Non ci sono fotografie se non quella del Risorto. Appena la apri, leggi tutta la vita di ogni uomo, tutto l’amore di Dio per ogni creatura. Appena la apri, senti il profumo della sua grazia. Appena la apri, leggi speditamente la sua mentalità. Leggi nel tuo stesso corpo la linfa della divinità. E’ consacrato dentro di te il corpo di Dio. Il volere di Dio è consacrato dentro ogni coscienza. Vieni, partecipa anche tu a questo miracolo d’amore che non finisce mai, diventerai eucaristia e spezzerai il cielo dentro ogni uomo.
Paolo Turturro
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Io ti
posso parlare di Lui. Riflettendo verso
Ho una belva dentro di me. Ha fauci umane e ruggisce attorno dentro me. La belva del dolore mi fa balzare in avanti, in anticipo prima che qualcuno mi colpisca. Non riesco a superare la nudità del nulla. Sono nudo d’anima. Labbra di preghiere sterile noi siamo. Sono lontano da ogni cadavere di pensiero. Non mangio putiferio. Il deserto della fede è la mia terra santa. La quaresima dello spirito è il mio deserto. Non straccio le vesti usate che adornano il mio corpo. Da Lui ho imparato a lacerare il cuore. Questo mio corpo lo porto addosso all’anima che prima o poi lo trasformerà in ala di eternità. Le stelle piovano luci sui nostri occhi. Vetri appannati di lacrime noi siamo. Ho tentato il cielo. L’ho riempito di dubbi. Una bufera di lampi si è scatenata sulla mia pelle. Cosa avviene in Giappone? Perché un maremoto da sballottare navi come barchette di carta? Da affondare treni nel ventre della terra? Da ammazzare in pochi attimi migliaia di persone? Cosa avviene sulla terra? Noi presi soltanto dalla superficialità di non finire? Viviamo giorni tristi, fatti di decadenza. L’uomo fa meglio quando non fa niente. Nelle città si addensano pensieri ignoti quando l’uomo rigetta la grazia. Perché l’asse della terra si sposta di dieci centimetri? Sono entrato nella pelle del creatore e ora so che egli ci ama e più crea. Il tempo non distrugge l’amore. La mia anima si dimena come il vento di un zumami finché non trovi quiete in qualche alveare dello spirito. Il dolore della luce è la scorciatoia per entrare nel corpo di Dio. Tutta la creazione geme questo viaggio. Non trovo iniquo il peso della materia. Sono iniqui i pugni a tradimento. Iniquo è l’inganno. Iniquo è mentire. Iniquo è spergiurare. Trovo iniquo invece la grande superficialità della gente e la nostra indifferenza nel celebrare i sacramenti senz’anima. I visceri sono un tormento dinanzi alle guerre e si sconvolgono dinanzi all’impeto delle mani di ogni dittatore. E’ entrato il vento della libertà nel mio cuore. Sono con i libici nella fuga dalla morte di ogni popolo. C’è tempesta nelle mie vene. Nella loro fuga mi hanno scatenato i diritti umani. Non si può violare il cuore di una casa. Non si può violare il cuore di un amore familiare. Il dolore non ha nessun peso, solo ci strapiomba nell’abisso della desolazione. Il mio corpo è così esile da rischiare di posare le colonne della grazia. Ogni popolo sale morto sulla croce dei diritti umani. Anche lo Spirito santo resta disarmato dinanzi alla croce di Gesù Cristo per salvare il mondo. Io che ho conosciuto la morte. Io che ho superato il confine di ogni sofferenza. Io che ho sentito il conquasso di molti collassi. Io che ho gridato nella ribellione di ogni innocente ucciso. Io che ho offerto la mia mente a fecondarla da Dio stesso. Io ti posso parlare di Lui. Nessuno conosce ancora la sua voce. Solo quando il ribelle dell’atmosfera scoprirà come captare il suo alito annidato dentro le viscere dell’universo, noi sentiremo di nuovo la sua voce nuova. Nessuno conosce il colore dei suoi occhi mai stati celesti. Nessuno sa il calore del suo petto sempre ardente di passione. Nessuno sa l’energia del suo amore, oltre il magma dentro l’universo, fondamento di ogni movimento. Io che sono stato inchiodato sotto la sua croce. Io che sono stato cacciato da ogni secolo. Io che sono stato chiamato profeta dell’assurdo. Io che sono stato generato dal fuoco. Io che ho generato nella mia carne il sacramento del perdono. Io ti posso parlare di Lui. Io lo conosco. Ora è un verme schiacciato da tutti. Ora è la bellezza baciata nei secoli. Ha riempito le mie dolci e terribili notti. Ha riempito le lacrime di ogni madre, di ogni giovane sposa, di ogni figlio, di ogni padre, di ogni sposo, di ogni frate, di ogni prete, di ogni vescovo, di ogni esiliato. Io lo conosco è l’impossibile dell’amore che abbraccia persino il nemico come amore da essere saziato e da saziare. Io lo conosco. Battezza con gli occhi e accarezza con il cuore. Io lo conosco. Ha reso la mia vita impossibile e dalle sue piaghe ho visto piovere il cielo. Io lo conosco. Mi ha spezzato il pane delle mie ossa. Nel costato mi ha seminato la sua Parola. Io lo conosco. Lo odio e lo amo. Mi ha fatto vivere e morire mille volte. Sono caduto nelle sue parole per risorgere. Io ti posso parlare di Lui solo quando il silenzio diventa amore. Io ti posso parlare d Lui solo quando parlano gli occhi. Io ti posso parlare di Lui solo quando le sue mani ci sollevano dalla caduta. Io ti posso parlare di Lui solo quando gli urlo in faccia la morte che egli stesso ha distrutto per sempre. Io ti posso parlare di Lui. Ho bisogno però che tu accetti l’invito alla sua ultima cena. Ti aspetto. Ti confido, non sarò più io a parlare. Ecco Lui stesso ti parlerà personalmente. L’incontro è nel cuore della notte della Pasqua. E’ l’unico e consueto appuntamento di Dio. Arrivederci a presto. Gerusalemme, tutto intorno in campagna, sarà tutta illuminata con pali di lampade per ognuno di noi nella festa delle Capanne.
Paolo Turturro
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Quaresima: il convento dello spirito
Vivo in un diroccato convento, dove mai sono entrato e né sono mai stato. Non sono mai vissuto tra le mura di papiro. Sono in un ciclone di idee. E’ il convento delle convinzioni. E’ il convento di convertire la rotta verso il cielo. Ho vissuto qua dentro duecento, trecento e mille anni eppure non mi sono mai accorto d’esserci stato. In questo convento diroccato mi è rimasto solo un valore: non finisco mai. Ho vissuto come un sogno. Anzi sono un sogno vivente. Non ricordo nulla dei miei giorni. So soltanto che ho sognato per tutta la vita. Eppure ho scoperto svegliandomi nel dolore che i sogni sono realtà. Io non so che cosa è una rosa. Io non so da dove vengono i tulipani. Né le stelle alpine. Io non so da quale germe spuntano gli iris. Forse neanche Van Gogh lo sa. Spesso la mia mente è come un girasole. Vuole cogliere tutto della luce del cielo. Io non so come mai Salomone non si sia vestito più splendido di un giglio. Io so soltanto che prima che nascessero io li ho tutti sognati. Ho frantumato le pietre. Ho infranto le catene del male e ho rotto le anfore dei segreti. Ho spezzato i cristalli delle apparenze. Ho spaccato l’odio della notte. Ero ebbro quando tutto questo ho commesso. E nei cocci della creta del tempo mi sono trovato iscritto:” Fummo come te, sarai come noi”. Sono prigioniero del tempo, le catene si chiamano giorni. Sono prigioniero del profumo, i pigmenti si chiamano pensieri. Sono prigioniero dell’arte, i colori si chiamano arcobaleno. Appena ho lasciato tutto questo cadere nell’illusione, senza accorgermene, sono sprofondato nell’oceano più buio del cielo. Non ho affermato che la terra è uno specchio del cielo. Né il mare riflette l’azzurro dei tuoi occhi. Io non so lo scopo del mio venire. Io non so lo scopo del mio andare. Appena ho aperto gli occhi. Tra il tempo e l’eterno ho scoperto un profondo segreto. Né tu né io conosciamo questo enigma. Né tu né io sappiamo il giorno in cui tutto sarà predetto. So che un sottile velo da noi due cadrà e nulla rimarrà. Sto raccontando fiabe vinte solo dal sonno. Sto accendendo lampade spento dal vento. Io so di essere ora sonno, ora vento. Ciò che penso adesso, domani tutto è stravolto. Alla fine sono soltanto incertezza, eppure sono. Sento nell’anima i poemi degli angeli. Sento nell’anima la tua gioia, il tuo lungo soffrire, la tua ondata di disperazione. Sento nell’anima i vulcani del cielo. Sento nell’anima lo spirito del creatore, come una fornace d’amore del suo continuo creare. Questo magma dello spirito rischia di coinvolgermi. Non voglio impietrirmi di sapere. Non voglio gelarmi di inerzia dinanzi a tanto calore. Non cado più bocconi a terra a mangiare la sabbia della calunnia. Sono stato trascinato dal rancore del potere per condividere la miseria dei deboli. Mi hanno lasciato vivo per continuare a macerare il dolore e per vedere distrutti tutti i miei sogni già costruiti realtà. Sono il profeta senza padre che mi sorregge, sono il profeta senza madre che mi guida, sono il profeta senza giorni che finiscono, sono il profeta senza olocausto di sangue. Sono stato lasciato libero per contemplare la disfatta del mio pensare. Copernico mi ha insegnato a non tacere. Galileo Galilei mi supplica nel tormento di non parlare. Troppo ha rischiato questo mio sapere. Troppo ha rischiato questo mio gridare. Troppo ha rischiato questo mio vedere. Nessuno sa che il martirio dello spirito è più lacerante di un calvario. Ho scalato tanti monti: L’Oreb, il Tabor, il Sinai, ora sono sulla montagna della mia coscienza. Come è arduo salirci sopra. Poi il monte più assurdo il calvario da dove spicchi la risurrezione. Ho disturbato il sonno perché finisse di pensare. Non riduco tuttavia l’intelligenza al denaro. La bilancia degli affari non può pesare lo spirito. Mi basta uno sguardo per generarmi dentro, il mondo che tu nei calcoli degli interessi economici non puoi contare. L’energia della fecondazione del creato ferve nella tua volontà. Solo il sonno è capace di leggere i migliori libri della nostra vita. L’ignoranza è il peccato del mondo. Io cammino con te sulle acque dell’incredibilità. Io cammino con te su ali d’aquila. Il tuo seno è pieno di obbedienza alla luce che non tutti vedono. Io credo che sia impalpabile il sapere che tu mi doni. Non ho murato nelle mie mani le tue carezze. Non mi tolgo la casula perché non vedano come tremo d’amore di Dio. Non mi tolgo la stola lungo secoli di perdono per non perdere la priorità della tua divina misericordia. Non depongo il calice per non esaurirmi senza il tuo sangue. Sono una coppa diafana di eucaristia. Conosco persone pozzi di scienza e di erudizioni. Gli oceani sono meno profondi del loro sapere. Anch’essi, come me, barcollano nel buio della notte che tutti noi conosciamo. Anch’essi, lampade accese di sapienza, sono presi dal sonno che tutto nega. Nessuno è mai tornato da quella notte dove tutti andiamo. Tutti andiamo e altri verranno e ugualmente come noi andranno. Dal mio fango modellate una brocca colma di vino e io tornerò alla vita. Eppure ho bevuto poco, bevo poco, berrò poco degli infusi degli inganni. Non ha cambiali il mio spirito. Ho monete contanti per riempire la bocca del Caronte del domani. Non sono nulla. Non so da dove sono venuto. Non so dove vado. Non solo i piedi si smarriscono e non perché lacerati dal selciato del tempo. Alla mattina appena una goccia di rugiada sulle labbra. Forse è il nettare di tante lacrime scese dallo spirito nella notte. Solo un raggio che non si perde nella fitta boscaglia dei giorni che si chiudono dietro di me. Ho bevuto la luce. Meglio il vino, appena bigiata l’uva. Il vento è la bandiera del vero e del falso. Non sa indicare. Non è questa la via e né quella. In lei nessuno è nato. In lei nessuno è vissuto. Forse devo bere ancora il nirvana per sapere. Che può dire un bambino a un anziano? “ Che è stato innocente come lui”. L’orgoglio alla fine della notte del vino è uno scrigno aperto di polvere. Sono ebbro solo d’ignoranza. In tanta ignoranza dell’uomo che importa essere sobri o ebbri? Oggi poi si è cretini per fare denaro. Sono il vasaio delle idee che mai divengono cocci. Anche la forma della bellezza si infrange e la coppa dei giorni lieti o tristi si svuota. Tutti cadiamo dalla vetta del tempo anche chi crede di salire sulla cima del denaro per non cadere mai. Appena nati camminiamo a quattro zampe. Poi grandi a due. Anziani discendiamo a quattro nella tomba. Nessuno è capace di togliere il velo alla morte eccetto Colui che distrusse per sempre la morte. Sappiate la morte non ha volto e non è una persona. Tutti andiamo lontano, lontano, lontano, dove nessuno pensa di esserci. Io sono nell’eden di Dio. Ecco sono entrato con gioia nel suo costato e mi sono trovato dentro il suo eterno amore per tutti noi. Non sono caduto, sono entrato cosciente cristiano di esserci. Il giorno è l’incensiere della luce. Tutto nella Ruota delle anime diviene fumo. Se tu non ti profumi di divino in Colui che è disceso dall’eterno, anche tu sei fumo passato. Anche l’idolo delle tue straricchezze diviene argilla per impastare apparenze nella bottega del tempo. Faccio ancora in tempo a bere una coppa di divino puro, non imbottigliato, bigiato sull’altare dall’uva del sacrificio dell’amore di Cristo, prima che la notte chiuda bottega.
Paolo Turturro
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Il risveglio della fede
Sono andato a battezzarmi nel fiume del mio cuore per sanare i miei sogni. Ho gridato anch’io la giustizia per i poveri. Anch’io sono stato decapitato e hanno portato il mio capo su un vassoio per una donna. Nel martirio divenni bambino come tutti i sapienti del mondo. L’orgoglio del possedermi aveva toccato anche gli angeli e la libidine dell’inganno aveva infangato non solo la carne. Capii che bisognava purificare la chiesa e sradicare da ogni sacramento la passione dei nostri cuori. Capii che avevo il compito di rendere ogni attimo un amore eterno nel perdonare sui gradini della giustizia. Capii anche che la superbia del possesso fa male a chi la impasta e nasconde la verità delle menzogne. Non capii come è possibile nascondere e scoprire le calunnie. Piansi sulla scala dell’ignoto e non riuscii a distinguere le lacrime dal sangue. Non compresi i trucchi dei cavilli e restai impigliato nelle gramaglie delle cattiverie, ma non erano affatto mie. Mi obbligarono il silenzio e la parola non detta divenne più viva. Raccontai le notti oscure dove neanche un angelo si permise di apparirmi. Fuggi la morte e non seppi mai in quale cimitero la seppellii. Divenni un embrione di carne perché lo spirito potesse procedere più spedito. Ero un’anima senza cielo. Conoscevo tutti i trattati della scienza e della filosofia. Non mi bastavano le notti per leggerli. Conoscevo tutte le dottrine dello spirito. Mi sottoposi a tutte le discipline e capii che la disciplina della preghiera era più alta e più ardita, anche se a volte scoscesa di dubbi. Avevo bisogno di tutti e di nessuno. Conobbi i profeti dello spirito nelle vene delle mie intuizioni. Un compito per me pesante, che avrebbe gravato sulle mie spalle molto più di una croce. Anche il demonio mi urlava di mollare a causa della montagna dei peccati. Io avevo bisogno di Lui, di Dio. Avevo una sete insaziabile di frantumare ogni male. Fu così che seppellii Lucifero. Io che non portavo e non porto tuttora la luce. Conobbi tutte le delusioni, tutte le disperazioni, tutte le angosce più amare, più amare del fiele, tutte le tristezze più laceranti e non solo terrene, fino a quando in me si spense il piacere o l’apatia che qualcuno potesse convivere con il male. Ero tormentato e godevo nel fremere di uscirne al più presto. Ero crocifisso su tutti le voci e si schiodò da me ogni dubbio. L’esilio della mia voce era più di un morire senza labbra. Patii lo stress senza depressione. Patii la morte senza morire. Non feci nessun miracolo a quelli proprio ostinati di peccato. Il tempo non fa miracoli di verità. Chi mi baciò era naturale, come quello di Giuda. Nessuno mi rese soccorso. Flagellato su tutti i volti senza insanguinarmi le spalle. Voi sapete come sanguina il cuore. Il mio silenzio era l’inno alla libertà. Conobbi le tenebre che rifiutano il fuoco. Conobbi il prossimo dentro la mia carne. Non era vicino o presso la mia vita, era dentro, profondo dentro la mia stessa carne, colui che pur odiandomi, amavo. Conobbi chi era più afflitto di me solo perché non era capace di accettare la sconfitta. Nel procedere conobbi i miei passi vacillanti e senza sforzo mi fermavo per non cadere. Il canto, si il canto mi salvò. Mi salvò l’inno di Jacopone da Todi. Ai piedi di ogni croce umana mi salvai. Stressato di morte, mi soccorreva chi lacerato mi chiedeva aiuto e conforto. L’arte, si l’arte dei pigmenti dei colori mi salvò. Mi salvò Van Gogh e il suo urlo di liberazione. Conobbi la salita di ogni dolore e capii che ogni uomo è una fornace ardente capace di cuocere fragrante ogni pane di sofferenza. Scoprii nella natura del mattino che il canto degli usignoli o delle tortore o di ogni altro pur minuscolo uccellino era la risposta del mio creatore che mi teneva in braccia per non vacillare nello strapiombo che molti di voi conoscono o che alcuni desideravano che dentro mi sprofondassi. Conobbi la letizia delle lacrime e fu un fiume che mi irrorò di gioia i miei giorni senza cielo. Entrai senza fatica nell’arcobaleno della speranza. Ora so che il dolore non è un sogno e che da soli si sale sulla montagna della propria coscienza. Non tornai indietro perché i miei passi mi illuminavano il cammino e il buio svaniva ogni volta che procedevo nel pianto. Conobbi la donna che mi sposò, quella ancora vestita di nero e che unì dentro di sé le tre voci della Trinità. Maria, madre e sposa che mi accarezzava nelle mie notti oscure. Nel letto del dolore fui di nuovo bambino, giovane, sposo e padre di molti figli. Al mattino le mie speranze, come lenzuola candide più della neve, erano veli immacolati, che, come ali di conforto, avvolgevano chi incontravo sull’asfalto della disperazione. Conobbi come lo sfacelo di un cuore possa pulsare ancora speranza e placare chi era caduto come bestia nel collasso delle bestemmie. Seppi che ogni uomo nasce in una donna, cresce nel suo seno, è accompagnato dalle sue mani, sposa il suo cuore e partorisce in lei il corpo dell’immortalità. In questo amore non conobbi l’odio, né la falsità della luce, né l’astuzia nascosta degli occhi. Il pianto mi germogliò un torrente di papiri e un lago immenso di ninfee. Sono qui prossimo al canto del cigno.
Paolo Turturro
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8 marzo: un motivo in più per riflettere Si avvicina l’8 marzo e quest’anno, come non mai, l’universo femminile è l’argomento su cui quotidianamente i professionisti dell’ informazione-fiction hanno trovato come riempire gli spazi del vuoto culturale che ormai imperversa su “certe” riviste e, soprattutto nei cosiddetti “contenitori” tv. Verrebbe da pensare: bene! Ma non è così. Non si parla del fatto che, dopo due secoli di lotte per affermare l’uguaglianza nei diritti e nelle opportunità lavorative, oggi l’Italia è relegata all’ 87° posto, in tutto il mondo, per la retribuzione lavorativa fra uomini e donne e, ancora peggio, per quanto concerne la leadership, dove occupa un umiliante 121° posto. Agli onori della cronaca, di fatto, sono balzate giovani donne che hanno raggiunto “certi obiettivi”, non per le loro capacità intellettive (di cui magari sono in possesso) ma grazie alla mercificazione del proprio corpo. Una sorta di scorciatoia esplicitata senza remore o imbarazzo dalle stesse “signore”, che corrono da un talk show all’altro, rilasciando interviste, intervenendo qua e là come ospiti di “riguardo”, profumatamente pagate, o “arruolate” come testimonial rigorosamente in mutande e reggiseno , per pubblicizzare libri, a questo punto, culturalmente sospetti. Messaggi mediatici devastanti che si insinuano nella cultura di un Paese dove, per altro, imperversa un certo modello politico “giocosamente” maschilista e sguaiato fatto di ammiccamenti, autoassoluzione per comportamenti lascivi, altrimenti censurabili in qualsiasi altra classe sociale, imperdonabili se riferiti a politici di spicco che, in una civiltà avanzata, dovrebbero veicolare messaggi improntati alla sobrietà pubblica e privata. Il culto della bellezza come potenziale baratto per realizzare in fretta i propri progetti di vita, al di là dell’etica e della morale, sta provocando un sempre più marcato rifiuto della propria immagine e una allarmante tendenza a modificarla con ogni mezzo. Nel 2010, come emerge da studi statistici, in Italia gli interventi di chirurgia plastica, eseguiti su ragazze, fra i 18 e i 25 anni, sono stati 150.000 : 85% per seni, fianchi e pancia, 11% per il viso (il 5% del totale è stato fatto su minorenni anche dodicenni). Questo è solo uno dei tanti problemi su cui riflettere. Negli ultimi anni, infatti, sempre più adolescenti, non ravvisando nel proprio aspetto i modelli estetici proposti dai media, manifestano disturbi del comportamento: disordine alimentare, quali anoressia e bulimia (patologie di difficile percezione immediata all’esterno e quindi molto pericolose); autoemarginazione e depressione che si manifestano come atteggiamento di rassegnazione al ruolo di perdente. Ma anche fra gli over 50 è una corsa spasmodica ai ”minilifting” e ai “filler” mensili, come se ci si dovesse vergognare di avere vissuto la propria vita. Sono ben lontani i tempi in cui la grande Anna Magnani intimava alle truccatrici di scena di non coprirle rughe ed occhiaie perché, testualmente, “ci aveva messo una vita a farsele”!!! L’imponente manifestazione del 13 febbraio, alla quale hanno partecipato donne di ogni età e estrazione sociale, ha dimostrato che esiste e, per fortuna più numeroso, anche un universo femminile che, in perfetto anonimato, lavora e si impegna ben consapevole che i diritti e la dignità non sono in vendita ma si conquistano giorno dopo giorno, facendo buon uso delle proprie risorse e della propria intelligenza. E poco importa se ci vorrà più tempo e fatica. Se valore e “successo” coincidono tanto meglio, l’importante è realizzare i propri progetti di vita in piena autonomia, perché la vera ricchezza è stata ed è, sempre e comunque, il rispetto di sé. Le vallette, le Ruby , le veline, le letterine, come tutte le “mode” effimere, prima o poi passano, i valori restano. Le signore che occupano posti di rilievo all’interno dell’attuale governo, astenendosi dal partecipare, forse, per “obbedienza”, hanno perso un’ottima occasione per affermare la loro autonomia di pensiero al femminile anzi, qualcuna, evidenziando un desolante squallore intellettuale, ha cercato di minimizzare la portata del dissenso, definendolo espressione di provincialismo politicizzato e bigotto. A queste signore vorrei ricordare che i codici di comportamento, l’etica, la morale, la libertà intellettuale, il rispetto della persona ma anche i diritti-doveri non appartengono né alla destra né alla sinistra: sono valori irrinunciabili comuni e condivisibili da donne e uomini di ogni credo politico o religioso. In questo frastuono di bla bla, ciò che assorda, a parte qualche cauta flebile voce a titolo personale, è il silenzio ufficiale di istituzioni come la Chiesa che, al contrario, interviene quando si tratta di limitare o giudicare pesantemente, in maniera indiscriminata, “decisioni” dolorose e laceranti che alcune donne sono costrette a prendere. Anna Turdo
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CONOSCO SIGNORE Dammi parole di pietra da scagliare alla morte. Dammi parole di luce da vibrare il cielo. Ho ancora un grido murato sulle mie labbra. Che io tagli il tempo e le rughe di ogni anziano. Che io conosca la luce in ogni paesaggio. Riposi la mia mente sulle colline dei casolari. Che io non sia uno specchio della creazione ma una cellula vivente nelle fibra di ogni creatura. Che io viva la luce germogliata in ogni cellula del creato. Sono l’orizzonte della neve ramificato da abeti innevati. Inabisso il pensiero dentro gli occhi delle stelle. Con la mano sotto il mento medito i sogni murati dalla luce. La luna è malinconica sui prati dei girasoli che ho dipinto sulle colline. L’azzurro chiaro s’immerge dentro l’onda che si tuffa nella mia angoscia. Travi di odio puntellano le calunnie. Apro i libri scrigni di foglie, di appunti e di fiori secchi. Un fiume di margherite sfocia nella mia anima. Seduto sugli scogli dell’angoscia, vestiti di alghe spinose, parlo il silenzio delle tempeste e i sogni dei pescatori che a riva riassettano le reti, cariche di pensieri pescati. Orti di colori circondano ville di pietre e di cotto. Chi pensa male non solo fa paura agli angeli ma a se stesso. Hanno arato sulle mie spalle dura condanne. Eppure ninfee germogliano sui miei occhi. Hanno essiccato sulla mia pelle i loro drammi. Hanno assolato in un prato pubblico l’innocenza. Ho dipinto il mio cammino di ciottoli di smeraldo. Nessuno sa che nelle loro fughe ho seminato le mie speranze. Perché allora fioriscono i mandorli? Perché allora splendono di viola gli iris? Sono semi di cuore che la natura ti ha e mi ha riservato. Non ridono di te le foglie secche che tu scoraggiato sul viale della tua vita hai calpestato. La vera carità è il conforto. Conosco tutti i drammi della vita, come tutti i colori dell’arcobaleno. Conosco tutta la luce dell’universo, delle colline, dei monti, delle sorgenti, delle boscaglie, degli inganni, delle battaglie, delle guerre, dei conflitti, dei crimini. E sempre mi discerni la verità. Conosco le vene di ogni paesaggio. Conosco le onde più burrascose. Conosco i giorni andati nel dolore e quelli ascesi nella gioia. Vivo la preghiera. Vivo dove medito. Vivo dove ho dipinto i tramonti. Vivo nelle foglie di ogni paesaggio che ho colorato. Vivo nel canto di ogni litania. Vivo nel calice di ogni messa. Vivo la discesa di ogni dolore e l’ascesa di ogni speranza. Vivo l’amico che mi accompagna sulle strade selciate della polvere e dei macigni spigolosi scagliati in faccia. Conosco la musica di ogni pensiero come quella delle ali di ogni uccello. Conosco le prepotenze e le sottigliezze di tanti che vogliono raggiungere il potere. Conosco le spalle arate dei poveri, quali gradoni per la salita al potere dei malfattori. Conosco i carretti selciati di stanchezza dei contadini. Conosco gli inganni, hanno occhi spenti e rivolti a terra per la vergogna. Vivo l’ave Maria nel mio corpo. Sei tu, o Vergine, che fai tutto per me. Conosco le suppliche delle lacrime e il grido di ogni dolore. Conosco i tratturi selciati dalle speranze degli immigrati, tratturi di popoli che si sono nutriti solo di polvere. Conosco le nubi che aggrediscono solo di notte. Conosco i cieli macchiati di cattiverie dai prepotenti. Conosco i pioppi che gridano le altezze delle speranze. Conosco i fiumi che irrorano terre rubate agli indios. Conosco il fuoco che incendia per sopruso e il fuoco che riscalda. Conosco masse di popoli che fuggono in esilio in cerca di libertà, gente dai fagotti sulle loro spalle, pigiate solo di stracci e di speranze. Conosco le scale dure a salire ma lievi di estasi di pace. Conosco l’odio di chi inganna, dagli occhi di fuliggine che accecano le loro stesse menti. Conosco la prepotenza di umiliare gli indifesi. Conosco le stanze segrete della massoneria, aggredite di rabbia e di puzza maleodorante. Vivo la musica del silenzio e gusto le sinfonie di ciò che tu non puoi udire. Mi hanno diroccato ogni casa eccetto quella dello spirito. Il mio sguardo è semplice, non colgo le tenebre. Non vivo sui campanili per dominare la gente. Anche i monti sono stanchi di essere usati quali altezze di confini e di prepotenza. Non filtro il sapere per nascondere la verità. Le mie mani sono un paesaggio di inchiostro. Hanno dipinto il sorriso, i pini e le onde. Hanno scritto le lacrime e la letizia di ogni respiro. Non sono mai stanche di dire e di operare. Dico carezze e martello cattiverie. Musico le sensazioni del mio corpo e spezzo le prepotenze. Non riposano mai, anche nel sonno scrivono progetti e trovo alla mattina serenità già pronte. Stillo liquori per il benessere, non conosco ricette da avvelenare. I miei sogni sono prati di genziane, scenari metafisici senza mai perdere la realtà. Stormi di uccelli sono le mie pagine per emigrare. Ti ho inviato paesaggi di alberi appena germogliati di primavera, paesaggi di foglie di autunno, paesaggi di nebbia, paesaggi assolati, paesaggi di neve. Tu solo conosci il mio stato d’animo. Tu che abiti nei cieli e che raccogli i frutti di ogni primavera e delle stagioni non solo del tempo. Adesso ti invio preghiere dense di incenso e di dure meditazioni. Ti invio i dubbi che cammino nella mente. Ti invio gli abbracci di affetto che mi mancano. Ti invio l’ultima mia lettera che già conosci e che so che ti è molto cara. So che l’apri sovente per sentire quanto amore ho per te. Se vuoi custodiscila nel cuore, nel tuo costato. Ogni amore finisce dentro il cuore. Io non so quanto potremo vederci. Certamente molto presto. Non so neppure se questa mia arriverà dopo di me. Comunque aprila, mi sentirò vicino a te e sicuro da ogni tempesta. Paolo Turturro
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Lectio Divina La rivelazione è la scoperta di qualcosa o meglio di Qualcuno che già esiste in noi. E tuttavia nessuno di noi si arrischia a incontrarlo, a penetrare i suoi misteri. Siamo sospesi all’esistenza, rischiando di rimanere fermi nell’ignoto. Il volto dell’uomo dista dal volto di Dio tanto quanto dista quello di Dio dal volto del Figlio. Mai giungeremo, qui sulla terra, a completare la Lectio Divina. Qui, è l’uomo che parla all’uomo. La nostra pelle batte solo quella del cuore anche se lo spirito non pesa su di noi. Nei libri degli uomini ( kata – secondo gli uomini – Bibbia, Maia, Gilgamesh, il libro dei morti dei Faraoni o altro), non c’è soluzione per giungere all’eterno se non attraverso la morte. Noi giungeremo invece a un passo dove il Figlio dell’uomo ci annuncerà che ha vinto la morte e che si può giungere all’eterno senza la morte. Siamo soli nello spirito. Nessuno con noi, neanche la moglie. Ci accompagna soltanto la solitudine. Labbra mute noi siamo. Labbra mute è il nostro dire su Dio. Bisogna essere donna per partorire l’estasi del mistero. Bisogna uscire fuori (e-stasi) per entrare nel mistero dell’al di là. Bisogna essere figli di Dio per nascere in Dio. La Lectio Divina è il mistero del silenzio e la sua Parola è soltanto ascolto. Bisogna anche uscire da quel dio nostro per non far vedere che, nel pianto dello spirito, il non sapere ci fa divenire uomo. Nella Lectio Divina restiamo sempre impigliati nei capelli dei nostri dubbi, nelle piume dei nostri sogni, nelle ali degli angeli perché non cresceremo mai di carne. La nostra cresciuta è di spirito, che tu stesso soltanto alla fine vedrai. Sentiremo crepitare persino il pianto di Dio nelle nostre vene, perché Dio non sa comandare ma soltanto obbedire, perché noi potessimo cominciare a comprendere. Dalla Lectio Divina usciremo ignudi, più ignudi di ogni ignoranza, e solo allora cominceremo a camminare nel sapere. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che proprio nell’assoluto vuoto di noi stessi Dio entrerà nella nostra vita sempre in punta di piedi per non disturbare la nostra quiete. Resistere alla Parola che non possiamo comprendere è il nostro percorso sicuro che ci permetterà di capire. La Bibbia, come i libri di ogni popolo, è il piedistallo della nostra croce che ci distruggerà ogni resistenza di dubbio. La Lectio Divina ci insegnerà tanto da non sapere nulla e solo allora Dio ci rivelerà l’amore che ha seminato in noi fin dall’eternità. Ogni pagina della Bibbia, oscura di uomini, oscura di lotte, oscura di uccisioni, oscura di crimini, proverà la nostra superbia e nel contempo proverà a donarci la libertà che esiste già in noi nel fuoco della stessa creazione divina. Tanto ci piaceranno questi segreti nascosti, da divorare, anche da soli, tutte queste pagine persino nelle nostre notti oscure. E’ nostro dovere non cadere nel rigetto che il tempo ci annoierà, ma rimanere in piedi a testimoniare le nostre origini divine. Senza sapere ci scopriremo adolescenti della Parola. Attenti a questo terreno superbo sopra cui si abbatteranno tutte le foreste delle nostre gramaglie mentali e tutte le bufere delle nostre incertezze. Proprio nella Parola sperimenteremo lo strapiombo delle acque che non potranno annegare la nostra semplicità; lo strapiombo dei dubbi che lentamente si apriranno come splendide rose profumate di spirito; lo strapiombo del vuoto che non rischierà di abbattere l’anima che Dio stesso ha sposato in noi. Nascerà in noi il desiderio di un nuovo battesimo che monderà i nostri sogni, le nostre mancate carezze su Dio. La Parola stessa ci battezzerà e quel giorno il nostro capo non avrà più capelli bianchi, il nostro corpo non avrà più rughe, i nostri occhi diventeranno luce di innocenza. Camminare sarà sfogliare le stagioni dello spirito. Arriveremo persino a chiudere il Gilgamesh, il Maia, la Bibbia, e leggeremo in noi ciò che i popoli stessi hanno scritto per noi, secoli di pensieri, secoli di sogni, secoli di rivelazioni che Dio stesso ha seminato in tutti noi fin dall’origine, fin dal principio, fin dall’arkè che è in tutti noi. Paolo Turturro
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I grani del perdono Scrivo e recito il rosario del perdono. Si infrangono sui sassi non solo gli sguardi maligni. L’anima non sarà mai allontanata da me. Sono lieto delle spine del rosario della comprensione. I suoi grani mi aprono il rosario della luce, il rosario della speranza. Sono giunto sul colle della risurrezione. Non ho la fronte corrucciata di maligni intenti. Non è dato trovare la via con l’essere tristi. I miei sogni spuntano dal nettare dei virtù fiorite all’aurora di ogni dolore. Tu non ti riscaldi mai di bontà perché sei nata dal gelo. Percorro le vie del rosario e i grani mi recitano carezze di Dio. Sono lieto di finire i miei giorni con il rosario in mano. Io che faccio tanta fatica a cantarne uno fino in fondo e tutto intero. Non mi nascondo nella sabbia dell’isolamento. Qui sono nell’eden dello spirito. Qui incontro tutti. Qui respiro fino ai più alti orizzonti. Ho istituito la festa della luce nel giorno in cui ho sofferto di più. Non sono comprensibile al criterio dell’intelligenza umana. Giù nelle valli dell’umanità non è comprensibile capire che il dolore è una festa. Sfuggo a ogni analisi. Sfuggo a ogni antologia. Sfuggo a ogni calcolo matematico. Sfuggo a ogni grammatica. Sono la grammatica dello spirito. Nuovo dire è sulle mie labbra, anche se a volte murate. La mia mente perde conoscenza solo nella bellezza, soprattutto quella dell’intuizioni. A volte non so d’essere sobrio o ebbro. Del resto è così sottile il confine tra sobrietà e ubriachezza. Per cui è possibile, anche il contrario di quello che nella tua vita e per tutta la tua vita credi giusto, eccetto il crimine o il peccato del mondo. Non posso perdonare la cenere delle tue ossa. E’ urgente che tu verta verso il bene e convertirai verso Dio. Il tuo falso sorriso ti ha sempre nascosto letale veleno. L’accidia è la tua compagna. Nel tuo rito funebre ho sentito solo la polvere rotolare dentro il feretro. Sono il cantore delle aquiloni che tu hai cacciato invano. Il tesoro che il rosario del perdono germoglia dentro lo spirito non va in rovina. Tu navighi dentro la feccia più densa delle tenebre. Esci. Neri sono persino i tuoi pensieri. Puoi ancora respirare la luce del giorno. Io sono libero da premi. Sono estraneo alla terra dell’apparenza. Sono estraneo alla terra, al fuoco, all’acqua e all’aria. Sono fatto di un altro elemento che neanch’io conosco. Sono fatto della stessa materia dei sogni dei cieli. Cose molto vanescenti. E più non credono che sia fattibile. Mi biasimo quando sono ebbro di intuiti. Non penso con le astuzie. Non posso farti e farmi male. Non ingoio cattiverie, per cui non allevo vipere nel mio seno. Sto raccogliendo tutti i misteri che il rosario del perdono mi ha svelato. Ho da duecento, trecento e mille anni rottamato la mafia e i suoi blasfemi. Ignoro l’ora in cui crollerà assieme a tutte le fondamenta del male. Alla corte dello spirito piace la bellezza sposata alla sapienza. Ho logorato l’intemperanza con l’incenso della preghiera. Ho triturato i calcoli degli inganni. Solo l’amore è la quiete di ogni pensiero. Ho elevato la testa oltre l’ardire dei prepotenti. Oltre Salomone è Jamshid. Non faccio chilometri per entrare nella mecca. Io ho dentro di me ogni santuario dello spirito. La Mecca è dentro di me. Non la visito una volta all’anno. Sono dentro in ogni respiro. Sfuggo a ogni bestemmia della politica. Sfuggo a ogni ira delle banche. Sfuggo a ogni peccato della chiesa. Sono vivo al di là della cenere del fango che mi hanno gettato addosso. Appena morto però immergete il mio corpo in una coppa di vino. Vedrete che non fermento inutilità. Mi ha donato ali di risurrezione persino nelle ossa. Crolla tutto nella notte della ruota, eccetto lo spirito che tu credi che sia un’illusione. Solo il coraggio cammina oltre il tempo. Ha passi, ritmi, versi e musica dell’eterno. Custodisco nelle caverne del tempo un tozzo di pane nutrito di lacrime di tutti gli innocenti. Un tozzo di pane che ha l’ardire di creare qui nella terra l’eterno. Voi lo sapete come si chiama. Il durare del tempo è meno di una foglia secca di ginepro. Non dimoro nel peccato. Il peccato ha carte mangiate solo da blatte. Ho urlato contro la fede. Ho frantumato i cristalli del dubbio. Ho custodito nel profondo del mio credere l’ultimo soffio che germina l’anima. Bevo sull’altare coppe di fede. La mia vita è una coppa di fede che non si esaudirà mai. Ho scoperto che il corpo è la valvola di ogni pensiero. L’altare mi ha regalato una croce di cristallo. Una croce di luce. Una croce di risurrezione. Una croce che solo il dolore sa fiorire. Sono giunto alla primavera della risurrezione, senza essere depositato dalla croce. Non ricordo proprio niente del calvario sul colle del rosario del perdono. Sono soltanto un uomo che spera che la preghiera sia la sorgente di un mondo nuovo. Qualcuno ha già raccolto stelle alpine del cielo della guarigione. Qualcuno poi ha già incartato nelle vene del suo corpo foglie di aloe per sconfiggere il cancro del peccato. Cerco il farmaco che aumenta il dolore per guarire. Più cerchi e più ti smarrisci. Sono orgoglioso della disciplina di vegliare i valori della vita. Ho vegliato la notte per sentirci liberi nel giorno. Ho infranto il calendario dei santi perché ne ho trovati miriadi sulla terra e nei cieli. Le mie mani sono arpa e i miei occhi sono violini. Ho imparato a concordare gli accordi più disperati. Ho modellato nel sole la chiave che apre ogni segreto. Gli angeli mi dischiudono ogni sigillo. Nulla di più semplice. Sono il muezzin della torre della preghiera. Quassù sgrano una corona secoli di incensi. Da quassù mi sentono più quelli che sono nell’alto che nel basso. Nessuno da quassù mi sente. Nessuno mi ode. Sono la voce del silenzio che germina salvezza. Io grido dall’alto senza sapere che sono nel baratro dell’angoscia. Mi causa sofferenza la mia impotenza a discernere l’origine di ogni male. Chi può sapere ciò che macina il cuore? Chi può conoscere l’origine di ogni crimine? Anche nel fondo di un cristallo a stento vedi chiara la verità. Non lascio cadere la corona che mi coniuga al cielo. Io non mi cingo con un zunnàr. Non sono infedele alla mia coscienza. Provo vergogna per il sacrilego della mecca, della sinagoga, della moschea e di ogni chiesa. La mia corona è fatta di luce, i suoi grani non si consumano mai. Sono uscito dal muro della terra per adorare Dio in spirito e verità. Ecco la corona di luce che nessuno sa di avere in mano. Sono appena un iniziato ai sacramenti dello spirito. E’ appena il primo mistero della luce. Sono sceso nel battesimo più profondo di un oceano. Sono salito sull’altare con un cesto di pane azzimo. Ho sempre con me la stola lunga secoli di perdono. Non vago negli affanni incerto. Sono certo che le mie lacrime e quelle di ogni persona sono cristalli di grazia. Non ho sciupato il vangelo nelle opere di carità sostenute dal denaro che acquieta la coscienza. Ecco le lacrime sono i grani del rosario che salgono più spediti in alto. Ho scritto nella mia carne con l’inchiostro del sangue la mentalità di Dio. In questo scrittoio divino non perdo il capo del filo della ragione. Mi fondo sempre su ciò che non ho. Mi fondo proprio sullo spirito che ha fondamenta divini. Paolo Turturro
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FRATELLI D’ITALIA? Quando crediamo di aver toccato il fondo, quando pensiamo che ormai possiamo solo risalire, ecco arrivare un ulteriore scivolone che ci fa precipitare ancora più giù. E’ possibile che un Paese frammentato, sottomesso e umiliato per secoli dallo straniero di turno che, con il sangue e il sacrificio di tante giovani vite, ha conquistato la sua identità ed è riuscito a unificarsi sotto un unico Stato, un’unica Bandiera, un unico Nome, dopo 150 anni, litiga sull’opportunità o meno di celebrare un evento storicamente importante? E’ questa Italia disunita, travolta da polemiche pretestuose, vilipesa proprio da coloro che lo rappresentano che aveva sognato Mameli quando scriveva
… Dall'Alpi a Sicilia Dovunque è Legnano, Ogn'uom di Ferruccio Ha il core, ha la mano, I bimbi d'Italia Si chiaman Balilla… ?
Oggi più che mai viviamo in un Paese lacerato dall’odio che alla dialettica del confronto democratico ha sostituito quella dell’insulto, dell’insolenza, della volgarità, dell’intimidazione. La classe politica al governo strumentalizza il consenso conferitole dagli elettori non come qualcosa che ha ottenuto per rendere un servizio ai cittadini ma come una sorta di potere insindacabile per risolvere singole vicende personali. Non si legifera più “per” ma “contro”, soprattutto contro lo Stato di Diritto che garantisce la democrazia e l’uguaglianza dei cittadini. Le tante proteste della gente alle prese con i problemi di sopravvivenza quotidiana, non sono solo inascoltate ma vengono, di volta in volta, sarcasticamente etichettate: gli operai che tentano di difendere il loro posto di lavoro sono dei “politicizzati rossi”, gli studenti che contestano i rovinosi tagli all’istruzione sono “scansafatiche senza voglia di studiare” e milioni di donne che rifiutano la massificazione del cliché del “do ut des” sono poche “radical chic” o peggio “fiancheggiatrici delle procure Rosse” o ancora “rivoluzionarie munite di servitù e carrozza”. E’ con grande tristezza dovere ammettere oggi, dopo 150 anni, che le squallide vicende che siamo costretti a subire a causa di una classe politica mediocre e miope, totalmente arroccata su discutibili personalismi e privilegi, siamo di nuovo
…Calpesti, derisi, Perché non siam popolo, Perché siam divisi…
Anna Turdo
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aprite il cuore Nessuno può fermare il cuore, neanche il tempo, neanche tu che arranchi tempo nell’odiare. Ho voglia di tornare a casa. Certo ti troverò ad aspettarmi. Ti imploro, non uscire, questa volta fatti trovare. Non uscire dal mio cuore. La creazione non ha peccato, per questo nella risurrezione di purificazione soffrirà poco, certamente meno dell’uomo che si è avventato da sempre non solo sugli animali. Io non esco dalla creazione. Sono l’eredità dell’eternità. Io conosco l’universo come l’abbecedario di una nuova vita. Io respiro camminando nell’universo. Persino la mia carne sarà stella, sarà galassia. Io sono, in Te, quella luce che non si spegne. Tu sei in me quel respiro che genera altri pianeti. Io sono già abitato da tutto ciò che è invisibile. Io, in te, sono la sorgente che scorre in alto a irrorare i cieli ancora di terra. Qualcuno sa che è un dono che la musica del cuore dei sacramenti mi ha donato. Io sono, in te, l’orizzonte che ogni vergine desidera. Io sono la lotta che sconfigge ogni male. Io sono la leggenda che sfocia nel respiro. Ho provato l’abisso del buio e nelle viscere del peccato mi sono ribellato e solo allora ho respirato ciò che non si può respirare. Sono uscito dalla notte che altri non sanno illuminare. Ho cantato nei liquami delle metropoli e all’improvviso sono scaturite in me per te sorgenti a irrorare giardini del cuore. Non so stare fermo in questo viaggio del respiro. La stasi è la morte del creato che non può restare sterile dinanzi al tuo sospiro di perdono. Io fuggo la paura di non creare. Io fuggo la paura di non amare. Io fuggo la paura di non perdonare. Io fuggo ciò che non è carattere dell’anima. Mi faccio paura nell’entrare nell’ignoto che non conosco. Tra di noi c’è sempre una cosa da scoprire. Amo viaggiare le intuizioni seppure non so dove mi porteranno. E’ una cosa giusta rischiare il cielo dove abita l’eterno e dove tu per sempre abiterai. Sto sposando l’ignoto per sapere che non si potrà conoscere tutto l’infinito che è dentro te. Mi fa male il cielo e tu lo sai. E’ stupido tuttavia tuffarsi a cercare altrove la letizia che in te non finisce mai. Io sto dove sei tu. Non sono geloso se mi capiterà di incontrarti assieme ad altri, a miriadi di altri, a miriadi di altri che pensano come te o che non pensano come te e che rischiano in te di pensare come te. Da solo, tu lo sai, non mi basto. Da solo sono sterile. Da solo non posso concepire un amore, non posso concepire un’idea, non posso concepire altro che non è me stesso. Per questo io provo a non scappare da te. Mi casca il mondo addosso solo nell’immaginare che tu non sei. Io vado a musica nel cercarti. Io vado a luce per vederti. Io vado a respiro per amarti, perché sei tu il mio ossigeno che dentro non finisce. Musica è il giorno. Musica è il pianto. Musica è trovarti. Musica è sentire la voce della strada dove un povero, che tu ami, passa. Musica è la voce della strada dove non solo i giovani alzano la polvere al cielo come incenso, come ribellione, come ansia, come unica speranza che arrivi certo a te. Musica è dentro di me. Musica fa parte di me. Cammina con me. Mi crea concerti che mi portano a te. Musica è la terra. Musica sono i popoli che scrivono non solo con le lacrime costituzioni di giustizia e di legalità. Più siamo ad ascoltarti, o musica, e più in alto saremo a vivere il cielo. E tu cambi al mentalità della gente, se ognuno di noi si mette ad ascoltarti dentro o a suonare appena una corda del cuore che è un’orchestra di pace. Se ognuno di noi vibrerà appena una corda del proprio respiro libereremo il mondo dalle catene che stringono ogni corda d’amore nella paura. Se ognuno di noi arpeggerà appena un sospiro delle proprie sue nozze d’amore libereremo la luce da ogni ostacolo, da ogni pericolo e doneremo alla verità il proprio splendore che farà nuova ogni popolo che canta nell’abisso del dolore la propria liberazione. Scateniamo la musica del cuore che non ha paura, perché non muore. Scateniamo la libertà. Scateniamo la gioia di intuire, la gioia di sapere, la gioia di contemplare. Sono stato cacciato persino dalla morte. Ho strappato le vesti alle frodi e agli inganni. Prima che mi uccidessero ho affidato al vento la mia fede. Germoglierà su alti stelli, sulle rocce di qualche altro universo. Non togliere di mezzo il cielo. Ti mancheranno i viaggi siderali e i chiari di luna. Sento nella bibbia le labbra del cielo sulle mie aride e assetate di giustizia. All’aurora mi è spuntata una rosa sulle mie stesse labbra. Aprimi il petto e troverai dentro perle preziose per comprendere. Non so dire il profumo di Dio. Non ho mani nel fango per impastare imbrogli. Molti si dedicano a quest’arte. Potessi essere il vasaio della luce. Dalle mie mani piove sangue. Io conosco solo il sorriso di un giorno quando Dio stesso mi ha baciato il cuore. Bevo il pianto di mille anni. A volte dico, a volte sogno. A volte medito. A volte mi scandalizzo per quello che penso. A volte è inopportuno dire. A volte è duro tacere. Voi ora capite la mia continua lotta interiore? La vittoria su me stesso, trafitto e sconfitto dal mio stesso silenzio. Eppure il mio dire è una polifonia. Eppure avverto che Qualcuno mi protegge come sua gloria. Sono beato senza saperlo, perché vivo alla sua ombra. Ha spalancato la porta della sua misericordia e dal suo costato è scaturita una sorgente che mi avvolge e avvolge tutti, propri tutti. Nessuno escluso. In Lui sono il fiume della misericordia. Miliardi di persone ignorano questa salvezza. Navigano nella totale inerzia del non sapere. Ecco perché in me la notte è un libro, l’aurora uno scrittoio, il giorno un annuncio. Non perdo un istante, anche un secondo è la sua salvezza. Paolo Turturro
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La relazione impositiva Quando c’è amore tra due persone ogni relazione è vissuta come un cuore solo e un’anima sola, ogni dialogo è perfezionato nell’intreccio delle loro vite, ogni sguardo valorizza l’altrui ricchezza interiore. Non così nella relazione del dittatore in cui il dominante coltiva il trionfo del proprio ‘io’ per ergersi quale alloro solitario su volontà sconfitte, o almeno addomesticate. Suo sogno è, col dialogo, dominare l’altro impedendo che sviluppi le sue diverse doti personali, godere del disagio che gli provoca onde concentrare verità e conoscenze solo in se stesso. Non s’accorge, il prevaricatore, dell’eccessiva malcelata immodestia. Tanto attira l’attenzione su di sé da costringere l’interlocutore a spostare l’attenzione dalla tematica del dialogo alla di lui persona che si sta imponendo. Non s’accorge, suo malgrado, che sta mancando l’obbiettivo della relazione: umanizzare umanizzandosi. Non comprende, il misero, che è più utile un compagno di viaggio che mille schiavi al seguito. Ignora che la conclamata diversità d’opinione non è contestazione ma esattamente la distanza da percorrere per crescere umanamente insieme, grazie alla comune ricerca della verità in oggetto. Nessuno può asservire al proprio ‘io’ valori, volontà, realtà. Nella relazione il sicuro di sé è chiuso alle emozioni e non presta alcuna fiducia all’interlocutore: vuole manipolarlo servendosi di un illusorio rapporto sociale. È il tipico dialogo del calcolatore che approfitta di chi ha reso ‘debole’. Anche quella del parassita è relazione dominante poiché, rifiutando il peso della ricerca comune, delega all’altro ogni responsabilità di studio, sintesi, scelta. Variante diffusa è l’atteggiamento dialogico del bullo che cerca di controllare la situazione minacciando crudeltà. Lo è anche quella del dolce sorriso che avvolge di miele il fiele. La relazione dittatoriale è praticata anche dal gentiluomo dall’agire affettato: con dire suadente, tende a dominare scardinando la buona stima che l’interlocutore ha di sé. Gli fanno buona compagnia l’approccio del giudice e del protettore: il primo sottolineando la propria superiorità e competenza, l’altro col suo conclamato e interessato interessamento all’incolumità del malcapitato. Entrambi avvelenano ogni germe di relazione umana. Che dire della relazione dell’egocentrico che preferisce rapportarsi all’altro in funzione dei propri interessi e che al dialogo paritario preferisce quello impersonale? Non s’accorge, suo malgrado, di dimostrare scarsa autostima, incapacità a motivare le proprie posizioni in un confronto aperto, di non apprezzare il dialogo paritetico che è, per tutti, sempre vantaggioso. L’attitudine alla relazione dogmatica è sintomo della paura di sentirsi svalutato e rifiutato nel passaggio dal confronto all’intesa. Eppure, questa, è necessaria perché tutti abbiamo bisogno di rapportarci all’altro per quel bisogno fondamentale di contatti affettivi positivi che, passando dal rispetto e da valutazioni almeno sufficienti, risvegliano le potenzialità latenti in ciascuno. Il buon Nella relazione asimmetrica, qual è quella dittatoriale, il potere può imporre anche carceri senza sbarre che obbligano l’altro ad assumere, contro la propria volontà, comportamenti che, visti dall’esterno, appaiono anomali. Il dominante dimostra di non saper cogliere i doni divini, la libertà creativa che è nell’interlocutore. L’ascolto attento, il sorriso, la stretta di mano sono lievito per la dimensione umana, spirituale e sociale. Nella relazione paritetica gli interlocutori rifuggono dall’assumere la maschera, né innalzano muri, né sviluppano la doppia personalità, ma tendono alla perfezione reciproca attraverso un ottimale ed esclusivo processo d’identificazione. Nell’intesa la stessa difficoltà si profila come opportunità quando il puntiglio cede il passo alla sete di verità nella carità. Il cristiano fugge dalle relazioni dittatoriali avendo quale modello Gesù Cristo. In ogni relazione il battezzato è chiamato a prendere e far prendere coscienza del germe di vita divina seminato nel cuore degli uomini e farlo crescere nell’esercizio della libertà responsabile, illuminata dalla fede. Don Benedetto Fiorentino
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Innalzati di luce
Anche la polvere è stata la pupilla di una dolce fanciulla. Il deserto è polvere di stelle e non di persone. Prima che finiscano le stagioni dell’universo voglio sapere l’energia che crea il cielo. Perché è così silenzioso stasera? Perché è così nascosto, così vicino e così alto? Perché è così grande da farci sognare tutti. Lo spirito non sarà mai venduto come polvere di giare e di coppe nei mercati del vasaio. Io credo al di là del tempo. Io credo al di là della polvere. Anch’essa si muove con il vento e diviene vortice di sapere. Io credo che ciò che spero abiti nel mio spirito. Io sono l’enigma a me stesso, quando mi innalzo di superbia. Anche il fumo senza sapere verte in alto. L’orgoglio non ti fa vedere i sogni realizzati da miriadi di persone che come te hanno alzato non solo il naso verso l’alto. Noi procediamo sui binari del più e del meno. Sulla bilancia del tempo il peso che affonda di più è il male che tu stesso hai compiuto. Il mondo è vuoto di amici fedeli. Non cerco la conoscenza tra ieri e domani. Io apro il presente per sapere. Tutto gira nella ruota del tempo e molti scommettono la fortuna che acceca. Tutto va e vi assicuro che niente si incarna uguale. Tu stesso sei diverso persino dal tuo ieri. Non faccio fondamento nel futuro inesistente. Io conosco il futuro aprendo il presente. Io ho la mente nel presente. Io colgo il giorno che vedo. Dopo la notte ho imparato a sospirare l’alba che nel Giorno più alto mi esalerà nuovi sospiri. La notte più sacra è quella del destino. E’ così sacra che tu non sai la regalità e la sua profezia. E’ così sacra che resta eterna. Cerco e ricerco tutta la vita per non trovare l’essenziale che è già dentro di me. Sono ebbro di luce per questo sono vuoto di polvere. Ciò che amo non svanisce nel nulla. Non mi affido ai desideri. Sono sirene che non cantano nel mio oceano. Non riesco a tuffarmi nell’oceano della spensieratezza. Non riesco a nascondere il sole con un dito o con un pugno di sabbia. Ho infilato nel cuore la perla del mio destino. Nessuno disprezza il proprio corpo anche quando è morto. Tutti curano soltanto i nostri resti. Io non sono fatto di polvere e non suono il liuto dell’oltre per dimenticare. Non sono fatto di sensi. Vado oltre i miei cinque sensi. In me ho scoperto una marea di sensi che mi catapultano in ogni dove. Vado oltre i quattro elementi. Quelli che non conosci mi innalzano alla sapienza nascosta nei cieli. Mi elevano all’impero del mio credere, oltre le meschine bufere del tempo. Io abito nelle molecole dello spirito, negli atomi che navigano germi di nuove entropie. Proprio nella ribellione dello spirito creo energia più forti. Io leggo il pugno di polvere che scende dalle mie mani come cascate di acqua sorgiva. Anche la falce del cielo ha timore del mio ardire. Vado oltre i confini dei cieli. Non c’è lama che possa fendere lo spirito o il fuoco che Dio ha infuso dentro di te. Prima o dopo si risorge dal baratro della morte, dalla bufera delle menzogne e della polvere. Ho dischiuso l’idolo che mi teneva blindato nel tempo. Ho sfilato l’anello dai riccioli del mio volto, perché neanche la bellezza mi leghi al tempo o nessun laccio mi freni nell’andare nella notte del destino. Il vento non è capace di legare i capelli di una fanciulla. Laccio dopo laccio ho legato i peccati e i crimini del mondo nella cenere dell’odio che da se stesso si annulla. Ho vissuto solo un giorno senza peccato e quello era di Gesù Cristo quando mi ha preso nelle sue braccia. Mi sono vestito del suo cielo non solo per non morire, ma per vivere di Lui. Finalmente l’eternità ha già il mio bagaglio soffice e lieve: il mio spirito consegnato da Gesù Cristo nel sospiro della sua croce. Io so che il durare della vita è meno di un soffio. Ognuno di noi passa dall’argilla del peccato alla materia della grazia. Dal dubbio alla verità è un soffio. Dall’ignoto alla conoscenza di se stessi è un soffio. Dalla notte al giorno è un soffio. Un soffio è mille anni di prepotenza. Un soffio è il tempo. Un soffio è la tua ostinata cattiveria. Sopporto. Non mollo. Vomito gli inganni. Sono ostile al peccato. Scruto ogni giorno l’ondeggiare dei veli della verità. Non mi fermo a osservare l’impossibile. Ho impastato la sua farina con la mia carne. Faccio il possibile. Faccio il dovere. Faccio il mio credere. Non mi è dato l’impossibile. Al mio nascere non mi misero in mano le briglie del mondo. Per questo non considero la vita un castello in rovina. Essa è uno scrigno meraviglioso, radioso di novità. Ho imparato che anche nei secondi si è saggi di settemila anni. Non apro in segreto i sigilli della sapienza. Essa ora è luce, ora è conforto, ora è fuoco che ti infiamma, ora forza che ti spinge innanzi, ora è temperanza che ti rende roccia, ora è accoglienza che diviene famiglia, ora è perdono che ti arricchisce di fratelli, ora è bontà che ti riempie di gioia il cuore, ora è spirito che tu stesso non conosci. Brillo di luce di mille secoli, che Dio mi ha donato. Indosso la stola di secoli di perdono. Abito il ciborio dell’eternità senza sapere che salgo quotidianamente l’altare dell’amore. Non posso scrivere sulla mia carne la saggezza dello spirito. Scrivo solo il tempo, le sue rughe, i suoi cerchi e i suoi circoli concentrici. Nel mio spirito incido la parola eterna. Al chiarore dei ginepri e dei pini canadesi ho seminato i miei occhi. La voce della luce mi ha chiamato non nella boscaglia delle tenebre ma nel lago della sapienza, oltre il lago dei cigni. Tuttavia vivo ancora di ignoranza. Non conosco il giorno dei miei occhi che vedranno Dio. Non so quale sia in me più corto il passato o il futuro. Sono uscito dal covo delle vipere dopo che le ho uccise tutte. Il covo delle vipere è il peccato del mondo. Non è difficile uccidere la guerra, né tanto meno i crimini. Dissertare è la loro morte. Non ho affittato la mia anima. Nessuno ci abita dentro se non chi è leale e onesto. Sono prigioniero del mio intelletto. Non posso godere dell’ignoranza. Sono fatto di pietra filosofare. Sul mio scrittoio ho due frati beoni di vino. Sono felici con il loro saio seduto su volumi di bibbia. Ho l’altezza dei cipressi e l’arcano del deserto. Non è chiaro perché litigo con il tempo e non con la morte che non mi trionfa dentro. Non è chiaro perché avete solo il piacere della carne quando quello dello spirito è più forte di ogni nettare. Oggi sono in me i misteri che ieri opprimevano i profeti. Presto consegnerò il testimone a uno più folle di me. Il mio amico intimo è il mio spirito. Litighiamo spesso in abbracci felici d’intesa. L’antidoto del peccato è il vino che ti fa dimenticare persino la passione di essere. La luce non mente verità. La mia coscienza è cento volte tagliata di sofferenza per questo, come un pettine, mi adorna di riccioli di intuizioni. Sorseggio i giorni per assaporare il tempo che nell’eterno non potrò gustare. Io sono in me eppure conosco ben poco il tesoro dello spirito. E quando sarò fuori di me che cosa saprò? Non offro un giorno per sapere il destino. Io so che è ben chiara l’inerzia dell’uomo nel vivere senza pensare alla morte. L’ozio ha arrugginito le ossa dello spirito. L’uomo ha perso il segreto della vita dal momento in cui si è gonfiato di orgoglio nella battaglia degli angeli. Cosa è successo e come è accaduta la lotta nel cielo? Mi hanno cacciato fuori di tutti i secoli. Non possono cacciarmi dall’anima. Forse nuoterò presto nei ghiacciai o nel fuoco della mente per trovare l’origine della vita. Qualcuno sa che veniamo tutti dalle sorgenti del cielo.
Paolo Turturro
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SONO INDIGNATO
Sono indignato per la morte che si vanta solo della polvere. Sono indignato per la morte di freddo di un neonato nella società dell’opulenza. Sono indignato della guerra che lascia distruzioni e odio rovente. Sono indignato del Grande Fratello che inietta nella mente popolare solo l’effimero, l’apparenza e la strafottenza. Sono indignato: ci hanno rubato il vangelo per fare le loro guerre. Sono indignato degli operatori di pace in Afganistan, in Vietnam, che giocano d’azzardo con la vita e con il denaro. Sono indignato della falsità che non può opprimere eroi e profeti. Sono indignato delle ingiustizie pagate per essere nascoste. Sono indignato nel sapere che mi provochi talmente tanto dolore che arrivo persino a sorridere. Sono indignato dei giornali miseri e sterili di false informazioni. Sono indignato della meschinità della politica d’oggi. Sono indignato dei soliti ignoti, dei soliti milionari, dei soliti raccomandati, delle trasmissioni a gettoni d’oro, delle fiction commissionate dalla stessa mafia. Sono indignato della notte delle calunnie che muoiono come mosche in un bicchiere di aceto. Sono indignato di far carità con i soldi di uno stato che opprime poveri e deboli. Sono indignato della paura di proclamare la verità a prezzo della vita. Sono indignato, dopo 2000 anni e più, come non si comprenda ancora il fallimento della croce di Gesù Cristo, che salva e redime tutti. Sono indignato delle chiese chiuse, sigillate o vendute per depositi e falegnameria. Sono indignato dei tabernacoli sigillati e adorati solo dai topi della notte. Sono indignato, vorrei morire dentro una cella come l’eucaristia nel ciborio. Io sono uscito dalla desertificazione della fede. Io sono uscito dall’esilio, dove mi hanno cacciato. Io sono uscito dalla parola morta. Io sono quel libro che tutti leggono, perché vietato, dalle idee sovversive. Io sono quello scrigno che nessuno vuole aprire perché tutti si riconoscerebbero, pericoloso per tutti. Io sono quella mente che è meglio farla tacere, dalla paura di rimanere liberi. Non conto mai il denaro. Sono felice di sapere quando fiorisce una pianta di melanzana dai boccioli violacei e quanta frutta sopporta un pero. Sono beato nell’annaffiare goccia a goccia le serre di gerani. Mi stanco e allora riempio l’orto di gomme che abbeverano automaticamente migliaia di melanzane, di pomodori, di insalate e di indivie. Tuttavia mi accorgo che le piantine sono più rigogliose quando le annaffio una per una personalmente. Specie il mio albero di fico che mi fa una gran festa a mostrarmi i suoi abbondanti rami carichi di fioroni. Per i più oggi è stolto parlare con le piante. Io trovo invece che mi riempio di dialogo con la natura. Dialogo a dialogo con il creato. Logo dia logos con il creatore. Distruggendo la natura hanno desertificato la nostra fede. Sono indignato. Hanno incenerito il vangelo che non può mai morire. Sono indignato, l’occidente è divenuto cenere che nessuno può infiammare. Sono indignato, le nostre città sono blindate di paura, di sospetti, sterili di eventi civili gioiosi per la popolazione. Sono indignato nel costatare che i più si fanno comprare la coscienza con il denaro. Sono indignato, hanno ridotto la scuola pubblica a un colabrodo di perditempo. Sono indignato, celebriamo sacramenti meccanicamente senza Dio e senza gente, generando anime morte. Sono indignato, non ci sono più marciapiedi ma solo marcia strade. Sono indignato, nessuno più segue i segnali stradali, biciclette, motori e macchine viaggiano contro senso. Sono indignato anche i carabinieri sono stanchi di multe annullate e cancellate. Sono indignato, i palazzi comunali sono proprietà privata e i vari governatori si alternano ad abitare per interessi privati. Sono indignato, i giornalisti scrivono dettati pagati e nessuno è libero nel gridare ciò che si pensa e ciò che è per il bene comune. Sono indignato, ancora oggi si sterminano indio, curdi, portoricani e africani. Sono indignato dalle varie diplomazie che ottenebrano la verità dei popoli. Sono indignato per l’Onu ridotto solo a una parata di parole. Sono indignato, chi è straricco diventa politico per tutelare con leggi personali gli affari delle proprie losche imprese. Sono indignato nel constatare che le menti migliori e gli onesti si ritirano mentre i disonesti avanzano nei posti pubblici. Sono indignato, i poeti, gli artisti, le grandi menti sono accartocciati nei cestini dei potenti e procedono nella grande editoria solo menti esaltate e avvenenti di poteri. Sono indignato, una mia amica mauriziana, solo dopo 27 anni di lavoro in Italia, ha ricevuto la cittadinanza italiana. Meglio tardi che mai. Sono contento quando tolgo le foglie secche ai gerani e alle belle di notte. Sono felice nel riempire i loro fusti di terriccio e di concime nuovo. Il miglior concime per l’umanità è la volontà a 360 gradi. Il mio amico mi rimprovera nell’esagerare di isolarmi, poi mi confida che sono beato a coltivare l’orto. Una volta ero nemico acerrimo della polvere e dei polveroni. Ora qui nell’orto mi sono adattato tanto che la calce o lo zolfo mi imbrattano magliette e pantaloni. Certo è una polvere diversa che essa stessa non sopporta quella che nasconde la verità da parte dei sistemi occulti. Io non so ciò che voi pensate. Dite tanto che non si conoscono le vostre occulte convinzioni. Le convinzioni della varie carriere di ogni ceto ora le trovo banali. Pensavo di amare e ora mi accorgo che i più amano solo mossi dal possesso di avere. Ora amo ciò che nella società del perbenismo viene alacremente rigettato. Sono indignato dalle varie banche per di più per quelle in mano alle varie chiese. Io non riesco a conciliare le beatitudini di Gesù Cristo con l’impero delle banche. Nella chiesa si pensa che le opere di carità si possono fare solo con la sicurezza del denaro depositato nelle banche. Sono indignato perché si prepongono alla Provvidenza divina le banche che operano profitti illeciti e prestiti che schiacciano nella povertà più assoluta, i più deboli. Sono indignato. Io non divorzio con la verità. Non posso divorziare con la coscienza. No, non posso divorziare con Dio. Non mi separo dalla fede di Colui che per primo, dall’eternità, mi ha amato. Non mi separo dal perdono che è l’unica perla che fa nuove tutte le cose. No, non mi separo dalle beatitudini che mi fanno ricco di ogni virtù. Sono indignato nel vedere migliaia di giovani che perdono la loro giovinezza nelle piazze stracolme di bottiglie di birra buttate a terra. Sono indignato nel vedere nelle università pascolare asini e somari sulle cattedre della sapienza. Sono indignato nel constatare il deposito degli uomini messi nella precarietà dell’esistenza di vita. Sono indignato per l’ideare opere colossali mentre nei paesi mancano le strade, nelle città esiste una rete fognaria soltanto, dove scorrono acque reflue e piovane, con il risultato di scappare dalle metropoli per la puzza e per l’assalto di grossi topi, persino i gatti ora scappano dinanzi a tanto ardire. Sono indignato come crollano palazzi della Pompei di Cesare e come crollano palazzine a Palermo e cattedrale a Noto. Sono indignato come si ammazzano ciclisti che di domenica fanno le loro corse di serena compagnia. Sono indignato dell’omicidio di Sarah e soprattutto della stupida e grottesca telenovela che i mass media operano da mesi. Sono indignato come si possa fare informazione sul dolore degli altri. Sono indignato della privacy spiaccicata su tutti i giornali. Non posso divorziare dalla parola. Non posso divorziare dall’indignazione. Sono indignato della morte di Matteo con la falsità di un proiettile vagante. Sono indignato della mia paura di donare totalmente la mia vita per il vangelo. Sono tuttavia orgoglioso di Gesù Cristo che continuamente mi solleva dalla mia indignazione. Solo Lui è la mia forza. Solo Lui è la pagina più chiara che io possa leggere e viverla senza indignazione. Paolo Turturro
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La relazione del tentatore Somministra vitamine d’orgoglio il tentatore nelle sue imprevedibili relazioni perché l’io cresca, la ragione scemi, la guerra divampi, la cenere regni sovrana. Esperto nelle leggi della comunicazione il seduttore orecchia quale spia per riferire con trionfale melodia, onde l’orgoglioso amico cada nelle sue vellutate braccia spinose. Tutto relativizza il falsario, tutto fa credere valido solo se soddisfa l’appetito di novità. È poliedrica la relazione dell’ammaliatore, ma unica la meta: come leone ruggente va in giro cercando chi divorare (1Pt, 5,8). Non illuderti, suggerisce all’intraprendente, il tempo passa e tutto cancella. Non lascia intravvedere, lo scellerato, la catena degli eventi che continua ad allungarsi. L’adescatore sa ben approfittare della fiducia concessagli e, con voce suadente, richiama fatti veri o presunti insinuando interpretazioni che suonano marce trionfali al borioso amico. Non per mera riconoscenza riferisce. Se ne guarda bene! Vuol solo il suo scettro, onde spadroneggiare a piacimento. Tu sei dio, chi ti si può opporre? Realizza la tua capacità di potenza! Sollecitando fierezza, arte in cui non ha rivali, conduce chi l’ascolta al disastroso volo d’Icaro. Pur memore che tutti siamo limitati, fatti per assemblare l’eccezionale microcosmo umano perché nessuno è pezzo di ricambio. Non disdegna far credere che tutto sia inutile l’interessato al proprio tornaconto. ‘La piramide dei valori non è stata forse rottamata dalle performance? La morale non rivela essere una pesante ‘cappa’ soffocante l’io? Abilmente occulta il bisogno almeno di mete comuni nel vivere sociale. Odia la verità e tutte le sue forme il consigliere fraudolento. Preferisce i punti di riferimento combinati a seconda delle circostanze, gli interessi delle ondeggianti maggioranze che non sono criterio di verità, ma ben nascondono inconfessabili interessi, come il pescatore l’amo nell’esca. Nei reality show addita il grande moralista del tutto ti è permesso e annuncia trionfante: Dio è morto. Tu sei il fondamento della verità. Allo scettico dinanzi a tale rivelazione sussurra: tuoi catarifrangenti sono le statistiche e l’ audience, queste sì che ti rendono al passo con i tempi, alla page. Ahimè! Se fosse vero, ogni giorno dovremmo (ri)orientare il timone della vita. Le sue mosse sono infinite. Ha introdotto, con parlare forgiato, un tipo di valutazione altamente allettante. Scegli il politicamente corretto, consiglia. Espressione eufemistica che rifugge dal ‘moralmente corretto’, definito inaccettabile sinonimo di ‘arretratezza’. Le poliedriche sfaccettature delle relazioni del seduttore non disdegnano di sollecitare il tornaconto individuale, ma anche dell’azienda: approccio profondamente inumano, che attenta alla dignità umana, nemico mortale del dialogo tra pari, veleno per la speranza, esequie d’ogni progetto. Non l’arbitrio individuale crea la verità ma la verità rende l’uomo affidabile. Svuotare la relazione del suo fine originario, crescere insieme, è rendere la persona asta per saltare al potere e regnare su cadaveri. Quanto lontana dall’esortazione petrina: “Voi, invece, siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato, perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa. Carissimi, io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai cattivi desideri della carne, che fanno guerra all'anima. Tenete una condotta esemplare fra i pagani perché, mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere, diano gloria a Dio nel giorno della sua visita” (1Pt, 2,9.11-12). Instaura relazioni ambigue l’ambizioso mezza-cartuccia che, cosciente dei suoi limiti, semina zizzania per lambire la vetta. Quando spegniamo dall’orizzonte della vita la luce certa della verità, lo stesso parlare di verità è considerato blasfemo. La relazione autentica presuppone l’asse d’equilibrio tra ambizione e verità. Il giusto ambizioso (e tutti dobbiamo esserlo) accetta i duroni e le ferite dell’ascesa. La verità vera affratella, spalanca i cuori, impara ad essere, a conoscere, a fare, a vivere insieme. Don Benedetto Fiorentino
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DISSERTAZIONE
Tale è la nostra civiltà che è capace di uccidere ancora cristiani. Tale è la nostra civiltà da credere ancora alla micidiale sedia elettrica. Tale è la nostra civiltà da sfruttare ancora le colonie portoghesi, francesi, inglesi, tedesche e altri con il debito pubblico a causa del colonialismo economico. Tale è la nostra civiltà da comprare voti elettorali per conflitto d’interessi. Tale è la nostra civiltà da creare una serie di telenovela sull’omicidio di Sarah. Nessuno pare possa sfuggire da tale civiltà. Fuggire per molti è isolarsi. Fuggire per molti è la paura di essere sconfitto nella bolgia del nulla o degli interessi. Non c’è nessun profeta oggi a liberarci dalla morte della coscienza? Eppure basti un po’ di pulizia e di ordine perché la luce della civiltà ritorni. Anche Dio è assente in questa morte. Siamo ormai uomini senza labbra. Siamo ormai volti senza occhi. Siamo ormai mani senza carezze. Siamo ormai corpo senza gambe. Siamo ormai polmoni senza cuore. Siamo ormai animali senz’anima. Ultimi a credere saranno i preti. Ultimi a credere saranno gli angeli. Ultimi a credere saranno i santi in questo mondo di denaro, in questo mondo di fattucchiere, in questo mondo morto di fede. Dissertazioni sul viaggio delle ipotesi. Non reputo che siano le nuvole a far piovere dall’alto la giustizia. Piuttosto siano le lacrime degli innocenti a far piovere il giusto. Io sono il certificato di garanzia dei manifesti della giustizia. Il cielo ha sempre rispettato la terra tanto da renderla nuova ogni stagione, ogni anno. Le dinamiche della luce creano nuove dimensioni per guidare le città a misura d’uomo. Dimensioni più pulite. Dimensioni più giuste. Dimensioni più serene. Mangio il pane impastato di lacrime. Non scrivo ciò che non nasce dal cuore. A molti il cervello si apre e si inceppa a frustate di denaro. Leggono pagine pagate. Scrivono pagine pagate. Non conoscono le pagine della loro libertà. La nostalgia dell’infanzia mi crea nel forno della mente ricordi sempre più belli e innocenti. L’imbroglio degli inganni ti fanno cadere la dignità e ti trovi nudo di verità. Molti preferiscono essere nudi di carne senza sapere che sono nudi di spirito. Il sorriso è la porta della luce. L’anima è il volto dell’eterno. State certi finisce la stoltezza. La mente è fatta per la stagione della sapienza. Mangio biscotti di cereali che impastati di scaglie di mandorle sono il lievito della pasta della bontà. Preferisco le cime di rape con le fave alle pappine cremose e untuose francesi. Il pasto se non è gustoso salato che cibo è? Nella valle del silenzio dorme il cimitero. Io volentieri abito le meditazioni. La luce ti prende sempre più quando la intravedi e ti sfugge nel fondo di un tunnel. Stendo la musica jazz sulle mie labbra e la carne si riempie di brividi. Lo scrigno della volontà mi argina le cattiverie che si frantumano nel niente. Nella mia mente non c’è il camposanto delle idee. Le leggi non sono altro che cimiteri. Qui è inutile seppellire anche la stoltezza. IL lievito della pazienza è il figlio inaspettato che ti nasce dentro. La sterilità è il frutto dell’indifferenza. L’inerzia non galoppa la vita. Non credo che l’economia sia il motore del mondo. Il cielo e la terra vanno avanti senza soldi. Non sapete che lo spirito è l’alito della luce? Non sapete che lo spirito è l’alito di Dio dentro la nostra vita? Non sapete che lo spirito è capace di fulminare ogni tumore? Potesse folgorarmi il respiro! L’unico difetto che ha, è sterile nel momento in cui non gli credi. La luce è l’alimento dello spirito. Non alita oscurità nelle notte. Noi che abitiamo il buio, lo segreghiamo nella non esistenza. Dov’è lo spirito se non nel nulla! La mia amica è l’eternità. A lei confido il tempo, ci abbracciamo nei giorni e in ogni raggio di luce facciamo l’amore. I nostri figli sono la lealtà, la mitezza e la bontà. Beato chi beve le lacrime del dolore. Non ha demenza la sofferenza. Nella nostra famiglia nessuno è stolto. Nella nostra casa si cuoce il pane del cielo. Persino il pan delle stelle è geloso del profumo che emana la terra. La casa dei nostri nonni è stracolma di tenerezze. Che serenata la nostra mente! E’ l’eden cacciato dalla terra. Qui a Taranto il cielo e l’aria sanno di gas. La musica non riesce ad attraversare l’etere. Abbiamo ingabbiato le note nel pentagramma delle urla di catrame. Le caverne dei ritmi creano boati di paure. I simpson ne sono un esempio. In questo concerto più urli falsità e più divieni verità. Non c’è una volta che il display degli aeroporti segni l’ora esatta. L’uomo abita nel labirinto delle note di ferro. Il contadino si incurva ancora di stanchezza a piantare le cicorie. Ogni dono è un sudore di sacrificio. E’ difficile spiegare certe giornate amare. Lasciamo stare. Dimenticare è un po’ riposare. Ho il coraggio di vestirmi normale. Mi basta la primavera della parola per essere sempre nuovo. Il ritmo del cuore è la sinfonia più antica, più umana che io abbia potuto mai ascoltare. La musica è lo spazio dove danza l’infinito. Non ho soffitti nella mente. Il mio amico è così ricco che si conta i centesimi in tasca. Ne risulta che si odia da se stesso. Mi cadono a terra le convinzioni che hanno sorretto tante generazioni. Non ultimo che il cielo è chiuso da non essere abitato. Ti dispiace, o vecchio di mente, se la musica ti porta via in un paese nuovo e fantastico? Dove molti nell’universo abitano! Non c’è limite alla magia della meraviglia. Non è difficile amare il cielo che ti regala doni custoditi per te dall’eternità. Smetto di pensare, mi sto bruciando e poi l’arcobaleno delle idee mi sta catapultando in un’oasi che neanch’io so comprendere a capire.
Paolo Turturro
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UNA DOLCE NOTTE
Non credo che i quanti delle nostre esperienze ci rivelino l’essenziale. L’essenziale abita nella nostra coscienza di non mollare alle cattiverie, al tempo, al dubbio come risposta e non certamente come ricerca. Il tempo è la pagina che Dio ci dona per scrivergli. Io gli ho scritto i miei giorni di gioia e di lacrime. Gli ho scritto l’arte dello spirito, l’angoscia di non trovare ancora il suo volto, la passione di un amore povero e non completo. Gli ho scritto che lo amo così come sono, con tutti i miei giorni, con tutto il mio presente, con tutti i miei difetti, con tutto il mio dolore, con tutta la mia speranza che solo sul suo petto io possa finalmente riposare. Sfoglio le pagine dei miei anni, dei miei giorni, le trovo tutte bianche grazie a Lui, anche se, per colpa solo mia, a volte aggrinzite o ingiallite e bagnate tuttavia dalle sue stesse lacrime. Sto chiudendo il libro della mia vita annotando all’ultimo rigo del mio respiro:”Io ti amo”. Ho imparato a tacere la ribellione. Ho imparato a sognare. Ho imparato a vedere il mio spirito. Ho imparato a creare. Ho imparato la pazienza. Ho imparato il perdono. Ho imparato a leggere il cielo. Ho imparato a contare l’amore. Ho imparato a fare l’amore con lo spirito. Ho imparato ad aprire il giorno che non tramonta. Ho appreso a tacere i miei capricci. Ho imposto alla mia natura d’arte il silenzio ai miei desideri, il silenzio che non tace. Ho troncato con la scure della mia volontà i miei sogni di evasione. Ho imposto il silenzio alla mia natura troppo impaziente di gridare, di giudicare, di criticare, di parlare. Non credo che i quanti dei nostri eventi avvengono per caso. Ciò che si scrive con le lacrime non muore. Ho scritto con il sangue le mie profezie. Sono un profeta senza padre, senza madre, senza giorni che finiscono. Ho scritto con il sigillo dell’eucaristia ogni mio giorno andato non nel nulla ma nel respiro dell’eterno. Non sono lontano dalle sue vene. Sto sempre dinanzi al suo ciborio. Ora vivo una dolce notte. Sto sempre dinanzi a me stesso. Sono sentinella della mia stessa coscienza. Non ho assistito, qui nel tempo, alla deposizione della coscienza. Non depongo le speranze della gente negli scantinati della disperazione o nel tunnel del dimenticatoio. Il cuore a volte è un turibolo di incenso e di inni di speranza. E’ una dolce notte vivere nel cuore. Sono nell’inginocchiatoio del mio dolore. A volte il cuore è un cielo aperto, senza confini, senza barriere, senza compromessi, dove il concilio vaticano II ha incarnato una chiesa nuova. La Chiesa del logos. E tra il Logos e il logos spira il dia - logos. La chiesa dell’assemblea del Logos. Non soltanto un locus, ma l’assemblea dove laici, papa, vescovi, preti, credenti e non credenti in ricerca sono carismi dell’unica assemblea del Dio vivente. A volte il cuore è un calice traboccante di doni dello spirito. Le mie arterie sono continuamente uniti al cuore trafitto di Cristo, per travasarmi il suo sostegno, la sua forza, la sua energia che viene dall’alto del suo amore. A volte il cuore è un collasso e non so uscire dalle sue spire. Non voglio campare un istante senza questo olocausto. Vivo secoli di martiri. E’ una dolce notte vivere nel suo cuore. Ora posso proclamare ai poveri, ai deboli le nuove vie della sua salvezza. “Quanto più grande è la miseria degli uomini, tanto maggior diritto hanno alla mia misericordia, perché desidero salvarli tutti”. Non scende nessuno nel fallimento. Non scendono i poveri nell’avvilimento. Non scende nessuno nel nulla. Cerco senza posa, in questa notte del cuore, il tuo volto, o Dio. Qui, in questa dolce notte del cuore, non sono più turbato. Ogni tempesta mi passa sopra come una dolce ebbrezza da gustare. Nessuno può inaridire il cuore. Nessuno può inaridire la sorgente dello spirito. Disprezzo, in questa dolce notte, le calunnie e non chi per non sapere o per debolezza le ha proclamate nel segreto delle cattiverie. In questa dolce notte il cuore è un paradiso e io faccio l’amore con Dio. In questa dolce notte il cuore è vergine per essere primavera dello spirito. In questa dolce notte il cuore sa di amare e non esaurisce le sue energie. In questa dolce notte il cuore è la stagione dell’eterno e io non voglio svegliarmi dal suo collasso, dalla sua notte. In questa dolce notte il cuore rischia di palpitare con lo stesso respiro di Dio. In questa dolce notte nessuno sa che esisti, anzi tutti sanno che sei un fallito. Io da questa dolce notte non voglio uscire, qui che incontro senza sapere ogni respiro, ogni sogno della mia vita, qui ogni persona che ho incontrato nel tempo, qui ogni immagine che ho contemplato sulla terra, qui ogni musica che ho sognato, qui ogni colore che ho dipinto, qui ogni verso che ho musicato. Vi svelo il segreto del cuore: la dolce notte è il sapere di essere amato da Dio. Dio mi ama e mi basta, anche se il dolore mi fa zoppicare e cadere ancora a mordere sassi intrisi solo di sangue. E’ una dolce notte vivere nel tuo cuore, o Dio.
Paolo Turturro
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Esci dal sospetto.
Non raziocinio a centimetri il dolore. Io lo offro a Colui che lo fiorisce in pagine di amore e di sapienza. Il tempo è fatto di sassi. La spada degli occhi è la luce che frantuma gli inganni. Vesto la terra di aquiloni. Sono il cacciatore della luce. Oggi il cielo è distratto, è abitato dai sogni della gente. Alla terra non basta la fede. Continuiamo a urlare e nessuno sa cosa. Continuiamo ad aprire giorni morti fin dall’aurora dello smeraldo e del mandorlo fiorito. Giorni senza fede. Giorni senza luce. Giorni senza eternità. Tutti andiamo a vivere nel feroce sospetto l’uno dell’altro. Io esco. Io uccido questi giorni. Io uccido il sospetto. Sappiate tutti, io uccido il dubitare della gente e della mente. Tu sospetti e distruggi tuo marito. Tu sospetti e annienti tua moglie. Tu sospetti e frantumi tutto ciò che con fatica tu stesso hai costruito. Tu sospetti e distruggi te stesso. Tu sospetti e distruggi la chiesa. Esci dal sospetto. Io apro le pagine dell’infanzia. Le pagine della coscienza ancora invincibilmente immacolate. Io uccido la sfiducia in me stesso e persino nella morte. Le pagine della vita non sono illusioni. Illusione è la morte che pensa di finirti sotto terra quando essa stessa nelle tenebre del nulla si annienta. Io non mi perdo nella fede. In me avviene l’eterno. Non avviene per caso o per errore. Non avviene nell’oscura mente di qualcuno che non può credere all’invisibile perché è corto di mente, caduto nel fango del sospetto. Io uccido il sospetto e apro le pagine della fiducia nell’innocenza della vita. La fiducia che il cielo abita nella tua coscienza. La fiducia che gli occhi non ti tradiscono mai e respirano il bene. La fiducia che non muore il cuore. La fiducia che non si spegne dentro di te la coscienza anche quando abiti il peccato. Io uccido il sospetto. Io non confesso di esistere. Io respiro l’esistenza. Qualcuno mi dica adagio adagio che esisto davvero. Qualcuno mi dica che nessuno precipita in abissi sconosciuti e in abissi di bidonville. Qualcuno mi dica che non bastano gli occhi per contemplare il cielo dello spirito. Qualcuno mi dica che non basta una menzogna per farti perdere la fede in te stesso o negli altri. Qualcuno mi dica che perdonare è la vertigine più alta di ogni virtù. Qualcuno mi dica che lo spirito fa più amore della carne. Qualcuno mi dica che il sapere amare non è solo del cielo. Qualcuno mi dica che non si rovescia il mare per paura in una buca e non frana la bontà della fiducia negli altri nel fango del disprezzo. Qualcuno mi dica che pensare sia vero, come il respiro, come il palpitare, come il sognare, come l’operare, come il vivere con le ali. Pensare cosa però? Ecco ve lo dico ancora. Qualcuno mi dica che non esiste una guerra giusta. Qualcuno mi dica che Matteo è stato ucciso in un conflitto a fuoco e non per errore di un proiettile vagante. Qualcuno mi dica che Cristo è un fallito sulla croce che salva e dona a tutta l’umanità la sua divinità. Qualcuno mi dica se può comprare l’immortalità, caso mai con l’assicurazione della banca dello IOR. Qualcuno mi dica se Dio può ancora amare, se Dio può ancora creare, se Dio può ancora fare nuove tutte le cose. Quel giorno neppure Dio si accorgerà che viviamo senza pelle, che viviamo l’uno per l’altro. Quel giorno Dio non ci troverà nascosti dietro un cespuglio. Quel giorno Dio sarà felice della sua e della nostra esistenza. Quel giorno ognuno saprà che viviamo non più di sangue ma di linfa sua divina. Quel giorno neppure Dio si stupirà di aver amato tutti nell’impossibile di un eden sconfitto. Di aver amato senza pretese. Di aver amato senza condizioni. Di aver amato senza contraccambio. Di aver amato e basta. Neppure Dio saprà e solo tu stesso con sgomento del cielo lo rivelerai. Si, lo comunicherai a Colui che è il Vivente. A Colui che non é mai caduto nella sfiducia nella sua creatura. A Colui che non è mai caduto nel sospetto. A Colui che non conosce il giorno dell’Errore. Quel giorno è fatto di ogni uomo. Quel giorno è fatto di tutti noi. Quel giorno si chiamerà Giorno. Giorno che non tramonta. Giorno di coscienza. Giorno di Spirito. Giorno del nuovo Eden, dove l’uomo stesso ha vissuto nella trama del sospetto e che solo un Figlio d’Uomo, con l’assurdo della sconfitta di una croce, poteva farci uscire dalle gramaglie dell’eden del sospetto, dell’eden del fallimento. Io sono morto al sospetto. Io sono uscito. Non ricordo nulla di te, o sospetto. Sono nato dalla fiducia. Io sono uscito. Ora tocca a te.
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UNA PASSEGGIATA CON LO SPIRITO
Io cammino con lo spirito per non sbagliare strada. Io sono il cuore che non palpitate. Io sono la parola che non sentite. Io sono quell’uomo che tutti rigettano e i più convengono che non esisto. Io sono quel profeta che nessuno vuole ascoltare e che tutti cacciano nell’esilio. Io abito per sempre nell’esilio dello spirito. Io sono quel libro che tutti leggono non per condividere, non per intuire ma solo per rubare idee non capite. Io sono quel tesoro che nessuno vuole aprire perché troppo pericoloso sapere. Io sono quella mente che intuisce dinanzi al buio che ottenebra anche il cielo. Sbaglio sempre a contare il denaro. Sono felice di scendere a Palermo. Lì mi attendono tante vecchiette. Siamo pochi nella s. messa e ci troviamo bene. Cantiamo un po’ tutti e a volte grido:” A Roma c’è la cappella Sistina, qui da noi la cappella Sistona”. Le vecchiette sono felici del mio rimprovero e come segno di rispetto alzano di più la voce stonando come delle campane fesse. Siamo una bella comunità. Faccio fatica a camminare. Spesso mi vengono degli svenimenti. La testa mi gira e mi sento dentro vuoto. Sarà la fame. Quando mi accorgo è troppo tardi. Cado a terra e tutti mi soccorrono. Non si preoccupano più di tanto perché subito mi riprendo. Sono quella mala erba che non muore mai. Tutti capiscono che sono davvero un poveretto. Mi compatiscono e non si danno pace perché tutto questo avviene solo sull’altare. Alcuni dicono che svengo per amore di Cristo. Altri dicono che cado in estasi per le troppo distrazioni. Altri poi, i più ragguardevoli, mi consigliano una bella visita medica con una bella gastroscopia e una attenta ecografia al cuore. Ma, sarà. Così è la vita a una certa età. Come al solito mi passa tutto nel dimenticatoio. Amo l’arte e mi appassiono a scendere nelle cripte incontaminate e inquinate di muffe. Fuori della mia chiesa c’è un via vai di turisti. Passano gruppi di inglesi, di francesi, di tedeschi, un po’ di tutto il mondo. E con un italiano stretto mi chiedono la chiesa del Gesù. Scambiano la Madonna di Lourdes con quella di casa professa. Mi diverto ad accoglierli ma non sempre faccio divertire. Scattano foto a tutti gli angoli, i più battuti sono quelli delle discariche dei cassonetti dell’immondizia. La più battuta tuttavia è la lapide di fronte alla chiesa, scritta: in arabo, in ebraico e in italiano: piazza Ponticello. Una volta c’era il fiume Kemonia per cui il ponte era necessario per attraversarlo. Ora invece lo hanno seppellito e tutti passano fotografando l’evento che non c’è. Se potesse quella lapide pretendere i suoi diritti sarebbe straricca e miliardaria per le tante foto su di lei scattate al giorno, specie il martedì oltre cinquemila turisti dalla crociera. I palermitani non sanno sfruttare le uova d’oro del loro pollaio. Sarebbero dei nababbi solo con il turismo dell’arte dei secoli che hanno. Tutti lasciano palazzi affrescati dentro e cadenti fuori. Trovi persino intonaci di volte affrescate nei cassonetti dell’immondizia. A volte trovi tavole del soffitto lavorate con il tornio a fuoco, lì, buttate per terra sotto i cassonetti dell’immondizia che non si svuotano mai. Se fai un giro veloce per il centro storico trovi le chiese di mattina chiuse e di pomeriggio vuote. Gli altari delle navate sono pieni di umidità. Si scrostano putti e statue del Serpotta. Abbandonate sono le sculture del Durante. Palermo è davvero una cipolla. Più la sfogli e più ti viene il crepacuore. Ad ogni sfoglia ti viene da lacrimare. Mi fermo sotto l’arco del vicolo Viola. Non mi interessa il film 7 e l’8. Sono stupito nel vedere il restauro del palazzo. C’è una nicchia sotto l’arco, si dice che persino Pietro Novelli abbia affrescato dentro la storia del bambino caduto dal Ponticello nel fiume Kemonia. Una storia vissuta dal rettore mons. Francesco Russo nel 1543. Ci tiene a precisare nelle sue memorie che essendo un rettore di filosofia non poteva per suo malgrado inventare una favola sul ponticello. La mia, diceva, è da leggere e non una leggenda. Pioveva a dirotto quel pomeriggio di maggio del 1543. Diluviava vento e tempesta d’acqua. Non meravigliatevi capita spesso anche oggi. Diluviava forte e un bambino correva sul ponticello cadendo nel torrente. Il prelato gridava sul momento nel chiedere aiuto e soccorso. Niente. Nulla da fare. Scendendo di corsa dal ponticello inforcò il vicolo Viola e con sua meraviglia vide il bambino in mano a un angelo. Salvo. Chiamò allora il giovane Pietro Novelli e fece affrescare l’evento. Non c’è nulla nella nicchia, forse sotto gli strati dei secoli d’intonaci si potrebbe trovare la sorpresa dell’affresco del giovane pittore monrealese. Tutti ci divertiamo nell’aggiungere colori, nostre parole alle avventure dei secoli. Non tutti però sono d’accordo sul vero ponticello. C’è chi afferma che il ponticello era di legno da impostare all’occasione di ogni diluvio. Nulla di tanto errato. Vieni in sacrestia e vedi il ponticello dipinto in cotto sull’arco della navata dell’oratorio dei musici del 1548. Veniamo a noi, ai giorni d’oggi. Quante scritte sui muri. Mi rammentano Alda Merini. Le pareti della sua camera erano piene di numeri telefonici e di cellulari con scritte di brevi intuizioni. Sono dinanzi alla nicchia. C’è una stampa del sacro cuore. Forse protegge l’affresco di sua madre che salva il bambino caduto nel Kemonia. Sono sempre gli angeli a salvarci. E qui sotto l’arco sento un coro di angeli non del passato. Mi sfreccia una motoretta, si, dietro le mie spalle. Il vicolo è stretto e i giovani si inventano corse a stancare paure ai passanti. C’è tanta puzza di orine qui a terra. Poveri angeli e Pietro Novelli. La via è un vicolo cieco. Palermo è tutta un vicolo dei Beati Pauli. Nel vicolo delle sedie ho trovato due sedie impagliate. Scendo per via dei candelai. Gli odori sono orientali: fritti di cipolle, di aglio, di grasso e di peperoncini. Gente obesa inforca panini con la milza fin dal mattino. Volti paonazzi di birra e di altro. Pance che penzolano dentro canottiere bisunte di grasso. Vicoli stretti da bancarelle zeppe di roba. Ah! La roba! Mutande, cordelle, reggi seni, cavoli, patate, indivia, melanzane, calze, bambole, candele, profumi, incensi, candelieri rubati in chiesa, quadri di via crucis. C’è di tutto sulle bancarelle dei vicoli. Trovi tutto sulle bancarelle di Ballarò e del Capo. E se non riesci a trovare qualcosa immediatamente qualcuno con un fischio prolungato te lo fa arrivare. Tutto ciò una volta avveniva alla Vucciria. Ora non più. Laggiù è rimasta solo la Loggia della pizzeria. Non ci abituiamo all’ordine, se poi quello è malsano, molti si trovano meglio. Scendo per via dei Giudici. Ho superato la Martorana con l’architettura a cielo aperto. Ho superato santa Maria dei Greci, ora tutta incappucciata di restauro. Palermo è un cantiere aperto, è la nuova fabbrica di san Pietro. Le opere di restauro qui non finiscono mai perché non iniziano se non nei sogni di tutti noi. Quando lo stomaco è vuoto, anche l’arte è da strappare per sopravvivere. Tuttavia è orribile pensare che la gente non mangia cultura. Qui, a Palermo, la cultura sta per finire. Allora sarà la fine della zagara, del melograno, di Lojacono, delle tonnare, del mare e dei suoi tramonti, di Scopello, di Segesta, di Selinunte, di Siracusa, di Tindari con la poesia sul vento di Quasimodo, di Taormina, di Cefalù, di Erice, di Mothia, di Mazara del Vallo, di Noto, di Caltagirone, di Ragusa, di Iblea, della cappella paladina, di piazza Armerina, di Antonello da Messina con la sua croce – risurrezione, dei grechi, dei punici e di tutte le monarchie che hanno succhiato il sangue a questa amata terra, della roba del gattopardo, delle sfide di Federico II che ancora oggi non finisce di stupire il mondo.
Paolo Turturro
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Io sono l’architetto della luce. Il mio corpo è tempestato di dolori imperanti in tutte le mie ossa. Ciò che temevo è sopraggiunto su di me. Venisse la morte a consolarmi di riposo. Mi hanno buttato nel deposito più oscuro come una veste sconcia. Potesse questo giorno che si apre essere risposta all’attesa. Passo il tempo in attesa della soluzione. Sono divenuto carbone che neanche il fuoco più ardente mi accende. Il segreto delle intuizioni è nel dolore che setaccia continuamente la mente dalla feccia dei pensieri. Non vedo nessun confine nel cielo. Ho spezzato le tenebre della carne. Nelle fibre del mio corpo vivono tutte le dimensioni dei secoli. E’ tanto il magma dentro me che rivoluziono in un istante ciò che i secoli hanno intuito. Mi bolle dentro una fornace che mi catapulta nell’otre e rimango tuttavia stabile. Ho diffidenza dei preconcetti. Mi fanno obbrobrio quelli pagati. Ho diffidenza di ciò che è stabilito sacro per ammutolire i deboli. In fondo io sono soltanto un chicco di pensiero che germoglierà solo sulle rocce di altri universi. Intuire, vivere, amare è un effluvio tonificante. Mi rinfrescano, mi tonificano e mi rigenerano. Intuisco ciò che è rifiutato perché fa paura. Ho vinto la paura corazzandomi della sua stessa potenza. Non raggiro gli ostacoli, li converto in me in energia positiva. E’ tardi a intuire, per questo ho deciso di stare sveglio tutte le notti a scrivere. La nostra vita è solo un’azione a scegliere. Io sono certo che la libertà non è un’illusione, bandita sugli esclusi. Il corpo è la sede della libertà di respirare ciò che il creato ti dona. La libertà è il frutto di sapere. Io scelgo la libertà, senza sarei lo schiavo del tempo, lo schiavo dei sensi, lo schiavo di ciò che i prepotenti ti buttano in faccia. Io sono la luce che liberamente respira. E’ certo che dentro me, Signore, c’è la tua impronta. C’è ben altro. Io sento vivo il tuo respiro nelle mie ossa, nel mio ventre, nella mia mente. Non ragiono con i sensi. Non ragiono con la carne. Non ragiono con i nervi. Non ragiono con le passioni. Non ragiono spinto solo dagli impulsi. Io ragiono con la mente del tuo spirito. Io ragiono con il pensare. L’uomo nasce e cresce stanco, finché non riceve il primo bacio che lo accende di vita e diviene la torce calda e luminosa della speranza. Io non posso fare a meno d’essere il guerriero della luce. Sciabolo cattiverie che scendono tutte nel baratro della sabbia. Cerco in me la spada della luce. Mi vulcanizzerà il cuore. La cerco nelle rocce. La cerco nel calice di ogni fiore. La cerco sui monti innevati. La cerco nelle carezze di ogni madre. La cerco nel sorriso di ogni bimbo. La cerco nelle aurore che l’universo mi genera. La cerco. La cerco nelle sorgenti a cascate impetuose. La cerco nelle vie del cielo e nelle vie delle bufere. La cerco nel volto della gente. La cerco nell’innocenza dei cuori. Dove sei, o spada di luce? Dove sei, spada del cuore, tu che uccidi la morte? Dove sei, anima della mia anima? Dove sei, tu che mi consacrerai all’eterno? Dove sei? Sono pronto ad affrontare le sette prove, pur di trovarti anche nella morte. Dove sei, tu che nasci nella parto della morte. Tu che mi hai ferito con la prova più assurda. Io non posso fare a meno di te. Io che ti ho inventato nel buio più fitto del dolore. Non sono stanco dei sogni che mi precedono puntualmente le intuizioni. Sono caduto nella notte e nessuno si è accorto che ho generato la luce del conforto. Soltanto io e te, sappiamo il percorso che la creazione ha generato nei secoli di anni luce. Soltanto io e te, sappiamo che la religione non può conquistare il mondo. Soltanto io e te, sappiamo che il potere è sclerotico e che si incenerisce più della morte. La cenere non si accende. Persino il carbone più nero si accende e riscalda. Soltanto io e te, sappiamo che l’uomo e la donna sono appena un petalo di carne. Soltanto io e te, sappiamo che la carne non muore nell’amore. Soltanto io e te, sappiamo come brilla il deserto della nostra fede. Soltanto io e te, sappiamo che il peccato ferisce solo le tenebre. Soltanto io e te, sappiamo che l’uno è il talismano dell’altro. Soltanto io e te, sappiamo che il sangue non è peccato. Soltanto io e te, sappiamo che l’uno riposa nel corpo dell’altro. Soltanto io te, sappiamo di vedere nel buio più denso dell’oblio. Di vedere nel ventre della terra. Di contemplare nello spirito di ogni persona. Soltanto io e te, sappiamo che l’agonia è il respiro dell’eterno. Soltanto io e te, sappiamo che tu e io siamo figli prediletti di Dio. Ecco ti ho trovato, o spada dell’amore. Ecco ti ho trovato, o spada invisibile di luce. Altro non sei che Dio dentro di me. Altro non sei che Dio, alito di tutto il creato che ci infiamma di luce che non tramonta. Soltanto io e te, sappiamo di vivere in eterno, ineffabili, inseparabili. Carne della stessa carne. Luce della stessa luce. Respiro dello stesso respiro. Io e te, coniugati nell’amore. Io e te, coniugati a creare l’universo dove l’uomo non può più peccare. Io e te, coniugati a generare i sogni che Tu, o Dio, ha seminato dentro di noi, per far nascere lo stupore e la meraviglia di ogni creatura che fa l’amore con la terra. Io e te e siamo l’alfabeto del nuovo universo che nessuno ancora vede. Io e te a scaldare l’anima con i valori della sinfonia della luce. Io e te. Buon Natale, luce del cuore, luce che ci infiamma di Dio.
Paolo Turturro
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Il paese è sotto la neve. Le strade sono bloccate. Anche il cuore è fermo in questa notte di Capodanno. E’ la casa dei cervi e Mario non si vuole decidere a montare le slitte per scendere a valle a comprare il pane e a donare i regali agli amici suoi poveri. Le case sono isolate e il silenzio canta la neve candida. Solo i camosci saltellano sui muri fatti di bambagia bianca. I camini delle case accaldano i tetti e gli aironi si accovacciano sulle tegole per riscaldarsi nei nidi. Due scoiattoli si rincorrono sulle orme dei lupi. Dentro una casa una madre piange l’attesa del figlio fuggito nella disperazione. Mario non sa comprendere il tacere del cielo. A Natale, pensava, Dio scende in mezzo agli uomini e si fa conoscere e parla. Quante attese della sua venuta. Quanti sogni del suo passaggio. Quante speranze della sua visita. C’è sempre un uomo buono che visita la nostra casa ma in questa notte di neve ancora nessuno. Stanotte anche i buoni tacciono. Quando i buoni si ritirano, i malvagi avanzano. La neve scende. Il cielo vuole rivestire d’innocenza la terra. Non puoi impedire al cielo di vestirci di pace. C’è chi impedisce l’innocenza. C’è chi vuole impedirci di amare i piccoli. Non si può impedire l’innocenza. I fiocchi di neve cadono e prevengono le tenebre. Il gelo del dolore è solo un passeggero. Scende la luce e le tenebre svaniscono dalle grotte della terra. Chi può impedire l’innocenza di scendere sulla terra e di abitare nella povertà e nell’umiltà? Nel cuore c’è spazio per Dio che nasce povero, umile, indifeso, nudo sulla paglia che sa di stalla. Negli occhi c’è spazio per Dio, contemplarlo nel suo immenso amore. Nelle mani c’è spazio per Dio, spezzarlo e donarlo a chi non lo conosce. Il dubbio chiude la mente e l’anima. Mario pulisce i vetri delle finestre, appannati di calore di fiato umano. Sono in tanti nella sua casa in questa notte di Capodanno. Ci sono tutti, amici e parenti. Ci sono tutti a cantare la veglia del silenzio e dell’affetto. Ci sono tutti a sperare l’arrivo di Dio. Ecco la notte s’illumina non solo di neve candida. Si illumina di calore e di certezza. La terra è vuota senza Dio. La Trinità vuole vivere a tal punto la comunione con noi da formare un cuore solo la nostra stessa famiglia umana. Mario accende una candela e la pone sul camino. E’ la stella polare della sua casa. Ogni casa è una chiesa. Ogni stella è un segno luminoso della presenza dello Spirito Santo. Dio sa vedere nel cuore di ogni uomo. Ora nasce nella gioia. Ora nasce nell’affetto. Ora nasce nel canto di tutti che attorno al focolare cantano la nascita di Dio - Bambino. Cantano a squarcia gola. Tutti vogliono vedere Dio. Tutti si riempiono il cuore di letizia. Tutti vedono Dio povero. Dio umile. Dio debole per saziare la terra di grazia dell’eternità. Alla finestra picchia un airone. La neve imbianca i tetti della terra e il cielo si accasa per sempre nella tenda di Mario. Tutti si abbracciano. All’improvviso entra quella madre del pianto. Non ha in mano che l’incertezza e l’insicurezza e le lacrime. Le mani degli ospiti sono un forte abbraccio. La madre non è sola. Le lacrime non scendono calpestate a terra. Scendono nell’oceano del cuore di Dio. Chiede di sedersi dalla stanchezza. E’ la madre del natale. Ora è piena la notte. La luce divina si nota solo nel cuore. Ed ecco la nascita: il figlio fuggito ritorna. Non è possibile! Il destino dell’amore si realizza proprio in questa casa del silenzio e dell’affetto. Proprio in questa casa ritorna a chiedere aiuto e non sa che la madre è lì ad attenderlo. Entra Emmanuele e la madre l’abbraccia accanto al focolare della solidarietà di Mario. La donna del pianto in questa notte di Natale partorisce il figlio ritornato nella gioia della famiglia. Gli amici e gli ospiti in silenzio contemplano ciò che la società del consumismo ha dimenticato e frantumato. Qui nel silenzio di un capodanno alternativo, si è realizzato la civiltà dell’amore, la civiltà dell’accoglienza e dell’affetto.
Paolo Turturro
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Betlemme, il paese del pane
Continuiamo a ingannarci. Illusi d’aver capito la vita. Continuiamo a ingannarci. Solo qualcuno sarà lontano dall’illusione e quello sarà emarginato, chiamata pazzo, fuori di testa, che viene da fuori. E’ la pazzia che ti fa leggere le stelle, di fa parlare con gli angeli, ti fa navigare negli astri, ti fa dialogare con ogni uomo. E’ la pazzia la forma più alta della sapienza. Un Dio, pazzo d’amore, che nasce nel paese del pane per sfamare tutti noi. E’ la pazzia che ti fa amare persino il nemico. E se qualcuno della terra mostrerà appena di comprendere, si dirà di lui che è pazzo. E’ solo un pazzo. Noi invece siamo tutti “savi”, per questo non ci comprendiamo, ci chiudiamo l’uno all’altro, siamo l’intelligenza del sospetto che mortifica, che uccide senza sapere e senza colpa e rimorso di essere assassini. Non siamo capaci di vedere in alto, di nascere di nuovo dall’alto. Noi bassi non solo di terra. Così parlare con gli angeli è un’illusione da circuire solo nella pubblicità di natale. Siamo sostanzialmente invisibili persino dentro di noi. Così Natale è una favola da consumare al cinema, o nei salotti dei camini. Il male non è sapere ma rifiutare l’Altro che è dentro di te. Progresso non è sapere le cose da cui dipendi, tv, cd, computer, box, birra. Progresso è quando frantumi le schiavitù del tempo, comprate dal denaro. Progresso è rispettare gli altri, soprattutto Dio che viene, soprattutto Dio Coscienza che vuole nascere dentro di te. Progresso è intuire le viscere dell’universo, molecole intuite e create da quel Dio che ama umiliarsi per amore di Te. La verità dello scandalo è la ruggine che frena e blocca la crescita delle coscienze. La verità che Dio nasce abita nella tua carne. Non ti puoi scrollare della verità di Dio che ama e che nasce ancora povero dentro di te, ricco solo di te. Tempo verrà che l’illusione sarà uccisa dal nostro ghigno sorriso. Tempo verrà che il nostro non credere morirà nelle nostre stesse mani. Non ci sarà un raggio di luce senza la vita. Non ci sarà un angelo senza un nostro pensiero. Non ci sarà un angelo senza un nostro sospiro. E allora nasceranno gli schiavi pestati dalle mani delle guardie delle città deposito. E allora nasceranno le donne, tutte quelle donne, quante, che da secoli sono state uccise solo perché ardivano di pensare, senza mai parlare. E allora nasceranno i matti schiacciati da manganelli di sterminio solo perché sognavano la libertà. E allora nasceranno gli uomini, tutti quegli uomini, morti in guerre, schiavi di crociate, ribelli di inquisizioni, martiri di rogo, a germogliare, qui sulla nostra terra, la verità del natale di Dio che fa abbracciare pace e giustizia, che fa piovere dall’alto la verità e fa germogliare dalla terra la giustizia. E tu leggerai in me le meraviglie di Dio che nasce povero e io leggerò in te il suo immenso perdono fiorito sulla stella della croce. E ognuno sarà all’altro sorgente da dissetare il divino. Ogni traguardo non solo sulla terra è una nuova partenza. Il silenzio del vento mi porta il chiasso della gente, i dubbi di chi soffre, la ricerca degli agnostici. Ho sfiducia nella morte, non è capace di fermarmi per sempre. Ho sfiducia nei filosofi comprati e che negano se stessi. Da tempo la paura era sterile, ora invece a natale persino i giocattoli non solo degli alieni ci fanno terrore non solo nel buio. Nessuna coscienza si spegne, come le luci fatue del natale del consumismo. Solo viviamo nel buio pesto dell’ignoto, senza sapere che basti una piccola candela accesa per illuminare le tenebre più fitte della tua ignoranza, del tuo misero stato d’inconscio, del tuo stato di peccato. Né discendenza, né sangue, né titoli di onore ti garantiscono la vita eterna, se pure la A capovolta è la testa del toro. Né la donna può garantire la potenza dell’uomo. Se il vento potesse portare la mia voce di fede dentro il tuo animo, sentiresti la tua stessa voce di fiducia in te stesso. Continuiamo a ingannarci, o Dio che non nasci. Continuiamo a ingannarci. Illusi ancora che l’aurora del Natale ci recherà il tuo volto. E’ tardi ormai e io ho ancora le imposte delle finestre socchiuse, per indicarti che sono qui, che ti attendo, che non vorrei ingannarmi della tua venuta, del tuo essere Emmanuele. Sono qui, non voglio ingannarmi di essere su altra sponda, su altro strada, sul sentiero opposto di Betlemme. E’ tardi ormai e io ancora sono vestito solo di tempo, appena con la stola lunga secoli di stelle di speranza e di perdono. E’ tardi ormai e io abbraccio il mio letto di sonno eterno. E’ tardi ormai e io non so ancora se ho sognato la cometa che ti fa discendere, o Dio tra noi. E’ tardi ormai e io non so se ho vissuto. E’ tardi ormai e io non so se ho vissuto abbastanza per vederti. E’ tardi ormai e io non so se ho amato, se ho sperato, se ho cantato un Bimbo che nasce in una stalla, senza bue e senza asino. Non ricordo nulla della vita se non il ricordo amaro di lasciarla. Non ricordo nulla della vita se non di amarla, di volerla questa vita stupenda, questa unica vita, questa irripetibile vita, questa mia vita dove persino gli angeli hanno sognato di abitarci, dove persino gli universi non hanno avuto spazio, dove persino le bufere hanno tuonato, dove Dio si è potuto accasare. Dove il canto di cent’anni è solo stata una nota. Dove lo sguardo è stato solo divino. Dove il cuore non ha potuto palpitare oltre perché senza sangue. Dove finalmente Dio che aveva fame si è fermato nel mio paese del pane. E’ il cuore il paese più affamato. E’ il cuore il paese del pane. Ecco Dio nasce nell’eucaristia dell’altare della tua fede, della tua fiducia in Lui. Ecco Dio scende, nasce e si ferma ed è solo un vagito di un Bambino, forse di speranza di non essere ancora ucciso. Dio nasce nel paese del pane, nel paese di ogni uomo, dove miriadi di persone hanno fame, fame di amore, fame di giustizia, fame di lealtà, fame di oltre il respiro della terra, fame di Altro. Dio nasce nel tuo paese del pane, dove è divenuto carne divina, dove il pane è divenuto Bambino, dove il pane è divenuto Eucaristia. Amici, vi assicuro, non ho sognato il paese del pane. Amici, vi assicuro, mi sono davvero saziato con questo pane divino. Amici, vi assicuro, persino gli angeli hanno cantato nel mio cuore, stanotte. Buon Natale, Betlemme, paese del pane. Buon Natale, cuore di ogni uomo, fornace ardente dove si cuoce inesorabilmente il buon pane di Dio. Buon Natale.
Paolo Turturro
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Ancora un sogno a Natale. Ancora io sogno di Martin Luther King. Ancora il sogno di Isaia. Ancora il sogno di ogni uomo. Ancora il sogno di Maria Davide Turoldo. Ancora il sogno di Alda Merini. Ancora il sogno di don Tonino Bello. Ancora il sogno di Dio nel cuore di ogni uomo.
Narrare le meraviglie dello spirito è lo scopo della vita di ogni
uomo. Narro la tua luce negli occhi delle aurore. Narro il tuo volto
luminoso di speranze. Narro le tue labbra cariche di luce. Narro non
solo il tacere, ma ciò che è invisibile a sapere. Noi conosciamo
appena ciò che è visibile, o qualcosa dell’invisibile. Appena il
mondo degli angeli e dei santi. E il resto? Non conosciamo ciò che è
invisibile. L’universo balbetta appena un alfabeto limitato di
tempo, di spazi e di parole. La maggior parte dell’universo è a noi
ignoto. Noi camminiamo nel tempo, senza sapere che ci porta alla
soglia dell’eterno. Allora l’uomo danzerà con il cielo e con la
terra. Giocherà con il sole e con tutte le creature. E sarà un
piacere immenso conoscerci. E sarà una gioia lirica sapersi l’uno
carne dell’altro, l’uno luce dell’altro, l’uno respiro dell’altro.
La morte è partorire all’universo: E’ partorire ai prati. E’
partorire al cielo. E’ partorire agli angeli. E’ partorire ai santi.
E’ partorire in Dio. Nel ventre del tempo cerco a tastoni il
Signore. Non c’è luogo dove tu non sei. La lontananza per te non è
mai una tua assenza. Dormo sul letto di sassi. Ai piedi mi camminano
sterpi. Mi scorre dentro un fiume povero di acque. Ho sempre
sorriso, persuaso che donare è sempre una festa. Sempre addito una
speranza che mai mi hanno permesso di raggiungerla. Sempre addito
una fonte che mai mi è dato di bere. Tanti anni affamato di Dio.
Famelica fame che mai si sazia. Famelica fame squarciata di luce. Io
conosco il silenzio dell’alba quando sorge la luce. Io so il deserto
che profondo nasconde sorgenti limpide e impetuose. Io so la
tristezza che attanaglia l’anima da non poterla liberarla. Io so che
il più povero sono io stesso nel credere che tu non mi sei vicino in
questo mio sfacelo. Io so che sono i miei occhi a non vergognarsi
della luce del mio volto qualora gli altri mi commiserano sul
sacrato del tempio. Io squarcerò il velo invisibile che ci separa,
il velo per spezzare quell’invisibile che nega a noi di vederci. Il
velo della nascita. Il velo del Natale. Io so che sei tu che nasci
in ogni vita. Io so che nessuno muore. Solo il nulla muore. Non
muore nessuno, perché tu sei. Io non mi esaurisco sulla croce, mio
letto coniugale della nascita all’eterno. Nulla si rinchiude dentro
il cuore, universo aperto e senza porte. Tuttavia il cuore non è un
porto di mare. Non c’è ultimo a morire, perché nessuno muore. Il
giorno è il gemito di una nuova vita. Eppure nel giorno siamo soli.
Non vale gridare dall’altare” fratelli”. Né che tutti in colonna ci
affolliamo allo stesso ciborio. Siamo soli, pur nutriti da Dio.
Siamo soli, se pure respiriamo la stessa aria. Siamo soli, soli
nelle metropoli affollate di chiasso. Siamo soli, pigiati da
miliardi di persone, soli. Siamo soli sulla terra, dove pare non
abiti neppure Dio. Siamo soli, non cantiamo più il pane nel forno
caldo della famiglia. Siamo soli, non cantiamo più il vino nelle
folli serate della compagnia. Siamo soli, se pure assordati di suoni
e di voci non più umane. Siamo soli, se pure tempestati di immagini
a rotocalco di consumi. Siamo soli, se pure stufi e pigiati a morire
dal sudore acre degli altri. Siamo soli e stanchi di sentire il
fiato violento di tanti sulle nostre spalle. Siamo soli a lottare un
Dio senza fiato, senza accenni di capo, senza accenni di risposta
per continuare a vivere. Siamo soli e contorti come tronchi nodosi
di ulivi che non producono più zagara e olio profumato. Siamo soli,
perché selvatici dentro. Siamo soli. Torniamo a credere che il fiato
dell’altro è dentro ognuno di noi. Torniamo a credere che il volto
dell’altro ci appartiene. Torniamo a credere che donare una mano è
sempre la dignità di un altro universo d’amore. Torniamo a credere
che, finché un uomo solo spera, è sempre un altro giorno. Torniamo a
credere per condividere il poco che siamo, il quasi nulla che
abbiamo. Torniamo a credere di generare un pizzico di pace in questo
nostro deserto di guerre e di delusioni. Torniamo a credere che
abitiamo lo stesso cielo. Respiriamo la stessa aria. Ci illuminiamo
della stessa luce. Coloriamo gli stessi sentimenti. Torniamo a
credere che basti un istante di bene per cambiare il mondo. Non solo
però il tuo. Il tuo, il mio, un miliardo di respiri di bene cambiano
il nostro mondo rattrappito di inerzia. Torniamo a credere che Dio
ha diritto di esistere. Torniamo a credere che Dio nasce oggi dentro
ognuno di noi. Torniamo a credere che Dio ha diritto di parlarci.
Torniamo a credere. Credere è la nostra carità di luce.
Paolo Turturro
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DIO VIENE
Abbiamo annunciato la rivelazione di Dio soltanto attraverso l’esperienza storica del popolo d’Israele. Reputo che la rivelazione dell’amore di Dio è per tutti noi, per tutti i popoli della creazione, è prima d’Israele e non si sia fermata alla morte dell’ultimo apostolo. La sostanza di Dio è rivelazione d’amore. E’ tempo di scoprire la sua Parola attraverso la storia di tutti i popoli, attraverso profeti di altre genti, attraverso santi e uomini coraggiosi di tutti i secoli, di tutte le nazioni. Certamente scopriremo una rivelazione più completa, più ampia, universale tale che tutte le genti si sentano chiamate a conoscere e ad amare Dio. Dio non si chiude a nessuno. Dio è padre di tutti. La storia di ogni popolo è storia anche di Dio. Sento più efficace la liturgia pregna non solo della parola delle dodici tribù d’Israele ma del coraggio di ogni uomo, della forza di ogni cammino di liberazione di ogni popolo. Una liturgia aperta ad ogni uomo di ogni razza, di ogni lingua. Una liturgia aperta all’uomo, unica sede della rivelazione di Dio. La furbizia di Davide nell’uccidere Uria per possedere la sua moglie mi smarrisce sull’altare. Tanti, nella storia hanno percorso tale cattiveria. Mi affascina l’esperienza di Martin Luther King. Mi affascina la parola liberante di Bonoeffer. Mi prende di responsabilità il silenzio della parola di Rosmini. Mi incoraggia il martirio della parola di Savonarola. Mi inebriano di sapienza i poemi di Maria Davide Turoldo. Impazzisco dinanzi alle intuizioni avvenute su Cristo da parte di Alda Merini. Tutto ciò non è rivelazione di coraggio, di sapienza, di virtù che hanno origine solo nello Spirito Santo? Mi prende l’esperienza pastorale di don Milani, di don Mazzolari, di don Tonino Bello. Non potrebbero i loro scritti essere inseriti nella liturgia della s. Messa? Le Parole vigorose di coraggio non possono non venire da Dio. Ecco Dio viene nel diario di Anna Frank. Ecco Dio viene, Emmanuele di salvezza nei libri di Paolo Coelo. Ecco Dio viene nel coraggio di Mandela. Ecco Dio viene nella forza di Gandhi. Ecco Dio viene nella parola del cardinale Carlo Maria Martini. Ecco Dio viene nelle lacrime di ogni madre. Ecco Dio viene nel perdono di ogni cuore. Ecco Dio viene in te, che lavori e non vuoi entrare in nessuna chiesa. Dio è per strada. Dio è in una capanna. Dio è fuori di ogni dogana, di ogni appartenenza. Forse le parole infiammanti dei grandi scrittori, dei grandi poeti, dei grandi profeti non sono parola viva della rivelazione di Dio che non cessa mai di stupirci? Ecco Dio viene “In via con vento”. Ecco Dio viene nel silenzio di una casa dove le lacrime sono l’unica bevanda e dove il sacrificio è l’unico cibo. Ecco Dio viene nel “Cuore amaro”. E’ tempo di inserire nella liturgia dei sacramenti la parola scritta con le lacrime, con il sangue del coraggio, con il silenzio della pazienza. Una liturgia, tale da divenire più viva, più attuale, più efficace di salvezza. Si, io so bene che i sacramenti sono efficaci di per se stesso. Si, io lo so. Ma quante lodi distratte, quanti vespri morti di tramonto, quante ss. Messe seppellite inutilmente nella nostra vita. Anche il vagito di un neonato durante la s. Messa è parola di Dio e non disturba nessuno, tale da essere gettato fuori con la sua stessa madre. Anche la sofferenza offerta di preti che constatano infruttuosa la loro vita pastorale è Parola di Dio che viene a rafforzarci nella fede. Anche i cantici di ogni poeta è Parola di Dio che viene a consolarci. Anche lo smarrimento offerto dei giovani che cercano la giustizia, la lealtà, l’amicizia è Parola di Dio che viene a liberare d’innocenza il volto di ogni giovane. Anche le sorgenti che tu ascolti, anche i monti dove tu innalzi lo sguardo, anche i fiumi che scorrono nel tuo cuore, anche l’autunno che ottenebra il tuo stato d’animo, anche la depressione che affliggono di sofferenza i tuoi occhi sono parola di Dio, se offerti allo spirito che vive in te, che sente in te ogni sospiro di liberazione. Io canto la speranza che palpita nel cuore di Dio. Io canto gli occhi che contemplano l’avvento del Signore. Io canto l’eucaristia che nasce ancora una volta nelle stalle di ogni insicurezza. Io mi inebrio di natale nelle celle dei frati, delle clarisse, dei benedettini, dei cistercensi. Io abito il letto di Dio per addormentarmi nella pace. E’ parola di Dio che viene, il coraggio di vedere bene, di ascoltare bene, di dire bene. Anche l’ultimo sogno spezzato dall’odio vola nel concepire Dio sulla terra. Anche l’ultimo Signore pietà del più ostinato peccatore si innalza al cielo per consacrarsi parola di Dio. Io non sento altro che un’immensa sinfonia della Parola di Dio in ogni vivente, in ogni luogo, in ogni popolo, in ogni arte, in ogni ribellione, in ogni ostinazione del bene. Io non sento altro che un’infinita liturgia di lode nel canto di ogni amore, nel concerto di ogni sguardo, nell’abbraccio di ogni perdono, nella stretta di mani di ogni popolo. Io non sento che un’apertura dei cieli nel coraggio di ogni scrittore che imprime libertà, grazia, sapienza nei poemi che scrive nel suo sangue. Io non sento che un palpito unisono di tanta gente che spera, lotta, soffre sulle strade dell’uomo pur lontano dalla chiesa. Io non sento che un’infinita misericordia di overdose di grazia per milioni di uomini che nelle taverne, nei bar, nei pub vogliono uscire dalla notte delle loro disperazioni. Io non sento altro che una nuova armonia di liturgia cantata da ogni popolo che resiste, agisce, lotta la libertà da ogni dittatore di denaro. Io non sento altro che la lotta di tutti gli uomini giusti che cantano, pur lontano da ogni altare, la libertà e la forza di amare.
Paolo Turturro
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IMMACOLATO E' IL CUORE
Gli occhi sono immacolati nel contemplare Dio. Anche i prati di rugiada sono immacolati all’aurora. Il sole splende in alto immacolato. I pensieri dello spirito che ama sono immacolati. La vita che scorre sul filo della speranza è immacolata. Toccare non è macchiare. Baciare non è sporcare. Io sento il profumo di tutto ciò che è immacolato. Tu, Vergine santa, abito del cielo ci vesti d’innocenza. In te, per opera dello Spirito santo, sono tutti i doni dell’eterno. Sono in te, per noi. Il battesimo è la nostra Immacolata Concezione. L’eucaristia che consacriamo è l’Incarnazione di Gesù Cristo in tutti noi. E nella riconciliazione ci vesti di salvezza. Quanti sogni immacolati nel tuo diletto cuore. Immacolata è la sapienza, la sapienza di ogni tempo, la sapienza di ogni uomo. Immacolato è il dolore che s’incarna nella croce di Cristo. Immacolate sono le mani che elevano l’eucaristia anche nelle notti oscure. Immacolato è il pane che sfama senza essere mai macchiato. Pane che sfama poveri e miserabili e resta intatto, immacolato, nel nutrire il corpo di sangue sempre nuovo e fresco. Anche i sogni di ogni sacramento sono invisibilmente immacolati. La musica di un’arpa è immacolata quando il suo arpeggiare raggiunge il cuore ferito d’amore. Il cuore è musica quando palpita offerte di dolori. E tu, Vergine santa, sei lo scrigno della luce immacolata. Tu, il corpo splendido del candore, grembo dello Spirito che spira nel tuo seno immacolato il figlio di Dio. Tu, primizia di ogni respiro ossigenato di ogni purezza. Tu, madre del corpo immacolato. Tu fonte dell’innocenza che rende immacolato ogni sacramento. Immacolato è concepire. Immacolato è partorire. Immacolato è nascere. Immacolato è pensare. Immacolato è aiutare e donarsi senza interessi. Immacolato è intuire Dio nella tua carne e nel tuo spirito. Immacolato è pregare con lo spirito. Immacolato è sperare contro ogni avversità. Immacolate sono le beatitudini di tuo figlio. Immacolato è il perdono. Immacolato è guarire non sono i lebbrosi. Immacolato è amare il nemico. Immacolato è credere oggi al vangelo. Immacolato è lo sguardo che ti eleva al cielo di ogni cuore. Immacolato è consigliare chi è disperato, chi è afflitto, chi è desolato nel finire dei giorni. Immacolato è accogliere l’immigrato senza pacchetti di sicurezza economica. Immacolato è sapere di essere amato. Immacolato è uscire da ogni notte di droga e di disperazione. Immacolata è la fede e la sua perseveranza. Immacolato è il nostro tempo di fede che si apre all’eternità. Immacolato è il corpo glorioso della nostra risurrezione, senza ossa, senza cimiteri, senza trombe degli angeli sui campi dei stermini. Immacolata è la terra abitata dai giusti. Immacolato è il libro scritto dal tuo spirito. Immacolata è persino la morte che ci apre alla vita eterna. Immacolata è la solitudine che si abbandona alla volontà di Colui che ci ha creati per camminare d’amore. Immacolate sono le ferite che scusano, comprendono e perdonano chi le infligge. Immacolata è la rivoluzione culturale, sociale, spirituale. Immacolata è la lotta che sana ogni ingiustizia, ogni prepotenza. Immacolata è la mente che si apre al mistero da conoscere, da amare. Immacolato è l’universo non ancora incontaminato dall’uomo. Immacolato è il volto che sa di luce, di amore e di perdono. Immacolata è la forza che fende ogni segreto del male e lo dissolve con la bontà. Immacolate sono le carezze di una madre che fonde nella famiglia amore e tenerezza. Immacolato è sudare la terra per produrre l’abbondanza di ogni frutto, la fortezza delle foreste, lo splendore delle verdi colline tappezzate di greggi immacolati. Immacolato è il sudore di ogni fatica, di ogni timore, di ogni attesa. Immacolato è il sogno di radunare tutti i popoli sotto un’unica tenda di amore e di fratellanza. Immacolato è ogni neonato che indica al cielo che sulla terra abita ancora l’amore. Ho vissuto giorni immacolati ogni qualvolta ho amato senza interessi, senza contraccambio. Ho vissuto giorni immacolati ogni qualvolta lacerato dentro mi sono tuffato nell’oceano insondabile del tuo amore. Ho vissuto giorni immacolati ogni qualvolta le mani hanno sconocchiato corone di rosari. Ho vissuto giorni immacolati ogni qualvolta ho intuito che il cielo non è altro che lo spirito. Ho vissuto giorni immacolati ogni qualvolta sono divenuto coscienza e ho scommesso soltanto sulla sua forza. Ho vissuto giorni immacolati nella lotta assurda di restare incatenato nella preghiera della solitudine e dell’amarezza. Ho vissuto giorni immacolati ogni qualvolta mi sono rifugiato in te e tu mi hai insegnato nel profondo delle pagine della mia vita la forza del perdono. Ho vissuto giorni immacolati ogni qualvolta ho acceso nel disperato la fiamma della speranza. Vivo giorni immacolati ogni qualvolta salgo affaticato sulla mensa della croce che rende immacolato ogni crimine del mondo. Vivo giorni immacolati ogni qualvolta celebro non solo nelle mani il mistero Immacolato dell’eucaristia. Vivo in te, abbracciato, o Vergine della purità che concepisce innocente ogni mio sospiro, ogni mia attesa, ogni mio confido in te. Vivo ancora innocente, io superficiale nel non evitare ogni ferita, ogni inganno, ogni maldicenza nel vivere e finire dei miei giorni.
Paolo Turturro
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HO IMPARATO CHE NESSUNO E' PERFETTO
Ho
imparato.... che nessuno è perfetto... Finché non ti innamori.
Giovanni Caminiti di Messina
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LASCIATE LASCIATE
La saggezza è eternità. La bellezza è eternità. Ogni virtù è eternità. Noi viviamo il tempo in attesa che la risurrezione lo renda immortale. Ciò che è soggetto al tempo è limitato e caduco di peccato. Ciò che si crede, si vede. La risurrezione è il dono della divinità. E’ la porta che ti apre l’eternità. Il tempo è l’auverture dell’eternità. La creazione ha il volto eterno. Il corpo dell’uomo diventa glorioso nell’eucaristia del risorto. E’ il risorto il corpo della nuova umanità. In noi resta ciò che del corpo affascina. Il corpo dell’immortalità non è soggetto alla corruzione. Vive e si nutre di luce divina. Resta del nostro corpo ciò che è essenziale. Resta di noi un quid tale da essere davvero noi stessi. Ecco all’istante della mia morte vedo Dio nel suo splendore totale. Lo contemplo meravigliosamente. Mi rendo conto che mi ama dall’eternità e nel contempo mi avverto totale miseria, sento di non averlo mai amato, mai pensato, mai desiderato. Vedo in me, dinanzi a Lui, tutta la mia bruttezza. Odo il rumore delle mie bassezze. Odo il chiazzo dei miei dubbi. Sento il fetore di ciò che è peccato. Avverto, dinanzi alla sua bellezza, al suo amore per me, un dolore atroce, un dolore lacerante, più di mille anni di fuoco, più di mille sofferenze umane, più di mille pentimenti. Una fiamma che mi brucia tutto. Un fuoco che mi purifica. E’ purgatorio senza tempo, all’istante di Dio. E’ purgatorio senza fuoco, senza tempo, senza luogo. E’ uno stato di purificazione che mi abbandona al Kyrie eleison, al Signore pietà. Solo allora mi penetra la gioia di Dio, la bellezza della delizia, lo splendore del suo perdono, l’abbraccio del suo amore. E avverto vene dense di grazia, avverto il benessere di un corpo glorioso. E’ paradiso senza tempo, senza luogo, senza emozioni che passano, senza gioia che finisce. E’ un fluivo di grazia che penetra il mio corpo e non so più dire nulla. E’ paradiso per te, per me. Oh! Che non avvenga di rifiutarlo. Oh! Che non mi capiti di rigettare la sua misericordia. E se fosse così sarei disperato eterno. Una disperazione senza luogo, senza tempo. E’ inferno. E tu mi sollevi. Tu mi apri ancora il tuo amore. Come potrebbe fallire il tuo amore? Come potresti essere qualora uno solo di noi è fuori di te? Non potresti soffrire tu che vedi me disperato eternamente. Un Dio che soffre eternamente. Oh! come potrebbe resistere un bambino affamato da un mese dinanzi a una torta che la madre gli presenta dopo un mese di fame? Potrebbe quel bambino rifiutare tale torta, lui affamato da un mese. E come potrebbe l’uomo rifiutare la dolcezza di Dio, lui un povero affamato di Dio da cent’anni e oltre? E’ il mistero dell’amore che nessuno sa. E’ il mistero della misericordia che nessuno può contemplare abbastanza. E’ il mistero della comunione con Dio, che avverrà nella nostra morte. E’ il mistero del travaso della misericordia di Dio dentro di noi che ci rende giusti. Non avvenga il tuo fallimento. Non avvenga che alcuno sia fuori del tuo amore. Non avvenga che io, destinato al tuo amore, non abbia più fame di Te. Nell’eucaristia avverto già tale fame. Nell’eucaristia è già la nostra risurrezione. Nell’eucaristia è già il nostro corpo glorioso. Già risorto senza attendere che i cimiteri risorgano. Senza attendere che le ossa si rinvigoriscano di carne del passato. L’eucaristia è la carne delle nostre ossa. Nel tuo corpo è la nostra risurrezione. Nel tuo corpo è la vita eterna. Nel tuo corpo è il corpo glorioso dell’umanità. Oh! si, vivremo la risurrezione finale, totale, quando ti rivelerai a tutti noi, fatti da te giusti. Quando tu ci rivelerai gli uni agli altri. Quando tu ci radunerai nel tuo corpo glorioso, divino, quale dono stupendo per tuo Padre. Quando tu presenterai a tuo Padre la nuova creazione. Quando il tuo Spirito rivelerà a tutti noi di essere un cuor solo e un’anima sola. Tanto è il dolore che il corpo è arso di fuoco. Conservo dentro me i gemiti dell’innocenza. Conservo dentro di me i gemiti degli occhi, i gemiti dei sospiri, i gemiti persino dei sassi che mi hanno colpito. Sono divenuto anch’io una “disumana cosa”. Sono divenuto anch’io ”Se questo è un uomo”. Mi resta soltanto qualche solstizio di speranza a urlare la rabbia di non perdere la fede. Sono salito sul patibolo dell’unico sacramento dell’amore: la croce. Io da questa vetta non scorgo se non una madre che addolorata mi abbraccia ai piedi del paradiso. Lasciate, lasciate che io da quassù canti l’olocausto di ogni cuore. Lasciate, lasciate che io da quassù non subisca ma consumi con amore il sacramento della croce. Lasciate, lasciate che io da quassù non canti la polvere o il fango dei peccati, ma elevato in alto osanni il perdono che Cristo Gesù ha gridato al Padre:” Perdonali perché non sanno quello che fanno”. Lasciate, lasciate che io da quassù non cessi le lacrime di amare. Lasciate, lasciate che io da quassù dissolva in Lui lo sfacelo delle speranze che i prepotenti hanno osato imperato sui deboli e sui piccoli. Lasciate, lasciate che io da quassù discenda solo quando è sgominato ogni dolore, ogni ingiustizia, ogni infamia; solo quando ogni uomo è fratello all’altro mai visto, mai conosciuto. Lasciate, lasciate che io da quassù senta avvicinarsi la Pasqua, quando le mute campane torneranno sui loro campanili a suonare l’alleluia di ogni uomo risorto. L’alleluia di altri tempi. L’alleluia di altro cielo. L’alleluia di altro amore. Lasciate, lasciate che io da quassù canti ancora l’alleluia di vivere.
Paolo Turturro
L’ITALIA DEL TURPILOQUIO E DELLE RISSE
La crisi economica, oltre a creare problemi pratici di sopravvivenza, sta mettendo in luce un problema sociale dai contorni preoccupanti: tassista massacrato per avere investito una bestiola, donna uccisa con un pugno sotto gli occhi indifferenti dei passanti, gay aggrediti, uomo accoltellato per un banalissimo incidente di macchina, bullismo dilagante nelle scuole di ogni ordine e grado, razzismo. Questi sono solo alcuni degli episodi di violenza fisica che giornalmente viene perpetrata nelle nostre città. Ma c’è anche una violenza sottile, meno percepibile di quella fisica, ma forse più pericolosa e devastante, che si è insinuata nel tessuto sociale: è la violenza della prevaricazione, della maleducazione ostentata, con compiacimento, della rissa verbale. La civiltà della dialettica e dell’informazione è stata sostituita dall’inciviltà dell’insulto o del “dossieraggio”. Non più confronti civili ma urla e epiteti irripetibili che impazzano nei “santuari” della politica e nei cosiddetti “salotti“ televisivi, affollati di gente che si auto-gratifica mettendo in piazza il peggio di sé. Una virulenza che ormai ha infettato e sta corrodendo inesorabilmente l’etica e la morale che sono la struttura portante di ogni società avanzata. Cosa fare per arginare questa decadenza? Forse, smetterla di delegare agli “altri” la soluzione del problema, ricordando che “gli altri” siamo anche noi, e di auto assolverci ripetendoci “così fan tutti”. Il Paese siamo tutti noi, con i nostri gesti quotidiani, con la nostra capacità di capire e scegliere da che parte stare, con l’esercizio del nostro dovere e la percezione dei nostri diritti non come qualcosa che ci è concesso, ma come qualcosa che ci è dovuto. Bisogna ritrovare la nostra dimensione di appartenenza a un Paese che, per secoli, è stato la culla del diritto e della cultura e smetterla con i luoghi comuni, le polemiche sterili, le contrapposizioni aggressive. Riscopriamo il confronto sereno e il rispetto reciproco delle idee, vivendole come arricchimento culturale e non come prevaricazione, o finiremo con lo estirpare dalle nostre coscienze il senso della democrazia.
Anna Turdo
CARMELA Il coraggio di una madre
Carmela è una delle tante mamme di Palermo, cresciuta in un ambiente intriso di mentalità mafiosa; la sua famiglia non era malavitosa, ma vivere in certi quartieri a Palermo significa comunque venire a contatto con Cosa Nostra, incontrare quotidianamente la sopraffazione e la violenza, vedere dispiegarsi davanti ai propri occhi le logiche mafiose. Carmela è una donna forte, capace, anche grazie all’aiuto della sua famiglia, di portare avanti un’esistenza alternativa a questa mentalità. Certo tutto questo è costato caro a lei e alla sua famiglia, ma Carmela ora è felice della sua scelta. Un giorno si innamorò di un giovane palermitano; purtroppo lui aveva avuto un’infanzia diversa, non era certo il classico boss mafioso, né aspirava a diventarlo, ma già da piccolo aveva capito che se voleva stare al mondo doveva in qualche modo farsi valere; così, per sopravvivere, fu costretto a commettere piccoli furtarelli e fu coinvolto in qualche episodio di spaccio. Quando conobbe Carmela, fu subito amore reciproco: i due si amavano e, come è usanza qui, scapparono insieme per la “fuitina”, con lo scopo di rendere esplicita l’avvenuta consumazione di un atto sessuale completo. Misero in atto una vera e propria fuga dalle proprie famiglie di origine. Scapparono insieme verso il mare e lì consumarono il loro amore. Posero, così, i genitori davanti al fatto compiuto ed ottennero il permesso per le nozze. In questo modo i due giovani amanti poterono coronare il loro sogno e sposarsi. Ci fu una gran festa, un grande matrimonio: parteciparono tutti i parenti delle due famiglie, fu una perfetta festa nuziale in stile siciliano, si cenò fino ad ora tarda della notte, non mancò musica né un ricco buffet. Presto Carmela ebbe, anche, la gioia di rimanere incinta. Quando comunicò la notizia al marito lui né fu felicissimo: sarebbe diventato un buon padre di famiglia, avrebbe insegnato a suo figlio tante cose, suscitando in lui l’interesse per la conoscenza, avrebbe giocato con lui, ma avrebbe anche trovato il tempo per farlo studiare; lui da piccolo non aveva potuto farlo con continuità, ma per suo figlio aveva in mente altri progetti. Carmela era finalmente felice, sembrava che suo marito avesse definitivamente chiuso con la sua vita precedente ed ora era proprio un uomo nuovo, uno sposo perfetto. Tuttavia, un giorno arrivò una terribile notizia: quel marito perfetto era solo un’immagine distorta della realtà, un sogno che Carmela portava dentro di sé e che, troppo spesso, aveva confuso con la realtà, ma la verità, fredda e inaspettata, si dispiegò davanti ai suoi occhi quel giorno di autunno. Suo marito fu arrestato per furto e condotto al carcere Ucciardone, la sua vita non era per nulla cambiata e le sue abitudini erano continuate a sussistere. Quando Carmela apprese la terribile notizia non poté far altro che assistere inerme mentre al suo figliolo portavano via il padre. Certo lui era ancora piccolo e non riusciva a capire quasi nulla, ma da quel giorno avrebbe dovuto rassegnarsi a vivere senza suo papà. Non appena il portone del carcere fu chiuso capì di essere rimasta sola. Nessuno l’avrebbe aiutata a crescere i suoi figli; sì, perché dentro di sé Carmela serbava un segreto: aspettava un altro bambino. Fu in quel momento che pensò a quanto sarebbe stato duro allevare due bambini, a quanto avrebbe dovuto essere forte per poter superare ogni difficoltà, facendo da madre e da padre nello stesso tempo in attesa che, forse, in futuro suo marito potesse tornare libero. E così il tempo passò, giorno dopo giorno, Carmela trovò la forza di andare avanti, vide i suoi figli crescere e diventare bambini e poi ragazzi. Insegnò loro il valore dell’onestà e della legalità, iscrisse il figlio al doposcuola della parrocchia e lei stessa si impegnò a preparare ogni giorno il pranzo per i bambini e i ragazzi che lo frequentavano. Nel suo cuore c’era sempre l’attesa per il marito; quanti colloqui in carcere e quante delusioni provate: ogni volta che si prospettava la possibilità che lui guadagnasse la libertà, lei si illudeva e vedeva, poi, slittare i termini di scarcerazione sempre per motivi diversi: a volte per aggravanti di reati passati, altre per semplici questioni burocratiche. Ormai non ci credeva quasi più; soffriva ogni qualvolta i suoi due figli gli chiedevano di loro padre e allora, cercando di trattenere le lacrime agli occhi, spiegava le debolezze e gli errori del marito, sempre, però, tentando di salvaguardare l’immagine del buon padre di famiglia. Insomma, il tempo passava fino a quando suo maritò fu definitivamente scarcerato. Quel giorno Carmela si recò davanti al portone del carcere insieme ai suoi due figli; quando le porte si aprirono e vide la sagoma di suo marito uscire ebbe un sobbalzo al cuore, finalmente il momento tanto atteso era arrivato: avrebbe riunito tutta la famiglia e sarebbe iniziata una nuova vita. Ma, subito, il sangue gli si gelò nelle vene: suo figlio non riconobbe il padre, non gli corse incontro, come forse lei aveva sperato o immaginato da tempo, e quando Carmela si voltò verso di lui scorse delle lacrime sulle sue guance. Fu in quell’istante che capì di dover pressare il marito a rinunciare alla sua vita per i suoi figli. Quell’immagine la scosse definitivamente tanto che trovò il coraggio di andare dal marito e con forza, gli puntò il dito contro dicendo: «Scegli tra la tua vita e quella dei tuoi figli, ma ricorda che una volta scelto non potrai più tornare indietro!». Parole dure e sofferte con dentro tutta la rabbia taciuta in quel lunghissimi anni di assenza del marito, di difficoltà e di dolori, ma, anche parole garbate e rispettose, espressione di amore più bello e sincero verso i suoi due figli, colpevoli solamente di essere nati da due genitori come loro. Carmela era pronta anche ad abbandonare il marito ed a continuare a crescere i figli da sola, ma non era più disposta a tollerare il comportamento illecito del suo compagno. Quel volto piangente di suo figlio è rimasto impresso nella mente di Carmela per anni; quando oggi, a distanza di qualche tempo, racconta quell’episodio si commuove ancora e dentro di sé mostra tutta la fierezza di un gesto simile, che ha riportato a casa il marito, fortemente intenzionato a smettere con furti e spaccio. Carmela non sa se il marito sarà in grado di mantenere la promessa, ma tra loro c’è un tacito accordo: al primo ripensamento o al primo errore la loro storia sarebbe finita. Per ora suo marito sembra aver chiuso definitivamente la brutta parentesi della sua vita che lo ha condotto in carcere. Carmela spera che sia per sempre. Mentre Carmela mi racconta la sua storia, scorre un video di una recita scolastica sull’imprenditore Libero Grasso, ucciso da Cosa Nostra perché non pagò il pizzo. Suo figlio recita la parte del mafioso che, prima chiede il pizzo all’imprenditore, poi lo minaccia con una serie di avvertimenti tipici del codice mafioso. L’epilogo della recita non vede, però, l’uccisione di Libero Grasso, come tristemente avvenne nella realtà, ma il mafioso viene fermato dalla società civile che si interpone tra l’imprenditore e il killer impendendole così l’esecuzione. Al termine della recita Carmela ci dice di prestare ancora attenzione: suo figlio prende la parola e dichiara davanti alla platea: «Io nella recita ho fatto il mafioso, ma nella vita non vorrò mai esserlo». Carmela ci guarda e mostra tutta la sua fierezza: quello è suo figlio. Ora lei è di nuovo incinta, aspetta il suo terzo bambino e spera di potergli dare un futuro migliore rispetto ai suoi primi due figli.
Emanuele Contaldo
TERRIBILE NOTTE
Tu non sai dove finisce la morte. Tu non sai dove finisce il cuore. Io lo so. Finisce dove inizia l’amore. La fede è una terribile notte. La fede non è cieca. E’ la forza dell’altro dentro di te. La fede conferisce la dignità regale all’uomo. Ti ringrazio della solitudine che mi hai regalato. La sto custodendo come un teorema d’amore. Strada facendo incontro il silenzio, incontro le tue mani che sanno di baci. Sono in compagnia dei tuoi angeli, Michele, Gabriele e Raffaele. Mi rendono sereno il cuore. Mi stringono forte nel coraggio. Sono in compagnia di chi guarisce. Sono in compagnia di chi mi dà forza. Sono in compagnia di chi mi porta all’assoluto. Strada facendo incontro i miei sogni realizzati nel cuore della gente. Strada facendo incontro i tuoi occhi che mi danno benessere. Fuori è il problema. Avete creato dinanzi ai giovani il deserto, non potete parlare di futuro e libertà. Ritorno a Mambre, dove la luce è nata. La mia mente trita le vostre falsità come il rullo sopra gli asfalti. Mi vibra dentro il ruakh del Signore! Ho paura di urtarti, Signore. Nulla so di te, mia assoluta necessità. Nulla saprò di me se non la fame di saziarmi di te. Ora non cado più sotto le infinite delusioni della tua presenza, ora certa in me. Una volta mi costruivo la tua presenza senza di te. Tu sopporti i volumi e le bocche di preghiere che ingiuriano nella richiesta la tua essenza d’amore. Come fai? Ti chiedo perdono d’averti cantato come colui che esaudisce le domande a ut des. Tu, mia terribile notte, mai una goccia di tua luce sul mio volto. Sono una bocca arida di luce. Sono un coccio secco di acqua. Perdona i sacramenti distratti. Perdona le nostre chiese opulenti. Perdona i teologi schierati per nomine e successi. Nulla sanno di te e vogliono decidere il tuo perdono, la tua giustizia. Tu fuoco nello spirito, mai rimorso in ogni pensiero. Tu fiamma di zolfo a fondere ogni coscienza. Perdona le cose che abbiamo inventato su di te: templi, armamenti, devozioni, altari di ceri, addobbi di preghiere, oceani di suppliche, pratiche di contributi di soldi, parole vuote di amore. Perdonami solo a nominarti. Io il vuoto e tu la pienezza che vuole riempire il mio nulla, la mia miseria. E’ il cuore il giardino dei pensieri, dove tu, o Dio, poni il tuo sguardo. Tu incombi fino a schiacciarmi, eppure io non ti raggiungo mai. E sono con te seduto al tramonto a ricordare gli amici, gli anni andati, le speranze realizzate e quelle spezzate. A ricordare i sogni detti sui davanzali dei conventi e a cantare una croce su cui nessuno voleva mai incarnarsi. E poi le incertezze e poi ancora il dubbio. Ah! il mio dubbio più forte di un metallo dove il fuoco nulla può fare. E poi la speranza di osarti, di parlarti, di contemplarti, di viverti. Quante volte ho desiderato vederti, parlarti un po’. E sempre il solito canto del niente. Niente è il giorno. Niente è la terra. Niente è l’universo che mi stringe a te. Era quella la vita che dovevo vivere e non questa incatramata nella solitudine. Questa notte. Questa terribile notte e fuori, in alto, la luna. Sempre nuova, come tu sai fare, sempre nuova e mai di luce propria. E io, qui, a guardare la notte di mille anni, i raggi di mille sguardi, gli angeli di mille sogni. Tutto, in questa luna. Tutto, in questa terribile notte. Notte della morte. Notte dove i vampiri non sbarcano e dove i demoni non vogliono abitare. Terribile notte, dove non tradisco la fede. Terribile notte, dove il collasso diviene amore. Terribile notte, dove il cuore si empie di credere. Terribile notte, dove il buio non è maldicenza e dove le ore sono eterne e vuote di vizi. Terribile notte, dove il confine è solo di luce. Terribile notte, dove ogni sacerdote sposa in lucide nozze l’eucaristia. Terribile notte, dove ogni uomo è anàtema di fede. Cristo è come te. Cristo è la notte. Cristo è la terribile notte che distrugge per sempre la morte e apre dentro di te ciò che tu credi non possa aprire: la porta della vita eterna. O Cristo, terribile notte che apri per sempre il giorno alla libertà. O Cristo, terribile notte che apri per sempre la risurrezione al creato. O Cristo, Terribile notte che apri lo Spirito a ogni vivente. Eppure io ancora niente. Terribile notte che non sposa mai l’aurora. Terribile notte. Terribile niente. Un niente che vale il divino, perché tu, o Cristo Gesù, non hai sognato, Tu hai solo amato. Ora esco all’amore. E’ l’amore, l’aurora che dissolve l’eterna, terribile notte.
Paolo Turturro
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L’INDEGNO SPETTACOLO DI UNA TRAGEDIA VERA DAI CONTORNI SHAKESPERIANI
Una ragazzina di 15 anni inghiottita dal nulla, in un caldo pomeriggio estivo. Ricerche, appelli, supposizioni, giornalisti, ragazzi e adulti, compresi i carnefici, con tanta voglia di andare in TV, ansiosi di approfittare di questa insperata”celebrità”. Poi la verità, la più atroce, la più devastante, quella che nessuno avrebbe mai voluto sentire: assassinata brutalmente e, come se non bastasse, forse, umiliata. Il carosello mediatico impazzisce e, a poco a poco, la vita spezzata di Sara si opacizza, diventa sempre più sfumata, non più protagonista ma figurante. I protagonisti ora sono altri e su questi, gli avvoltoi dell’audience, puntano i loro riflettori. Narrano di sospetti, intrighi, verità e smentite, impietosi primi piano su volti rigati di lacrime “telecomandate”, e viene fuori ferocia e marciume di una famiglia “esemplare, tranquilla, perbene”. Ma viene fuori anche un certo tipo di giornalismo-spettacolo che alimenta, in maniera violenta, la morbosità, il voyeurismo di un pezzo del Paese che salta da un canale all’altro pur di non perdersi i macabri particolari sul privato di questi squallidi personaggi che ruotano attorno al martirio di una quindicenne. Opinionisti dell’ultima ora, psicologi, più o meno improvvisati, analizzano ogni piccolo gesto degli accusati, per leggervi i segni pregressi e inequivocabili della loro colpevolezza. Finito lo “spettacolo” serale o pomeridiano che sia, i giornalisti soddisfatti dallo “share” spengono le luci sulla scena, i professionisti del voyeurismo vanno a letto soddisfatti, domani avranno di che parlare con gli amici. Come se non bastasse, la cittadina diventa luogo di “turismo” di massa. E Sara? Lei ormai è sepolta in una piccola bara bianca, portandosi dentro tutto l’orrore di quegli istanti in cui avrà capito che lo zio e, forse, la cugina e amica del cuore spegnevano con ferocia il suo sorriso di adolescente, sostituendo l’azzurro del mare, al quale credeva di andare incontro, col buio freddo della morte. Il tutto senza il minimo rispetto e pietà verso genitori che, oltre lo strazio della figlia persa, devono subire lo scempio e la spettacolarizzazione della loro tragedia.
Anna Turdo
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Martiri a Bagdad
Il cristiano è il nuovo che non può e non cambierà con il vecchio di domani. Raccolgo ceste di melanzane sotto i peri dai rami carichi, prostrati tanto da dover baciare il terreno. Riempio i canestri di pomodori e le mie mani sono piene di fiori di zucche. Non mi lavo le mani per assaporare l’acre odore della natura. E mi rammento che non bacio le mani a nessuno. Ho i sandali da frate. Sono libero di camminare. Ho il cuore di preghiera e sono libero di adorare il creatore delle meraviglie di questa valle che mi circonda l’anima. Qui riesco a coniugare contemplazione e lavoro. Io so che è un inno di lode ammirare l’aurora e la sua natura. Io so che è un salmo sentire scorrere le sorgenti tra i ciottoli dei fiumi. Io so che è una pericope di perdono abbracciare, senza che nessuno ti veda, chi ti vuole male. Io so che è una salita al golgota curare un amico infestato di metastasi. Io so che la preghiera più autentica sale dalle viscere del tuo dolore. Io so che è un’amarezza la menzogna che ti infliggono sulla tua faccia. Il lavoro di ogni giorno è preghiera e la preghiera è lavoro. Ora et labora. Il convento più autentico è il silenzio del cuore e tu palpiti più alto di ogni cielo. Io non conosco che la rabbia della preghiera quando non è autentica. Io so che mi gelo di sterilità nelle messe vuote di Cristo. Io so che i martiri di Bagdad hanno costruito una chiesa nuova, la chiesa del coraggio, la chiesa della preghiera, la chiesa di accogliere anche chi ti vuole ammazzare. Io so che i martiri di Bagdad sono ritornati a cantare lodi come i primi cristiani nel colosseo delle belve. Io so che i martiri di oggi ci hanno donato la responsabilità di essere cristiani autentici al vangelo e alle beatitudini di Cristo Gesù. Io so che i martiri di Bagdad ci hanno ricordato con il loro sangue che non possiamo più mettere fuori campo il martirio per il vangelo. Io vivo il giorno del cristiano come un’eucaristia vivente. Mi saluta sempre il mio amico pastore. Io mi fermo con la macchina dietro il suo gregge e lui ordina alle sue pecore di andare più adagio così da aver modo di parlarci di più. Lui con il bastone in mano e io con lo sterzo e ci raccontiamo i salmi del giorno e il telegiornale che opprime la gente. Io sento che mi confida le sue attese, le sue speranze di guarigione, le sue proteste e mi conclude al passaggio:”Come fai ad andare d’accordo con i comunisti e con i farisei?”Non rispondo perché lui sa che ha ragione. Poi stuzzica il cane pastore e quello aizza veloce il gregge e io posso passare con la grande punto. Ci salutiamo con il sorriso del nuovo giorno perché l’indomani sa che non gli darò quella risposta che desidera. Quanti sassi lungo la mia strada. Quante bisce nere sgusciano sull’asfalto. La mia auto non riesce a schiacciare nessuna. E mi ritorna in mente il vangelo. Mi ritorna in mente la chiesa di Bagdad. La città dei giornali mi inquieta. Appena arrivo a Palermo voglio tornare in campagna. Eppure qui è la lotta. Eppure qui è il campo dove seminare con le lacrime e mai raccogliere con gioia i covoni della preghiera e del sacrificio evangelico. Ci penserà il Signore a inviare mietitori della chiesa a suo tempo opportuno. La puzza delle fogne mi opprime i polmoni. I giganteschi cartelloni pubblicitari mi innervosiscono per le grandi fesserie che scrivono. Non assorbo infastidito l’inquinamento mentale. E penso alla gente (a noi cristiani) che si è adattato tanto da non sentire affatto la puzza delle cattiverie e il loro disagio. Qui le chiese sono chiuse e quelle aperte sono vuote. Siamo divenuti pastori di funerali. Persino i battesimi generano anime morte. Il vangelo di Gerico mi scuote. Siamo troppo opulenti. Sono troppo opulento. Non riusciamo più a vedere Gesù a causa della nostra bassezza spirituale. Siamo simili a Zaccheo che a causa della sua opulenza e ricchezza non riusciva a vedere Gesù. Torniamo anche noi a salire in alto per vederlo davvero. In alto, fuori dei compromessi, fuori dal peccato e Lui certamente alzerà anche a noi il suo sguardo. Che strano Lui che alza lo sguardo solo al Padre, solo al cielo, ora alza gli occhi a Zaccheo, a noi peccatori e ci invita a scendere dalle nostre superbie, dai nostri orgogli, dalle nostre azioni pastorali opulenti. “Scendi subito, perché oggi voglio fermarmi a casa tua”. Ecco la chiesa scende nel martirio della grazia. Ecco scende a restituire ciò che non è suo, ciò che è del tempo, si, non solo il denaro, ma i compromessi, la gloria delle parate. Restituisce ai poveri, all’umanità quattro volte tanto il tempo perduto nelle futili azioni e apparenze pastorali. E’ tempo del vangelo e non delle curie. E’ tempo del vangelo e non dei nostri programmi triennali per annunciare la Parola. E’ tempo di vivere le beatitudini non solo nei dolci mentali commenti. Io torno a casa, io torno al vangelo. Io torno sulla croce. Qui, in città, a ragionare mi sento male. Vi chiedo perdono se non butto la spugna nella spazzatura dei giorni morti. Si è vero, la spazzatura non è solo sulla strada. I giorni sono sempre un’altalena. I giorni sono un via vai di libertà e di schiavitù. Io non mi adatto alla falsità. No, non mi adatto. Sto imparando a stringermi al petto di Cristo Gesù per non perdermi nel dolore che santifica. Sto imparando a rispettare ogni anima, dove dentro leggo, senza difficoltà, le pagine del figlio dell’uomo che è venuto a servire e a stare bene con ogni uomo.
Paolo Turturro
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Un viaggio con Dio
Viaggio con Dio. Mi sento sicuro. Corro sull’autostrada. Piove a dirotto. Gli occhi sono rigagnoli, sorgenti di lacrime. Non ho nessuno quaggiù. Qualcuno lassù mi attende. Là, è la casa di Dio Padre. Come è difficile ascoltarlo. Ho una gran voglia di abbracciarlo. L’autostrada mi richiama alla sicurezza. Corro meno veloce. Sono troppo distratto nella guida. Forse è bene che io stia più attendo alle cose della terra anziché a quelle del cielo, per ora almeno. Ho nostalgia della gioia. Questo diluvio battente non può inquietare il cielo. Non voglio mollare la vita. Né tanto meno il cielo. Lo sento mio. A due passi. I bordi dell’autostrada sono gonfi a fiume. Le ruote slittano su pozzanghere di grossi spruzzi. Non vedo nulla. Nelle bufere è difficile vedere il vero. Distinguere ciò che è giusto e ciò che non è giusto. Quanta mi è cara questa pioggia. Mi lava dentro. Devo annunciare la tua Parola a Viagrande. Mai come ora la preparazione all’omelia mi strazia. Mai come ora le tue Parole mi buttano giù spiritualmente. Forse il monastero è luogo per meditarti meglio, o Dio. Quanto il dissenso è contrario alla mentalità della gente, grido :Veni, sancte Spiritus. Non vieni mai? Forse il canto dell’anima non viene da te? Forse la forza dello spirito non viene da te? Vogliamo costringere lo Spirito a nostra misura: a vederlo con gli occhi del tempo e a sentirlo con le orecchi della carne. Non ho più nessuno quaggiù. Tutti mi attendono lassù. Che ci sto a fare io quaggiù? Sfreccia la punto più ardita. Non vuole sentire i miei spropositi. Desiderare il cielo non è uno sproposito. Il diluvio impera fuori. Forse non arriverò a Viagrande. Le gocce sono di pietre. Il cellulare squilla. “Chi sei?” Sotto il diluvio non si sentono gli angeli. “Chi sei?”” Sono Antonio, ti ringrazio per l’angelo!” La voce non mi sembra di terra. “ Ma io sono ancora qui sulla terra. Allora non è vero che gli amici sono soltanto in cielo!” La voce continua:” Vuoi venire a trovarci, qui a Savigliano. I giovani vogliono ascoltare le preghiere del tempo. Il cuore non si distacca dalla terra. “Verrò certamente! – rispondo veloce”. Gli amici sono tutti dentro di te. Anche i luoghi mi parlano di loro. E’ vero non più di tanto. Chi entra nell’anima diventa angelo, sposo, sposa, fratello, sorella, madre, padre. I miserabili non entrano mai nel cuore. Quelli non hanno neanche gli occhi per piangere. Adoro il Padre in spirito e verità. Che bello! Mi cerca da tempo. Cerca tali adoratori. E tu accetti che io ti adori sull’autostrada? E tu accetti che io ti adori nel diluvio totale della mia vita? E tu accetti che un peccatore ti possa adorare in spirito e verità? Il parabrezza dell’auto è una cascata di acqua. E’ un pericolo adorarti in spirito e verità. E’ un pericolo adorarti senza risposte. Tu leggi il cuore nel segreto e la letizia è solo dentro, nascosta, segreta. Io so che le pagine scritte sulla terra sono destinate a divenire cenere. So invece che quelle che tu scrivi dentro le nostre anime sono indelebili al tempo, sono luci a generare eternità. Io so che i nostri angeli scrivono la nostra storia lassù. E vi assicuro che è fedele all’originale. Qui sulla terra ci sono due categorie di persone: quelli che pensano e quelli che non pensano. Questi non soffrono nella vita e sono vuoti, quelli soffrono e sono pieni. Io mi sono schierato nel fallimento, perché non voglio perdere l’anima. Non voglio rimanere vuoto. Non è aria di Dies irae. Il golfo di Acireale mi apre alla speranza. Laggiù c’è il sole e il cielo sempre più blu. Non bisogna mai scoraggiarsi nel fare il bene. Perché scende su di noi il diluvio? Perché scende la cattiveria su di noi? Perché cade proprio su di te? Su di me? Ciò che avvilisce è la malattia della cattiveria. Non sai che la pioggia irrora la terra? Non sai che la pioggia lava persino il cielo inquinato dall’uomo? L’acqua protegge l’innocente. Gli innocenti restino fuori dal male. Tempesta non scendere su di me. Non venire a visitarmi ancora. Lasciami in pace. Non mi cercare ancora fiume refluo di cattiveria. Sono dentro il battesimo di Cristo. Sono dentro il calice dell’eucaristia. Nulla può fare il male. Leggo san Paolo della croce. I suoi scritti sono un tuffo di abbandono in Dio. Ci provo e resto più smarrito. Non basta un tuffo per scoprire Dio. E’ difficile distruggere se stessi. E’ il metodo di un’ascesi passata. Dio non ti vuole annientare. Ti ha creato perché con tutto te stesso: corpo, occhi, mani, sorriso, pianto, dolori, membra, braccia, cuore, tu possa amarlo. Si entra nella contemplazione del divino amore solo attraverso il cuore umanissimo di Cristo. La fede oscura è più chiara del sole. Tu hai preservato la mia vita e resto incenerito dal fuoco del tuo amore. Ora finalmente i miei nervi sono al silenzio. Tace l’anima. Quietati terra. Il mistero entra nella carne. Cristo è la diaconia del cuore. I castighi non vengono da Dio. Ciò che è nocivo non viene da Lui. Le mie viscere sono secche. Voglio bere all’oceano del fuoco dell’eucaristia. Nel tabernacolo si vivono giorni senza peccato. Mi brucio nella carne di Cristo per essere suo splendido oro. Viaggio con te e mi stai portando dove vuoi tu. Mi sei accanto nel patire del finire dei giorni. La tua è una presenza sicura nel fiato, non vista dagli occhi. E’ stupendo viaggiare con te. Quante cose nell’anima si vedono. Quante tue Parole mi sono chiare in questo lungo viaggio. Quanto sono tentato di cedere al male, di reagire a chi mi fa del male, avviene in me il fuoco del crogiuolo e lentamente, e amaramente, queste tue fiamme mi purificano. Anche il carbone più nero, da te acceso, risplende e riscalda. Fuggo gli scrupoli, come la peste dell’anima. In questo viaggio non dubito di te. Sono sicuro che mi svelerai la tua volontà e il perché di questo viaggio così lungo e contorto. In questo viaggio riesco ad ascoltare persino la politica del tuo respiro. Capisco la politica delle tempeste. Comprendo la predica dei giorni neri. In questo viaggio mi chiami alla santità dei miei fratelli, delle mie sorelle, in una maniera straordinaria. Non finisce mai questo viaggio con te. Quante cose non so e ora mi fai sapere. Quante cose mi fai vedere. Ho paura che, finito il viaggio, di te non ricordi più nulla. Come vivere senza il viaggio del patire, senza il viaggio della croce. Io non so dove termina questo nostro viaggio. Io non so che cosa è la morte del viaggio. Io non so. Sto soltanto comprendendo che non finisce mai il viaggio della risurrezione. Sto soltanto capendo che non finisce mai il viaggio dell’amore. Per di più in questo nostro viaggio non ho preso nulla con me. Nessun vestito. Nessuna borsa. Nessun sandalo. Nessuna cintura. Nessuna tunica. Neanche il denaro per il Caron demonio. Solo l’anima per camminare spedito. Come è difficile un viaggio senza gloria, senza carne. Come è arduo un viaggio senza sapere nulla, neanche la meta. Senza sapere che tu stesso sei la meta che ci porti al Padre. Io ti vedo sicuro accanto a me in questo viaggio del patire, sicuro come il mio fiato. Senza il soffrire non è possibile vederti. Proprio strano, tu che sei la letizia. Proprio strano, tu che sei la gioia infinita. Io non so quando gli occhi saranno verità, o quando doneranno agli altri la verità. So che ogni giorno cammino più spedito e attendo l’aurora di nuovi paesaggi, di nuovi orizzonti, di nuova storia che non può non finire per sempre in te. Grazie, Signore, siamo arrivati.
Paolo Turturro
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Ho incontrato Anna Maria Cànopi osb Prima e seconda parte.
Isola san Giulio – Lago d’Orta
Sto raggiungendo la gioia delle lacrime. La mia letizia porta il sigillo della croce. Vivo nella croce. Palpito nella croce. Mi santifico nella croce. Diluvia, qui, al Borgomanero (NO). Giorgio mi invita a visitare l’Isola san Giulio sul lago d’Orta. Il cielo tempesta fulmini e tuoni. La strada è crivellata da grossi goccioloni. Le siepi di acacia e di ligustro diluviano vento. La mia mente rimbomba suoni e lamenti, più di una bufera. Giorgio procede sicuro sulla strada, piena di pozzanghere. Le case scivolano a terra rigagnoli violenti. Il cielo è capace di lavare i crimini del mondo. Poso i miei sguardi sui turisti frettolosi. Sono inglesi, tedeschi, austriaci, svizzeri. Ammirano il Borgo di Orta con i suoi viottoli di ciottoli bianchi di fiume. I balconi sono lussureggianti di gerani e di orchidee. I tetti di ardesia gocciolano antichi ricordi e vecchie memorie. Giorgio è sereno nella guida. Qui lo shopping è uguale come a Taormina. Souvenir di Cina e di Corea. Uguali dappertutto, come a Cefalù, a Capri e a Giovinazzo. L’arte è di casa. L’antichità è vera. Le vetrine sono piene di salumi, di pasta casereccia e di legumi. L’imbarcadero, appena ci vede, ci attende a braccia aperte. Non gli sfugge un turista, un cliente. Diluvia sul lago. I fulmini penetrano nell’acqua ardenti di paura. Entriamo nella barca a carponi. Mi rammenta Renzo e Lucia. L’isola san Giulio è di fronte a noi. Il monastero troneggia con la sua Basilica di san Giulio. La Basilica ha il portico sul lago. Sbarchiamo. Qualche fulmine è clemente con noi. Percorriamo la via del silenzio. Entriamo in Basilica. L’aria è mistica. I santi, non sono solo negli affreschi. Qui, adorano. Qui, ti parlano. Alzo lo sguardo alla volta. San Giulio è ieratico, per niente potente. Qui mi parlano i grandi convertiti. Qui, sant’Agostino. Qui, san Paolo, non caduto dal cavallo, ma dalla sua superbia di perseguitare i cristiani. Qui, Lacordaire e Brunetière. Qui, Manzoni e Carducci. Qui, Madre Connelly, Simon e Stein. Qui, Thomas Merton e Claudel. Qui Jammes e Balzac. Mi inginocchio. Mi sento indegno di tanti santi. Non sono degno della tua casa. Alzo lo sguardo al tabernacolo e mi quieto. Permetti che io entri? Qui la santità è altissima. Che io non perda il coraggio, dinanzi alle altezze del divino. Che io non perda la fede, nel divino così arduo. Che io non perda la vita, anche se la morte è sempre dietro le spalle, perchè la società ha seppellito il suo respiro. Che io non perda l’amore, anche se tante volte nel mondo sperimento l’infedeltà. Che io non perda la tua amicizia, anche se nel mondo gli amici si allontanano nel dolore. Che io non perda la giustizia, anche se nei palazzi delle ingiustizie hanno seppellito la verità. Che io non dica mai basta dinanzi alla speranza che hanno nascosta. Che io vada sempre avanti. Che proceda nel dolore fino all’ultimo respiro. Che io vada oltre le mie misure, le opinioni della gente. Che io sia Elia che proceda nel deserto dell’esilio. Si, Elia non è stato rapito da un carro di fuoco. Esiliato nel deserto è morto sotto il solleone delle violenze umane. Ora basta, Signore, che io muoia. Qui, sotto il ginèpro. Qui sotto, il mio cipresso. Non seppellitemi nei cimiteri di marmo. Non seppellitemi nei cimiteri dalle lampade finte e non più ardenti. Qui i santi mi spronano. Mangia, troppo lungo è per te il cammino. Mangia, troppo lungo è per te il cammino dell’esilio, troppo lungo per te è il cammino del tumore. Troppo lungo per te è il cammino dell’incomprensione. Mangia, questo pane, questa focaccia cotta su pietre roventi. Troppo rovente è lo spirito della verità. Troppo rovente è l’anima. Troppo rovente è la giustizia che vogliamo. Troppo rovente è il perdono da donare. Troppo rovente è la vita, intrisa di spine di sofferenze. Troppo ardua è la vita dell’emarginazione. Elia si alza. E cammina per quaranta giorni e quaranta notti. Oh! Ditemi! Qual è quel pane che ci sostiene per così tanto tempo? Dove trovarlo? Quel pane caldo, cotto nella fornace della nostra anima. Quel pane di santa Teresa di Gesù Bambino. Quel pane di santa Teresa d’Avila. Quanti giorni e quante notti nutrita solo da quel pane. Quel pane, disceso dal cielo e rovente di spirito di beatitudini e di giustizia? Troppi sono i santi affrescati in san Giulio. Tuttavia c’è spazio per tutti. Per tutti i converti del mondo, anche per me. Giorgio cerca l’entrata dell’abbazia. Io mi fermo ancora a contemplare la santità della chiesa. Il compito della chiesa è essere santa. E’ il sacramento della salvezza di Cristo nel mondo. Mi parla l’affresco del Padre eterno con le sue braccia aperte e paterne che sorreggono la croce del suo figlio. Mi sento più leggero. Mi sembra che sostenga anche la mia. Qui il silenzio della croce diviene dialogo d’amore. Qui il silenzio della croce diviene parola vivente. Mi assorbe la luce. Un raggio di sole è più splendente nelle tenebre. Mi sento indegno di dialogare con Dio. Parlo di lui e non lo conosco. Lo nomino e non lo avverto dentro di me. Mi piombano ancora lacrime di un cuore penitente. I tuoni e i fulmini sono più leggeri. La tempesta del cuore è più agitata. La bufera fuori ti fa male solo se dentro sei agitato. Nel momento in cui sei tranquillo riesci a sedare le tempeste delle ingiustizie umane. La tempesta sedata è solo dentro il cuore. Per gli apostoli, dal momento in cui hanno riavuto fiducia in Cristo, la tempesta è divenuta bonaccia. Si può camminare sulle acque delle bufere. La Basilica è buia, ma lo sguardo è mistico. Donami, Signore uno sguardo di pace. Che io non contamini nessuno. Che io non possegga nessuno con i miei occhi. Che io veda solo il bene e con la tua mitezza dissolva il male che i miei occhi possano incontrare. Sia il mio sguardo un perenne dono della tua pace, della tua mitezza, della tua bontà e del tuo perdono. Sia il mio sguardo la tenerezza della tua Divina Misericordia. Che io non perda l’amore, anche se nel mondo ha perso le ali. Che io non perda il coraggio, anche se nel mondo ti propongono solo sconfitte. Che io non perda la fiducia in te, tu che hai vinto il peccato e la morte. Che io abbia membra e cuore del tuo corpo e del tuo sangue. Non siano ambigui i miei pensieri, anche se nella società scopro solo calunnie e menzogne. Non mi accada che ingannando il prossimo con le condanne e i giudizi, inganni me stesso e rinneghi te, Signore della verità. Non mi accada che uccidendo gli altri con i miei pregiudizi, mi trova più morto di chi ho ucciso e di coloro che mi vogliono uccidere. Il dolore dello spirito mi prende. Mi tormenta l’anima. Stavo perdendo l’infanzia dello spirito, nel credere che non è possibile che il mondo viva totalmente in pace. Rischiavo di non credere a quello che tu in noi credi. Rischiavo di rendere un fallimento la forza del tuo stesso amore e del tuo spirito. Che io non perda l’ottimismo, pur sapendo che il mondo ha scoperto il nucleare, posseduto solo dai ricchi. Che io non perda il desiderio di vivere, oltre le lacrime, oltre il dolore, pur sapendo che il patire è anche il respiro stesso della nostra vita. Che io non perda i miei amici, pur sapendo che con le giravolte che il mondo dà, talvolta escono dalle nostre vite. Che io non perda il desiderio di aiutare sempre, la solidarietà della vita, anche se non riceverò un grazie o un gesto di riconoscenza. Che io non perda l’equilibrio nel discernere il bene, pur sapendo che molti vogliono che io soccomba. Beato chi si affida a te, ritroverà la via dell’innocenza. Ho rubato nelle omelie la tua gloria. Ho rubato i tuoi sacramenti, fermandomi in essi e non trovando te. Eppure tu mi sei stato sempre vicino. Tu ti consumi per me. Mi fremi il capo di vertigini. Mi rimbomba la morte. Che devo fare? Mio Signore, ti prego non andare oltre. Fermati, qui, voglio solo servirti e amarti. Che devo fare? Vuoi la mia vita? Eccola. Non capisco niente in quest’abisso di santi. So che mi ami e procedo oltre la mia stanchezza. Procedo oltre la mia incertezza. Procedo. Ho la letizia di amare te, o crocifisso della mia vita. Ti fai pazzo per farmi totalmente nuovo. Ti fai pazzo per donarmi il tuo corpo e il tuo sangue. Questa Basilica è piena di silenzio e odo i santi. Odo il silenzio parlare. Odo gli angeli cantare. Chiudo la mente al dubbio e mi affido. Offro la mia croce. Offro la mia mente roboante di dubbi e di fracassi. Ti offro il mio corpo lacerato di collassi. Mi alzo e passeggio lungo le navate. Giorgio ritorna. “Andiamo, l’entrata è dal di fuori”. Continua a piovere. Riprendiamo la via del silenzio. Procediamo sotto un unico ombrello. I viottoli sono pozzanghere. I vasi ai balconi straripano rigagnoli. I tetti di ardesia mi incantano fantasia. Il cielo tuona ancora. Non si stanca mai di infliggere dolori. Non mi lascia quieto un istante. Non mi vuole mollare. Mi perseguita l’anima e tutto il mio passato. Mi lacera il corpo sotto il passato. Che fatica sto recando a Giorgio. Sembra che mi legga dentro e conosca tutto il dialogo che ho cantato in Basilica. Ha rispetto. Non mi chiede nulla. Sa tutto però. Entriamo nella portineria dell’Abbazia “Mater Ecclesiae”. Ci accoglie il sorriso di una benedettina giovanissima. Dio si prende le più belle. Il sorriso bacia Dio. I sorrisi sono di Dio. I baci provengono da Dio. La suona manifesta la sua attesa: ”Il segretario del vescovo, padre Gianluigi, ci ha avvisati, esclama. La nostra madre è subito da voi. Potete entrare, accomodatevi nella sala di attesa”. Sfoglio pagine del volume dell’Abbazia. Quant’arte! Quanta bellezza! I santi hanno scritto per Dio. L’attesa è di qualche minuto. Sento i suoi passi. Presenza umile. Presenza accogliente. Presenza minuta e soave. “Sono contenta di incontrarla. Viene dalla Sicilia, padre”. Mi apro. Mi sento bene con lei. “Vengo da Messina. Sono stato parroco di santa Lucia, chiesa accanto all’Ucciardone di Palermo”. “La nostra abbazia, fin dall’inizio, ha avuto un dialogo sereno e aperto con i detenuti, interviene familiarmente suor Anna Maria Cànopi. Una volta sono giunti in tanti. Può immaginare quante guardie, poliziotti e carabinieri. Ho dialogato da sola con loro. Quanti drammi! Quanti crimini! Mi scrivono tuttora. Mi scrivono per una preghiera. Mi scrivono per un consiglio. Sono contenta, mi parli della sua chiesa”. “ Sono qui, anch’io per chiederle una preghiera. La prego faccia pregare le sue consorelle. Sono qui solo per questo”. “ Sia certo che pregheremo per lei. Sia sicuro”. “ Ecco, procedo, non mi sento a disagio, nel ’90 il cardinale Salvatore Pappalardo ha benedetto il Centro Sociale “ Dipingi la pace “, al Borgo Vecchio, un quartiere al porto di Palermo. “ Sono stata a Palermo. Non dimentico il Convegno delle Chiese d’Italia. Poi a san Martino delle Scale, a pregare e a parlare con le suore benedettine” “Certamente ha incontrato l’abate Ildebrando Scicolone”. “Certo, mi conferma con il suo volto lieto di fraternità”. Mi vola la mente e il canto a Palermo. Ho istanti chiusi. Mi vola il ricordo. Mi vedo nelle strade del Borgo vecchio ad annunciare l’amore di Dio. Ecco ricordo: “ Il mio Dio è tutto ciò che l’uomo ama. E’ anche e soprattutto tutto quel” diverso” che non vediamo. Tutto ciò che tu sogni. Tutto ciò che ami sinceramente. Dio è il pulito di te. Dio è tutto ciò che tu qui al quartiere non hai. E’ tutto quello che tenta di raggiungerti. E’ tutta la tua speranza. E’ tutto il tuo amore puro, sincero. E’ tutto ciò che tu vuoi che sia vero. E’ tutto ciò che ti può sorprendere di gioia e di letizia. E’ tutto ciò che speri che presto si verifica e ti accada di bene. Dio non ti dimentica. Cammina sulla tua stessa strada, qui, al Borgo. Qui, vicino alla tua casa. Qui, seduto al tuo mercato. Qui ad attendere che tu speri il meglio, il buono, il vero. E’ tutto quello che nella tua casa è più sacro. Quante omelie ardite e calde nelle strade del Venerdì Santo. Quante sante messe di fervore e di speranza sulle strade della droga. Quando comprendi che tutto passa nel nulla, quando tocchi il limite delle cose, quando sai che tutto finisce, come l’amore, il marito, i figli, allora gridi all’impossibile di Dio. Gli sputi in faccia il tuo grido di dolore e di avvilimento, il tuo lamento di fallimento. “ Perché, tutto questo, o Dio”! Quante volte abbiamo superato le frontiere dell’impossibile patire. Quante volte abbiamo superato la vergogna del vivere. Quante volte, nel rifugio della preghiera, abbiamo nascosto la nostra vergogna di essere cristiani freddi, senz’anima. Allora, cari fedeli, avete cominciato a desiderare qualcosa di “diverso” che il quartiere non vi poteva dare. Qualcosa di diverso che è dentro l’uomo non fatto solo di carne e di speranza di tempo. Quel qualcosa di diverso ci ha fatto molto patire. Quel qualcosa di diverso ci ha resi vulnerabili presso i violenti. Questo ”altro”, questo” più”, questo “diverso” è tuttora la mia speranza per voi. Non accontentatevi di patate bollite o di calia che i potenti nelle feste elargiscono per farvi stare zitti. Quanti pensieri in un ricordo, carissima madre Anna Maria Cànopi. Ecco sono qui a versare il calice della mia sofferenza. Calice che si è riempito con tutte le lacrime della mia gente. Calice che trabocca di speranze. Il mio Dio comincia dove si versano i dolori della gente. Il mio Dio è dietro ogni disillusione. Dietro ogni orcio di acqua. Dietro ogni sete d’uomo. Non è questo forse il desiderio di Cristo espresso alla samaritana, di adorare Dio in spirito e verità? La verità al Borgo vecchio uccide. La gente ha sete di verità e tuttavia si silenzia di attesa. Carissima suor Anna Maria Cànopi, non so dirti che le mie ribellioni. Non so dirti che le mie sconfitte. Non so dirti che le mie perdite. So anche che la gente prega ancora e spera. So anche che la gente non si è ribellata sui giornali con marce e frastuono. Non è acqua che toglie la sete. Non è sorgente che perdura nel cuore. Non è fonte che zampilla nell’anima. La mia gente sta scavando un pozzo profondo dove annidare le lacrime del mondo. L’uomo, come essere creato, continuerà ad avere sete di più, fino all’infinito, sempre. Questo sempre sta toccando la mia gente. Gente semplice toccata ora da Dio. Del resto Cristo ci ha svelato il Dio infinito di misericordia, mai totalmente compreso dal cuore e dal pensiero dell’uomo. La mia gente nel dolore ha toccato l’infinito di Dio. Questa è la mia gente. Questo vive la mia comunità ecclesiale. Che dire dinanzi a tanta speranza! Che dire dinanzi a tanto sospiro! Oggi la mia gente ha accostato le sue labbra al costato di Cristo, alla sorgente che non finisce mai. E’ meravigliosamente inesauribile. Nel dolore ora è simile al crocifisso che nel silenzio dell’attesa adorano. Ecco il mio sfogo. Mi manca la ma comunità. Mi manca la mia sposa. Ho provato ad accettare il dolore, ho provato ad offrirlo, ma non riesco ancora a desiderarlo”. “ Si fermi ai primi due, interviene la madre con soavità, con l’assenso fragile e mistico. Bastano i primi due… Non ti preoccupare. Dio ti è vicino”. Il suo sguardo si posa su di me senza pregiudizi. E’ candida. E’ una bambina tenera di innocenza. La sua risposta non è categorica. E’ umana. E’ semplice, ma altrettanto profonda. Mi distraggo, poi mi riprendo:” Ho portato con me una copia del notiziario “ Dipingi la pace”. Una copia della “Lettera a Gesù Cristo”. Gli ho scritto una lettera. Attendo una risposta”. “ Ti risponderà, interviene con certezza suor Anna Maria Cànopi. Ti risponderà, ben presto. Lui non ci lascia delusi”. Le presento anche il libretto “ Due amici raccontano la libertà”. Ci sono pagine di speranza, di progetti e di solidarietà di due preti. Ci siamo abbandonati all’incredibile, all’inesauribile. Abbiamo scoperto il lato debole di Dio e la sua impotenza dinanzi alla potenza dell’uomo. Gesù Cristo è stato nella nostra storia l’unico personaggio che non siamo stati capaci di “digerire”. Non entra nella lista dei morti. E’ il presente nella nostra storia, non solo di preti. E’ il risorto nelle nostre azioni di amore e di solidarietà. Ci ha cambiati mille volte. Ha cambiato l’architettura della nostra storia, ha cambiato il sorriso del nostro dolore. I nostri libri passano, anche se con premi letterari, l’unico che non riusciamo a dimenticare è il Vangelo. Sempre nuovo, sempre sgorgante di acqua fresca e rinfrescante. Mi hanno entusiasmato tanti libri, tante pagine. Ora non più. Ho imparato a leggere le pagine della coscienza di Dio nelle mie membra, nelle mie vene, nel mio stesso spirito. Che profonde. Che inesauribili. Se vuole queste copie le può donare alle sue consorelle”. “ Certo, e anche per gli ospiti che ci vengono trovare. Qui in portineria c’è una piccola biblioteca per tutti. “ Mi deve perdonare, carissima Anna Maria Cànopi, vedi come ardisco? Vorremmo un suo scritto per la nostra editoria della solidarietà. Ogni mese inviamo un libretto di valori ai nostri soci sostenitori, per sovvenire ai bisogni dei ragazzi e delle mamme che seguiamo a Palermo, presso il Centro “ Dipingi la pace”, accanto al carcere di Palermo. Noi lavoriamo a Palermo dall’84, con enormi difficoltà. La prima, da noi accettata e voluta, portiamo avanti la solidarietà con i contributi dello Stato, ma unicamente con la Divina Provvidenza. Non ci ha mai lasciato una volta a secco. Ogni mese quindi stampiamo un libretto di poesie, sul vangelo, racconti, favole per sostenerci nell’impresa della solidarietà. Ci piacerebbe che un suo scritto potesse sollevare un ragazzo bisognoso e farlo crescere sulla via del bene. Tanti hanno seguito questo sentiero con le Borse di Studio, intitolate “Dipingi la pace”. Qualcuno si è laureato. Ecco, dalla strada alla laurea. Siamo convinti che la strada della cultura e della coscienza è la via buona per liberare i giovani dalle mafie e dai pericoli che la società costruisce”. “ Si, volentieri. Te lo manderò. Dammi del tempo”. “ Non c’è fretta, rispondo. Quando vuole. Un suo scritto sulla Parola di Dio. Una sua “lectio divina” su una parabola di Gesù Cristo”. “ Va bene. La scriverò. Sono felice di farlo”. Giorgio assiste assorbendo con gaudio tutto il dialogo tra me e la badessa. Parliamo ancora di Palermo e dei carcerati. Come attuare la beatitudine: ” Ero in carcere e siete venuti a visitarmi?” Quanti permessi ci vogliono del magistrato di sorveglianza. Quante raccomandazioni per visitare un carcerato. Quanti dubbi su di te che vuoi andare a visitarli. Carissima suor Anna Maria Cànopi, non so dirti altro che la ribellione del mio cuore nel sapere che un mio ragazzo, al Borgo vecchio, ha ucciso un suo compagno di classe. Che fallimento la mia vita di insegnante. Li ho rivisti insieme a dipingere la pace, a scrivere lettere ai bambini libanesi, iraniani e americani. Quale delusione vivere ancora? Come giungere a quel giovane che certamente nel cuore è più morto del suo compagno?” “ Mi assicura che Dio ama tutti, anche chi, nella sua sfortuna, ha ucciso”. Poi mi parla dei suoi impegni. Ieri ero a Biella. Sei proprio fortunato, se fossi venuto ieri, non mi avresti trovata. Sono stato a Biella, perché abbiamo aperto un’altra abbazia. Abbiamo mandato 14 consorelle ad aprire una nuova speranza. Qui siamo in 70. Il Signore ci benedice con consorelle giovani e buone. E’ bello in questo tempo magro di vocazioni, sbalordirci con la consacrazione di giovani”. Giorgio le ricorda il monastero di…..Suor Anna Maria Cànopi risponde che non va ancora bene. Poi ci invita a pregare e ad affidarci alla Vergine santa. Intanto il mio cuore vola ai ragazzi al Borgo della Pace.
Paolo Turturro
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Un grande dono di solidarietà.
Siete venuti finalmente. Siete venuti con il cuore dl grazie. Siete venuti a Palermo dove Rosario e Graziella hanno atteso tanto e hanno sofferto tanto. Siete venuti con gioia dimentichi di tanto dolore. Siete venuti in tanti a ringraziare il dono della gioia. Sembravi uno sposo, caro Rosario. Non ti riconoscevo più. Tu che hai vissuto il coma. Tu che hai vissuto il trapianto dei tuoi reni. Tu che, blindato di tubicini, non riconoscevi nessuno all’Ismett di Palermo. Siete venuti traboccanti non solo di gioia e di grazie. Traboccanti di alimenti, di riso, di pasta, di latte, di marmellate, di fiori secchi, di lavande profumate per profumare la solidarietà. Siete venuti e non ci avete permesso neanche di preparare il pranzo perché ognuno di voi ha cucinato il meglio di sé per pranzare assieme. Le olive di Giampilieri sono state le migliori perché sofferte a terra dal dramma dell’alluvione. Siete venuti per incantarvi del Borgo della pace, Siete venuti ad ascoltare una favola Zen, dove migliaia di giovani hanno spaccato pietre e sudori per costruire un luogo di pace e di spiritualità. Siete venuti a contemplare il luogo della preghiera dove già dal 94 il Signore mi ha lasciato il segno della continuità nel sacerdoti Comboniani a santa Lucia. Voi solo conoscete i segni di Dio. Voi solo conoscete ciò che è sguardo di Dio. Voi solo conoscete di aver fissato la spada dell’odio per terra per essere croce di perdono e di salvezza. Voi solo conoscete il cammino di una comunità che qui non c’ò più. Voi solo conoscete i fiumi di lacrime nascosti nel cuore per non essere veduti. Voi solo conoscete che questo luogo è da non mollare, perché voluto da Colei che è madre della pace, da Colei che è sposa dell’amore, da Colei che è ancella del perdono. Voi solo conoscete ciò che il cuore attende e soffre ancora. E vi siete ancora meravigliati del luogo tutto ordinato, tutto sereno, tutto quieto, tutto pulito nello splendore dell’autunno siciliano. La meraviglia è del cuore di chi ama. Non si stupisce chi ha il cuore incatramato. E noi, piccoli servi della pace, e noi piccoli servi dell’attesa, vi abbiamo accolti con stupore nel sapere che Dio ama tanto chi soffre, nel contemplare nei vostri occhi che Dio ci sostiene nel nichilismo più assurdo del fallimento. E siamo attesa di gioire. E siamo attesa di sperare. E siamo attesa di contemplare ciò che Dio ci ha ancora preparato. E siamo attesa di amare chi non può essere amato. E siamo attesa di amare ogni istante, ogni dolore, ogni persona perduta, ogni attimo di cellulare che ci ferisce prima di sapere. E siete venuti senza programma se non quello di ringraziare e di amare. E siete venuti con lo sguardo della gioia, con lo sguardo dello stupore, con lo sguardo della solidarietà. E siete venuti per versare nel cuore qualche goccia di sicurezza, qualche goccia di certezza, qualche goccia di sapore di Dio. E tu, Rosario, nuovo sposo della speranza, nuovo sposo di una vita nuova, sei per noi, qui, piccoli servi dell’attesa, segno concreto che Dio ci ama. Lo sposo non può non amare. E qui ami senza carne, e qui ami senza baci, e qui ami senza abbracci, e qui ami con il silenzio che Dio ti ha donato e che Dio stesso ama. Ci sono dei giorni nella vita che sono segni miliari. Segni del cielo, segni invisibili all’occhio distratto di amore. Segni che incidono l’anima con operazioni senza sangue, senza DOLORI. Il tuo essere sposo della comunità di santa Lucia di Giampilieri ci ha folgorati di speranza. Siamo certi che anch’io nel coma del fallimento il Signore mi vestirà di sposo nuovo. Siamo certi che anche noi vestiti di sudario prima o dopo risorgeremo alla gioia e alla certezza che Dio ha operato in noi la sua opera di salvezza. Siete venuti e senza accorgervene avete scavato in tutti noi, piccoli servi dell’attesa, un solco profondo di lacrime che irrorerà, in questo nuovo anno di solidarietà per gli ultimi, campi fertili di gioia e di amore. Grazie sposo dello spirito che mai invecchia. Grazie. sposo dell’anima che mai si spezza. Grazie, sposo della nuova chiesa che mai crolla.
Tuo Paolo.
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IL PASTORE INNOCENTE
Realizzo ciò che è necessario. Faccio il possibile. Dio farà l’impossibile in me. La mente è come una sorgiva, trabocca sempre e non mi accorgo che irroro anche il deserto. Appena mi sveglio, penso. Cammino, penso. Respiro, penso. Contemplo, penso. Lavoro, penso. Prego, penso. Annaffio l’orto, penso. All’aurora non perdo la luce e penso già il tramonto. Nel dolore allargo le braccia per non disperare e penso che ognuno di noi è nato per gioire. Il giorno è una fucina di concetti. Nella notte arrotoli i poemi. Mi definiscono un distratto, perché penso. E io tutto ciò non l’accetto. Non posso convincermi che pensare è un’alienazione. Non appesantisco il mio bagaglio di concepire di essere a danno degli altri. Mi scoccia legare i lacci delle scarpe. Preferisco i mocassini. Non ho mai legata la mente. Non ho mai imbrigliato un’idea per paura degli altri. Ho piedi screpolati e tutti mi chiedono: “Che fatica faccio”. Nessuno sa che le convinzioni sul bene sono più pesanti del piombo. Il mio amico mi confida che si spazzola i pantaloni da solo. Poi aggiunge che quando lo fa sua moglie, sono più ritti e più belli. Mi sbarbo ogni giorno, tanto che lo specchio si è stancato di vedermi. Mi taglio le unghie al punto giusto, per questo non sono capace di graffiare alcuno. Mi gratto spesso la testa, tanto che mi sanguina dappertutto. I miei amici mi dicono che faccio bene a far uscire il sangue pazzo di tante idee. Io non credo che le idee hanno sangue. Io scrivo sempre. Nei vagoni del treno mentre le campagne di ulivo e di mandorli mi scorrono sugli occhi. Sull’aereo, mentre i cumuli di nubi mi ovattano il volto. In chiesa, mentre i vespri cantano i drammi della gente. Al cinema, mentre le fiction sono vere. In piazza, mentre la gente corre all’impazzata per non sentirsi di essere. Sul lungomare, mentre le onde della mente mi creano burrasche. Sotto il viale dei tigli, dove l’amore è sempre più fresco. Mentre zappo, per sfogare la penitenza del cuore. Mentre dialogo con tortore e colombe per sentirmi dentro il cielo. Alla mattina presto fischio ai cavalli e mi risponde per primo la papera. E’ proprio vero, avverte più degli uomini l’importanza del dialogo. Soffre la solitudine e la mancanza dell’acqua. Mi diverto al farle la doccia con la poppa a getto d’acqua. Poi nitrisce Luna, la cavalla del Borgo della pace e Furia suo figlio mi morsica le mani. Luna invece è delicata nel prendersi le zolle di zucchero. Furia invece mi morsica tutte le dita per assaporare di più la dolcezza dello zucchero. Mi ha strappato tante magliette a forza di manifestare il suo affetto. A me piace togliere le foglie secche non solo ai gerani. Poto le foglie, a lance, delle dracene. Rendo i loro tronchi svettanti al cielo. Vorrei rendere ogni cosa sublima per Qualcuno che certo mi segue nei miei passi, fin dall’aurora del tempo. Rastrello i prati e ammucchio tutto il fogliame nella fossa del concime biologico. Diviene un ottimo fertilizzante naturale. Io cammino secondo natura e sento che naturalmente mi porta al divino. Che strano concetto! Dicono che il creato è imbevuto di peccato originale. Io invece mi affascino di Dio dinanzi alle sue meraviglie. Più sono naturale e più scopro Dio dentro di me. Il creato è un vivaio di solidarietà e di Provvidenza per tutti. Ho imparato a dialogare con la mia papera. Cambio l’acqua e pulisco le ciotole del cibo ogni mattina. Poi mi chiede con il suo petto agguerrito verso di me che desidera la doccia e io non ci sto molto a capire. Poi esco subito dal gazebo prima che con le sue ali spiegate mi spruzza tutto, dalla testa ai piedi. Il mio cane è geloso e mi sfilaccia con i suoi denti la punta dei pantaloni. Mi lecca le dita e poi si azzuffa con l’altro cane più grande di lui. E’ un cane pastore e mi controlla bene non solo le pecore ma tutta l’entrata del Borgo della pace. Anche i cani non vogliono perdere il potere. Non si allontana dalla postazione finché non sente lo scampanio del gregge. Allora sfreccia le sue zampe e corre verso gli agnelli. E io con il lancio preciso di un cappio la lego al cancello. Meglio così, altrimenti i pastori me l’avrebbero fatta fuori già da tempo con polpette di vetro. Conosco Fabio, il pastore più giovane. Con la fiocina a tracollo. Sembra un Davide. Contempla anche lui il creato e mi confida intuizioni sante. Ogni mattina è lì, sul bordo dei campi, a seguire non solo con la sguardo il brulicare delle sue pecore. Ogni alba è lì, seduto su una grossa pietra a interrogare l’orizzonte e i monti. E io non so rispondere alle sue profonde domande. Non so rispondere a ciò che lui mi chiede oltre. Ogni alba è lì, a sognare l’innocenza non solo degli agnelli, ma del suo cuore, del creato. Ogni alba, è lì, a sapere del cielo e della terra. Ogni alba è lì, finché una mattina non lo vidi più. Mesi interi senza vederlo. Mesi interi il gregge tutto solo. Mesi interi, finché un giorno venne a trovarmi sua sorella. Era con lei. Non lo riconobbi più. Il suo volto stravolto. Gli occhi smarriti non più nel cielo dell’innocenza. Mi fissava con incertezza. Mai visto così. Grasso e trasudato. Grasso e smorto. Non riuscivo a capire come un giovane pieno di entusiasmo e di vita felice nei campi, potesse divenire un uomo sfatto, fallito, avvilito. Che strana cosa il male. Debilita un corpo e demoralizza lo spirito. Tremava tutto. La sua mano non era più quella del saluto di ogni alba. Capii che Fabio cadde in depressione solo perché vide suo padre sgozzare un agnello per la Pasqua. Il padre diceva:”E’ la Pasqua!” Il padre diceva:”Figlio mio, gli agnelli sono fatti per far festa!” E Fabio non capiva che per far festa bisognava uccidere i suoi agnelli. Gli venne una crisi terribile che debilitò in una profonda depressione. Depresso per salvaguardare l’innocenza dei suoi agnelli. Depresso per non accettare che si può far festa nello sgozzare un agnello. Quando capì poi che Qualcuno si offrì come un agnello per liberarci da ogni depressione, uscì dalla sua morsa dell’oppressione. Capì anche che la gente considerava soggetti pericolosi chi credeva all’innocenza di non uccidere anche un agnello.
Paolo Turturro
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L’eden degli occhi
Il cielo si è seduto in casa mia. Il miracolo è la tua volontà di non mollare mai. Non arrenderti al male. Non avere sfiducia nella volontà di Dio. Non ha mai disceso le scale della diplomazia. Il compromesso è frutto della stoltezza. La mia anima non ha confini. Non mi sono circondato di ramponi di ferro per scoraggiare i ladri. La luce è l’appetito della sapienza. Freno in tutti il precipizio del peccato. Il male è più debole di un tronco di mimosa che si frantuma al sospiro di ogni vento. Dinanzi al travaglio disonesto della mente anche il cielo diventa di pietra. Ti sei mai reso conto che nella fatica del tuo odio ti restano dentro solo metastasi di cancro? Sei cartapesta ingiallita di pelle di odio. L’inganno ti alletta e ti piomba subito nella depressione. L’ira ti infiamma a incenerire la tua stessa dignità. Sono le ali degli innocenti a far spuntare il nuovo giorno. Ognuno di noi ha sempre un’ala di riserva donatoci da Dio. Tu con il tuo bene sei la mia ala di riserva. Tu con la tua speranza sei la mia ala di riserva, per volare sulle diatribe di questo nostro tempo così asciutto di carità, così asciutto di volontà, così asciutto di giustizia, così asciutto di volere il bene comune. Le bufere delle malizie si rovesciano su chi l’inventa. L’avvenire della verità non è mai un’incognita. Io obbedisco alla verità di Cristo. La coscienza non ha incognite da risolvere. Nei giorni dell’esilio mi sono interrogato tante volte. Ho messo a nudo persino la mia esistenza. Alla fine mi sono ritrovato ricco di poveri come me stesso. Donare discernimento fa bene a se stessi. Ho unito le mani di tutti i viventi e senza sapere ci siamo trovati in un altro pianeta: il pianeta dell’amore. Tu ancora dubiti e mi dici:” E’ una pura pazzia. Dov’è?” E’ così vicino a te. E’ la mano del tuo vicino. Ho armonizzato le voci di tutti gli innocenti. Ora senti anche tu il nuovo concerto di pace dei popoli che si rispettano nel profondo di ogni fede. O Cristo, voglio buttarti giù dal trono della tua condanna. Mi si risusciti la mente nel pensarti come sei e non come gli uomini ti hanno imbrattato in nicchie di sterili leggi e di comandamenti. A te non si può comandare la mente. Sei uno spirito più libero della luce. Nessuno ti può comprare, neppure la chiesa. Sono qui nella notte dei poveri. Mi chiedono delle candele usate per illuminare i loro cartoni. Tu povero non sei a provvigione. Dormi cartoni e marciapiedi. Ai poveri non si inceppa mai la testa. Ciò che pensano già tutti lo sanno. Sui poveri c’è da scommettere la vita. In me tutto muore. Ultimo a morire è il sapere. Non muore mai l’amore. Io non credo che le armi possano difendere la pace. Io non credo che la morte sia l’ultimo respiro della vita. Io non credo che soffrire sia una penitenza. Io non credo che i soldi siano indispensabile per realizzare opere di carità. Io non credo che ancora dobbiamo dividerci nella fede. Io non credo che dobbiamo ucciderci per fede. Io non credo che una legge che opprime un solo uomo sia da rispettare. Io credo al Dio della pace che ama tutti i popoli senza nessuna distinzione. Io credo al Dio dell’amore che non permetterà che nessuno si perda. Io credo agli occhi che ti invitano a sovrumane trasparenze. Io credo nel mio fallimento di reclinare il mio capo sulle spalle del mio maestro. Io credo alle mani callose degli operai che spezzano sereno il pane in casa. Io credo al cuore che non fa distinzione nell’amare. Io credo alla mente che ti avvicina immediatamente senza reticenze alla sapienza di Dio. Io credo al pane spezzato dell’eucaristia non soltanto sull’altare. Io credo che Dio sia il respiro di ogni bontà, lo sguardo di ogni bene. Io credo che Dio non si scandalizzerà se hai amato più il povero della notte che le lunghe sterili tue preghiere. Io credo che gli occhi della fede aprono concretamente il paradiso sulla terra. Preferisco il paradiso. Ti ringrazio della solitudine che mi hai regalato. La tengo preziosa dentro di me più di un tesoro di poemi. Io credo che la gioia più grande che possa sentire è quella di essere amato da Dio. Dio proprio mi basta.
Paolo Turturro
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Mi sono perduto in te
Mi sono dimenticato di farmi santo. Ho dimenticato le mie mani giunte a terra. Mi sono scordato la preghiera e il canto. E mi infiammo come un rogo che non diventa cenere. Ho ancora lacrime dettate dalle pietre. Non ho che un pallido volto di Dio dentro di me. Ora mi lavo la faccia per vederti meglio. Sto uscendo finalmente dal diluvio dei dubbi. Sono giunto dove il pane diventa eucaristia. L’uomo saggio procede con le spalle piegate. Schiacciato da dorsi di pietre, da dorsi di invidie, da dorsi di menti grette, da dorsi di pugnalate, da dorsi di coscienze amare e malate. Signore, tu sei la fortezza e crolli sotto le piaghe del golgota. Tu, in ognuno di noi, hai stabilito un muro di bronzo e tu cadi sotto il peso di ogni uomo. Tu sei nel grembo della luce e le tenebre ti hanno infisso nei pali della croce. Tu sei l’olio crismale che ci fa tuoi profeti. Tu sei la chiarezza della sapienza e ti hanno fatto impostore per un patibolo. Tu nato dal cielo e vieni qui sulla terra a salvarci con il fallimento, cacciato fuori delle mura di ogni città, di ogni uomo, come un lebbroso che vive nei sepolcri. L’uomo ascolta senza comprendere il divino. Solo i poveri si meravigliano della tua grazia, perché non si scandalizzano della tua parola. Tu sei le labbra che non si chiudono alla parola. Come Dio può curare se stesso? Il superbo innalza l’affronto su Dio che non può esistere. Ogni volta che l’uomo non comprende innalza l’affronto della non esistenza di Dio. Il povero in spirito invece si meraviglia e scopre in ogni respiro dei viventi la presenza di Dio. Il povero in spirito legge la parola di Dio in ogni orizzonte, in ogni aurora, in ogni mano piegata di stanchezza. Dio è l’ultimo ad essere creduto. E pur legge il cuore. E pur legge le lacrime. E pur legge ogni pensiero nascosto. Il pieno di sé non può riconoscere nel suo spirito ciò che viene da fuori, ciò che viene dall’alto. Io so che abito nelle piaghe più laceranti dell’anima. Io so che solo dal di dentro mi viene sanato il cuore. Io so che ogni uomo sotto il cielo della bufera cerca un consiglio di rifugio. Quante lebbre nel cuore. La lebbra dell’odio, la lebbra della cattiveria, la lebbra del denaro, la lebbra dell’inganno, la lebbra delle calunnie. Solo tu che hai toccato i lebbrosi puoi guarirci da ogni lebbra. Tu hai il coraggio di esistere nonostante secoli di dubbi e di guerre di peccati su di te. Quanti palazzi, quante curie, quante sinagoghe ancora oggi ti interrogano per cercare qualcosa per accusarti. Ancora oggi ti cacciano per non esistere. Ti cacciano dalla loro esistenza per non esistere. Qualcuno ti vuole portare ancora su un alto monte per precipitarti per sempre nel nulla, senza sapere che tu lo soccorri nelle cadute dell’odio più pesante. E tu ancora una volta passi in mezzo a noi e vai oltre. Vai oltre il nostro odio. Vai oltre il nostro cuore. Vai oltre il nostro vedere. Vai oltre il nostro pensare. Vai oltre il nostro meschino credere. Noi non possiamo innalzare lo sguardo oltre le nostre misure. Siamo sclerotici di mente e di cuore, per questo non ci è dato di elevare il cuore all’altezza del tuo amore. Vai oltre le nostre barriere di riti. Vai oltre le nostre certezze limitate di salvezza. Solo pochi si salvano e l’inferno è stracolmo di gente? Ti celebriamo a solo condizione che tu non ci sei fin troppo scomodo per credere. Ti celebriamo perché tu possa essere buono solo con noi. E’ proprio vero dentro l’orgoglioso c’è un acido che rigetta ogni bene. Io sono perduto, qui sulla terra, a credere nella tua infinita misericordia. Io sono perduto, qui sulla terra, a credere alla forza della tua croce. Io sono perduto, qui sulla terra, a mettere in pratica il tuo vangelo. Nel deserto dell’invisibile ho scoperto orme e vestigia umane. Ho scoperto lassù che il cielo è umano. Altri volano l’infinito. Altri cantano la sapienza. Altri godono il tempo. A me solo è dato di bramire le pietraie. Né un’ortica per salute. So fare solo il niente. Forse basta a non peggiorare. Viaggio solo a sapere ciò che è amore e carità. Io non sono perduto a credere in te che hai creato un universo di meraviglie. Io non sono perduto in te, tu che mi hai portato con forza fin sulla tua croce. Io non sono perduto in te che mi fai nuovo dopo ogni peccato. Io non sono perduto in te che mi esali di divino il cuore, già qui sulla terra. Io non sono perduto in te, Dio che fai l’amore con ogni vivente. Tutto ho provato nel vuoto della mente. Da te mi separa il vento. Da te mi separa il fuoco. Da te non mi separa il nulla. Tutto sono ciò che tu sei. Paolo Turturro
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Cammino la felicità.
Sono un mendicante. Vagabondo la felicità. Il peggior peccato che si commette nella vita: essere infelice. Sono seduto, come un mendicante, alla porta della città dell’amore. Sono infelice perché il cuore non canta più passioni. Sono infelice finché non sarò per sempre con te, o Dio. Assieme, assieme saremo felici. Sono infelice perché tu, e non io, o Dio, non sei onnipotente a togliere il soffrire. Sono infelice, perché tu, e non io, o Dio, non sei preveggente a scardinare l’indifferenza della gente. Sono infelice, perché tu, e non io, o Dio, non sei capace di chiudere per sempre la notte del male. Sono appunto infelice perché non muore il male. Sono infelice perché ho visto scorrere sul volto della gente più lacrime che sorrisi. Sono infelice perché nel creato vive con noi la morte. Sono infelice perché ho visto più giorni di guerra che di pace. Eppure non cambierei un solo giorno di ieri per tanti giorni di domani. Non mi esaurisco. Dentro zampilla la sorgente del creare. Dentro mi zampilla la ninfa della gioia. Più sono infedele ai giorni del tempo e più mi sento libero. Ti rendo grazie, Signore, per la paura dell’urlo delle rocce, così non mi attaccherò futile al tempo. Ti rendo grazie, Signore, per il gelo che chiude la primavera, così non mi innamorerò soltanto dei profumi della terra. Sono una roccia dalle radici di luce. Sono un tronco radicato nei giorni dei pensieri. Muore per ultimo l’orgoglio senza sapere che la vita ha donato gli occhi all’eterno. Dentro me non sono accapigliati i miriadi di volumi di pensieri. Non sono disordinato. L’intelligenza cresce nella fornace della purezza. E’ difficile mettere in ordine il cervello, come le camere da letto degli inglesi. Il mio nipote è un grande pittore, butta a terra i bicchieri colmi di colori e imbratta tutte le canottiere. Non sono sempre in guerra. Ho ucciso dieci volte la maldicenza. La mia spada è la parola. Combatto con mio nipote con spade di plastica luminose. Scappa sempre. Comprende tutto e al mio fermo mi dice sempre: ”Dimmi tutto”. Mio nipote è un filo da torcere. E’ capriccioso ed è tagliente come il vetro. Suo padre per ammazzare una lucertola di casa ha spezzato una scopa. Mio nipote non è una bandiera al vento. A lui piace Ben10. Lui è lucido come un diamante. Per lui due per due fanno più di cinque. Mio nipote si sente grande perché gli piace stare sempre seduto. Io non mi voglio riempire tutto di vento. Sono abituato a capire che la stanchezza non fa proprio male. Non tutto rivelo ai miei amici. Quelli non vogliono che io sogno, anzi mi rimproverano, perchè sognare è essere infelice. Tuttavia li trovo più meschini di me. Sono rattrappiti di infelicità. Sono scontenti, sempre preoccupati di denaro. Io non ci faccio caso, non solo al denaro. E non mi mancano mai. Mi basta che alla mattina contemplo il mare e dipingo alberi al vento e mi assicuro la giornata di economia. Non dipingo per soldi. C’è sempre dentro me una passione che mi divora. Per questo dilanio i colori. Mi rendo conto che ogni mia idea potrebbe convertirsi in denaro. Io mi rifiuto e la getto nel cestino. Non sono povero in canne. Sono povero in spirito. Chi può conoscere i miriadi di universi e di stelle nelle galassie? I soldi mi fanno schifo davvero. Scivolano nelle mie mani a seminare solidarietà. Non voglio sentire neppure il loro odore. Non sono un Paperone che si tuffa nella bolgia del denaro. Alla mattina mi tuffo nella manica del Signore. Trovo misericordia e sicurezza. Non sono solo. Non mi giro nel letto per trovare una donna che mi ha abbandonato. L’amore è cieco e fa più male quando c’è. Il male è non amare. Il male è la sterilità dell’indifferenza. Ora cammino la felicità, nel sapere che sono sicuro nelle tue mani. Dal di dentro mi hai sanato. Dal di dentro sono ancora il tuo profeta. Dal di dentro nasce la gioia, se pure la croce mi insanguina il corpo. Dal di dentro canta la gioia, se pure non riesco a donare un pizzico di letizia a chi soffre. Dal di dentro navigo la gioia, se pure l’emarginazione mi semina nell’oblio. Dal di dentro mi sazio di certezze e il volto non è più flagellato d’ignominia e di sangue. Dal di dentro vivo la primavera del sorriso, se pure un sorriso non é gioia se non è condiviso. Ora cammino con Dio. Con Lui mi faccio lunghe passeggiate. Quante cose scopre il cuore nel suo dialogo paterno. Quante sue preoccupazioni. Quanto ardire per tutti noi. E’ Lui, in ogni passeggiata, a iniziare per primo il dialogo. Spesso si ferma ora sul ciglio della strada, ora dinanzi a colline pettinate di biondo frumento. Spesso dinanzi al cielo e a orizzonti smeraldi di parole. Mi parla di noi, del suo immenso amore per ognuno di noi. Mi parla dei giorni della creazione. Mi parla dei giorni della redenzione di suo figlio. Mi parla della passione di Cristo. Mi parla dei giorni della rivelazione nel cammino dei popoli. Mi parla di ogni giorno, frammento di crescita e di spiegazione della sua parola. Anche nel tempo la rivelazione si completa e si matura di conoscenza. Quanto silenzio nei suoi passi. Quante domande vorrei fargli, ma ogni volta è così: resto muto dinanzi a Lui. E nel silenzio mi stringi le mani e la nostra passeggiata continua. Continua chilometri di cuore. Continua chilometri di silenzio. Continua cento passi di ribellione. E attendi che il mio finire diventi infinito. Ti schieri a morire per salvarmi.
Paolo Turturro
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UNA CROCE SUL
MONTE CUCCIO
Questa mia nota vuole essere una lettera aperta, indirizzata, prima di
tutto, agli uomini di buona volontà, e, quindi, alla comunità dei
credenti in Gesù Cristo e a quella cattolica, in particolare, della
nostra Palermo, a cominciare da S.E. l’Arcivescovo Paolo Romeo.
Dopo
la visita pastorale del 1982, storica, di Giovanni Paolo II, che fu
certo uno scossone per il risveglio delle coscienze assopite con quel
suo forte richiamo, e sempre attuale, quasi echeggiante alle nostre
orecchie, “Convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio”, che sembra
rievocare l’incontro tra il Cardinale Federico e l’Innominato, di
manzoniana memoria, si attende ora, per il prossimo 3 ottobre 2010,
quella di Benedetto XVI. In considerazione del suo carisma, della sua
levatura culturale e spirituale, ma soprattutto per la sua grande
testimonianza di fede in Gesù Cristo, ritengo che anch’essa sarà
altrettanto incisiva e benefica.
Ora,
partendo dal presupposto, come raccomandato dallo stesso Concilio
Vaticano II, e, in particolare, dalla “Lumen gentium”, che ciascun
cristiano è da considerarsi, con tutti gli impegni concreti che ne
derivano, come elemento attivo e prepositivo, desideroso, cioè, di
annunziare, per attrazione, Cristo risorto e il suo Vangelo, avanzo una
mia proposta, quasi un sogno, perché possa tradursi in realtà: la
collocazione, cioè, di una grande croce, la più imponente nel cuore del
Mediterraneo, da erigere su Monte Cuccio, il più alto dei monti che
circondano Palermo, nella sua incantevole Conca d’oro.
Vorrei, tra l’altro, far rilevare che Monte Cuccio, alto 1047 metri, si
eleva direttamente dalla piana della città con una singolare forma di
piramide conica a base molto ampia. Una piramide, nel nostro caso, opera
della natura, non eretta da mano d’uomo, come in Egitto o in altre parti
del mondo, quasi a volere rappresentare una montagna sacra, di cui le
piramidi erette, soprattutto quelle dell’America centrale, volevano
essere una replica.
Issandovi la croce, quindi, Monte Cuccio diverrebbe proprio la
piramide naturale più sacra del mondo, patrimonio, in questo caso, non
solo dei palermitani, ma di tutti i cristiani, i quali, per la loro
scelta, divengono cittadini di tutta la terra. In ogni caso, la croce,
oltre a rappresentare il segno vivente della salvezza e l’unico mezzo di
“giustificazione” nei nostri rapporti con Dio, anche per i non credenti
essa sta a dire che solo il sacrificio è l’unica misura dell’amore. Chi
ama non ripudia le sofferenze, perché l’amore è tutto, è la vita della
vita.
Un
sogno? Potrebbe anche essere, ma, come era solito ripetere Giovanni
Falcone, “I sogni camminano con le gambe degli uomini”, oppure, come
diceva Helder Camara, il rinomato Vescovo di Recife, “Se io sogno da
solo è proprio un sogno, ma se siamo in tanti a sognare è la realtà che
comincia”. Del resto, come a Rio de Janeiro splende l’impotente statua
del Redentore, così a Palermo potrebbe esserci la più grande croce
d’Europa, per dire a noi e al mondo che solo la croce, sigillo di
carità, nè scandalo nè stoltezza, come fu per gli ebrei e per i pagani,
è veramente la fonte della nostra salvezza.
Il
solo vederla significa incontrare Gesù, per trovare in essa una risposta
alle croci della vita: un incontro d’amore che salva. In questo senso,
c’è un riferimento della storia di Mosè, come ci ricorda San Giovanni
nel suo Vangelo: “ Nel deserto Mosè alzò su un palo il serpente di
bronzo. Così dovrà essere innalzato anche il Figlio dell’uomo, perché
chiunque crede in lui abbia la vita eterna”.
Una
croce sul Monte Cuccio: un segno, questo, non solo per Palermo,
che pure ne ha tanto bisogno, ma per ogni uomo, di qualsiasi razza o
cittadinanza, come riscatto e come rilancio della nostra fede in
Dio, come emancipazione dal relativismo materialistico del mondo
contemporaneo, come àncora di salvezza nel mare tempestoso della vita,
come speranza nella realizzazione di un mondo migliore, nel perdono
reciproco, nella pace e nella fraternità.
La
croce di Monte Cuccio – e già immagino di poterla chiamare così –
dovrebbe avere caratteristiche particolari, a cominciare dall’imponenza.
E’ un richiamo, questo, che avverto nella profondità del mio sentire. Le
sue dimensioni, cioè, dovrebbero essere all’insegna del sette, il numero
che nella simbologia biblica rappresenta la pienezza: non a caso sono
sette i sacramenti, i sette sigilli e le sette trombe dell’Apocalisse,
le virtù teologali e cardinali, le opere di misericordia corporale e
spirituale, e sono ancora sette i doni dello Spirito Santo. La sua
altezza, quindi, dovrebbe essere di 49 metri (7x7) e l’apertura del
braccio orizzontale 21 metri (il 7x3, con riferimento al nostro Dio, uno
e trino).
Oppure, in alternativa, come misura leggermente ridotta rispetto alla
precedente, il braccio verticale potrebbe essere di 33 metri (con
riferimento agli anni di Gesù Cristo) e il braccio orizzontale di 12
metri, in relazione alla simbologia che lo stesso numero esprime.
Difatti, furono dodici i discepoli di Gesù ed erano dodici le tribù
d’Israele, come sono dodici le costellazioni dello Zodiaco e gli stessi
mesi dell’anno. Alla base di tutto, il dodici ha tutta una
simbologia particolare: vuole essere l’annuncio di Dio, uno e trino, a
tutto l’universo, in tutte le sue direzioni: nord, sud, est, ovest.
Cioè, 3 x 4, che equivale, appunto, a dodici.
Sia
per la prima proposta sia per la seconda, la croce dovrebbe realizzarsi
con materiale del tipo dei tralicci Enel, e in più fosforescente o
illuminata, per renderla visibile anche di notte. In ogni caso,
questi sono dettagli tecnici di cui sostanzialmente dovrà occuparsi un
apposito Comitato tecnico esecutore, dopo che si sarà costituito quello
promotore, che ancora non esiste.
Per
ora è soltanto un sogno. Però, come si dice, il bel giorno si vede dal
mattino: come componente dell’ Associazione “Dipingi la pace”, ne ho
parlato con Don Paolo Turturro e con altri membri della stessa
Associazione: l’approvazione è stata unanime. È un segno positivo e
incoraggiante: questo sta a dire che a sognare non sono più da solo. E
già la stessa Associazione ha predisposto un piano operativo per la
divulgazione di questo stesso documento.
A
questo punto, dal momento che ho il sostegno della predetta
Associazione, che pure tante opere benefiche ha saputo realizzare nella
nostra città, da sembrare all’origine quasi impossibili, come, fra
tutte, vale la pena citare la realizzazione del Borgo della pace in quel
di Baucina, mi auguro soltanto che attorno a questa idea maturino il
consenso e l’approvazione. A Benedetto XVI, il nostro Bianco Padre, in
occasione della sua presenza a Palermo, come già detto, chiederei
soltanto la sua benedizione per il lancio del progetto, sperando che
possa tornare presto a Palermo per la relativa posa della prima pietra.
È una scommessa con noi stessi e , soprattutto, con la nostra fede!
La
macchina organizzativa sembra quasi che si stia mettendo in moto. Un
segnale positivo, che riscalda la nostra fede. Citando prima San
Giovanni, se il solo vederla ci fa incontrare Cristo e ci introduce nel
mistero della salvezza, penso che, con il concorso di tutti, valga
proprio la pena poterla realizzare. Essa è anche uno stimolo a
convertirci e a credere nel Vangelo, perché il Dio del nostro tempo è il
Dio della misericordia e dell’amore.
Non
è semplice, si potrà obiettare. La croce, però, di per sé, sembra voglia
dirci che qualsiasi progetto si realizza soltanto attraverso la
sofferenza. Già il poterla vedere sarebbe un forte richiamo e una
benedizione per la città di Palermo e per chiunque la vedrà o si porterà
in cima al monte per vederla da vicino e pregare. È una questione di
fede, ripeto! Cito, infine, e non a caso, Don Luigi Verzè, che, in tutte
le sedi della sua Fondazione ospedaliera “San Raffaele” riporta questo
messaggio inequivocabile: “Tutto è possibile a chi crede!”.
Alfonso Di Giorgio
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IL CORAGGIO DEL FUOCO Mi arde dentro un fuoco di intuizioni. Mi ardono profeti. Mi ardono dolori. Mi arde la fede che non crolla mai. Non sono che una fornace che arde fede e speranza. Non sono mai divenuto cenere. Mi ardono dentro certezze e fuori insicurezze. Mi arde il coraggio dello spirito. Mi arde la preghiera che non cessa di sostenere il cuore. Madre, sono molti i dolori del giorno. Sono il cantautore del rock e non un organizzatore di piazze. Sono ritornato dalla guerra stracciato di desolazione. Sono vestito di paramenti di sangue con solstizi della luna negli occhi. Era assente Dio nella battaglia e i suoi monaci vangavano l’orto. Al patibolo dell’olocausto ho appeso il cuore. Ho subito la tentazione di uccidere il male mentre il sacramento dell’ostia si spezzava nelle mie mani. Nella battaglia dello spirito nessun sudore, nessuna lacrima. IL sacramento della vita era continuamente a rischio. Troppo sono gli anni passati nella battaglia e lo spirito è diventato il miglior atleta della luce. Tanti che nessuno può narrarli. Tanti e frantumati dalle continue cadute. I miei giorni di battaglia sono in una valle di ricordi come ossa di risurrezione. Sono valli di strade, di fango e di polvere. Sono valli di vie contorte e di labirinti oscuri. Sono le vie dell’uomo. Cos’è questa battaglia? La battaglia dello spirito ti consuma fino a divenire luce. Dentro di me gente infinita a cercare semi di saggezza e chicchi di consigli. Tutti mendicanti della luce. Il più ricco vive nel buio. Camminiamo le notti, camminiamo fuori nel tempo senza sapere che la porta della luce è dentro il cuore. Sono uscito dalla guerra come uno sfacelo di speranze. Sono uscito dalla guerra come un canale arido di gioia. Sono uscito dalla guerra agguerrito solo di canti e di poesie. Sono uscito dalla guerra perché il respiro resiste a ogni oltraggio, oltre ogni resistenza. Sono uscito dalla guerra e non c’è in me la condanna di mutare. Ia peggiore battaglia è quella perduta nel cambiare. Non mi piego ai giochi leziosi del tempo. Altri adulterano lo spirito e si vestono di tempo che non respira. Altri adulterano gli occhi a mutare pagine per paura di restare da altri emarginati. Altri impediscono che la Pasqua si avveri nella croce di ogni uomo e cantano ceri morti, mattutini freddi, ghiacciati di indifferenza. Altri consacrano sacramenti senza Cristo, perchè per loro la croce è solo una rovina, oppure un’asta preziosa e d’oro, da innalzare solo sugli altari. Sono uscito dalla guerra io crocifisso ai dolori di ogni uomo. Sono uscito dalla guerra dove il sole è esploso di verità e i fiori non hanno perso i colori. Ora bevo alla fonte cui mai mi era dato di bere. Credere è una sorgente che ti lascia sempre più sete. Sono uscito dalla guerra con lo spirito affamato di gioia. Ho una fame infinita di Dio. Mio Dio, in questa battaglia non ti incontro mai. Mio Dio, anche dopo la battaglia. Mio Dio, anche dopo una vittoria. Sono fulminato di luce senza neppure vederti. Mio Dio, sconfitto dallo stesso desiderio d’incontrarti. Battuta la carne, annientati gli occhi, cerco nelle mie ossa l’ultimo residuo di guerra, appesantito solo da cataste di disperazioni. Nessuno mi ha tracciato la strada in questa ardua lotta. Appena stai per comprendere, tutto finisce a cominciare daccapo. Sono un mendicante d’amore, abbracciato da secoli di persone. Io credo che il miglio file sia il cervello. Le palme e le cascate di datteri mi schiaffeggiano la faccia. Non sempre la natura vuole sentire. L’ignoranza è ostile al pensare. Sono pronto sempre a partire, a cominciare daccapo. Siamo davvero come foglie al vento. Seminiamo solo bufere. I sogni non si bagnano sotto le tempeste. Io credo che la sposa bagnata non sia sempre fortunata. Oggi si ornano nei matrimoni serti di broccoli che non profumano di rose. Non credo proprio che la nascita di un bimbo sia sotto un cavolo e che scenda dal cielo una cicogna a portarcelo. Che strani i giovani: nei concerti cantano contro i razzismo e nelle piazze aizzano i cani contro i negri. Totò il cane di piazza Ponticello abbaia solo contro i turchi. Qui ancora si sentono le urla: “ Ai turchi! Ai turchi”! Che idiozia vestire i cani di sciarpe e peluche. Più idiota ancora infilare cuffie alle teste dei cavalli che trascinano carrozze dei turisti. Lassù persino i cocchieri più ignoranti guidano Palermo in molte lingue. Basta alla fine di ogni frase aggiungere: ”Yes”. Sui carretti siciliani non si trovano che fiori di plastica. Addio zagara, addio gelsomino. Dove trovare più rami di zagara? Neppure nella giara di Ciaula e la luna. Quanti giovani aprono sacchetti di plastica nei cassoni dell’immondizia. Perduta la fiducia persino in Dio. Persino la luce fa loro paura. Non scorre alcun pensiero nella loro mente. Anche i giocattoli fanno paura. Non si spenga mai in me la coscienza. Se essa muore che senso ha proclamarti vivente? Se essa muore, tu non esisti. Solo allora l’angoscia non si quieterebbe. La più grande tortura che l’uomo possa subire è che tu, Signore, non esista. La vertigine di Dio è proprio la sua esistenza. Il suo volto ha solo sguardi di coraggio, dati a ogni uomo.
Paolo Turturro
SALIRE L'ANIMA
Ora respiro la tua anima. Sono una fiamma di spirito. Respiro il tuo silenzio, senza sapere che sono guarito con la tua stessa grazia. Sono uscito dal fallimento. Si accende la luce della verità. Io non so abitare il relativo. Nessuno può tagliarmi le radici dell’anima. Dio realizza sempre il suo impossibile di salvezza. Mi ha custodito dentro la sua manica. Io non so attraversare se non l’eterno. Io non so vedere se non l’invisibile. Io so che il vento mi canta generazioni di dolori. Io so che il vento s’infrange sulla barriera dell’anima. Ho spiegato l’azzurro e si è aperto l’innocenza. I santi vivono la beatitudine dell’innocenza. Ho tagliato le radici del tempo e si è aperto l’eternità. Io non so dove andare e cerco nel buio dell’essere una maniglia di salvezza. Io vado vagando il cielo. La mia speranza è più di una diamantina d’acciaio. Ho arrotolato il passato e come un seme l’ho piantato nel ventre della terra chiamata speranza. I sogni hanno germogli di virtù. Ho arrotolato la morte nelle stesse fiamme dell’odio. Dopo l’uragano nasce sempre la bellezza del cascinale del tempo. E qui tutto ritorna. I tempi andati sono amici se pure vestiti di foglie. Tuttavia si schiarisce l’universo in cui ho vissuto. Era quella l’abitazione dove dovevo vivere. Era quello il giardino dove dovevo vivere, dove i poeti e i santi vi hanno seminato lacrime di poemi. Ho scelto la follia del bene. Nessuno sa che cosa è. Ci rende atomi di solitudine. Qui non è rotta la comunione con la gente. Non è rotto il canale del giusto sapere. E’ sacrilegio non sapere. E’ sacrilegio non sperare. E’ sacrilegio essere atomi di indifferenza e morti che camminano. E’ sacrilegio bestemmiare la morte che ti apre l’eterno. E’ sacrilegio frantumare il creato, la luna, il mare con il sogno delle sue onde. Mi riposo nella notte della luna. Io a spiarla tra il cipresso e il pino ventoso. E ancora a spiarla dal portico costruito da mille anime oranti. Qui sono in compagnia di monaci di mille anni. Qui in compagnia con i respiri di mille secoli. Volete forse riempire il cielo di sabbia, dove abitano coloro che amano? Volete forse ottenebrare la luce dove abita il cantico della sapienza? Volete forse far sbarcare l’uomo nel deserto del nulla dove ogni grano di sabbia respira secoli infiniti? Non potete. C’è sempre dinanzi alla cella dell’anima un angelo di guardia. State attenti: è un angelo che non potete vedere con gli occhi di carne. E’ un angelo che incenerisce ogni pensiero di cattiveria se pure ancora può pensare. Nessuno qui può rapire la pace. Fuori della cella dell’anima detriti di secoli, torrenti secchi e vecchi, cataste di odio, geenna arida. Fuori della cella dell’anima oscure apocalissi, tempi deserti. Puoi salire, se vuoi, sopra questo monte. Puoi salire sull’anima. Sali l’anima dentro il cielo. E’ come un calvario, lassù però abbracci tramonti e respiri orizzonti nuovi. Qui sei la chiesa che respira salvezza per tutti. Non puoi impedire di credere all’invisibile che tu non vedi. Non ho mai tradito la luce, né tanto meno la fede. Vivo nei sacramenti dell’uomo. Il sacramento del lavoro. Il sacramento dell’amore. Il sacramento della bontà. Il sacramento della speranza, il sacramento del dolore, il sacramento della legalità. Ho attraversato i sacri recinti con piedi insanguinati d’innocenza. Non ho tradito gli occhi e ho fatto l’amore sempre con il cielo. La maldicenza è solo un veleno che brucia la lingua di chi la blasfema. La gente che non ama, non respira. La gente che sposa l’invidia, non ha mai nozze d’amore. Non ti scomunico perché forse è inevitabile essere anatema. Il male non è più un muro di gomma, né una barriera invisibile. Oggi purtroppo danza come moda e come fatue tendenze. Io vivo di libertà che mi consuma. Fuori della cella dell’anima vale l’effimero. Quanto vale la luce? Quanto vale la legalità? Quanto vale la libertà? Secoli di dolori. Quanto vale una passione che ti prende per tutta la vita? Quanto vale una fede fatta di fuoco e di aride incertezze? Quanto vale il silenzio che non tace? Quanto vale un eremita che nella sua guerra di contemplazione sprigiona per noi mute preghiere? Quanto vale una lacrima che arde di sofferenza il volto di un anziano vissuto di memoria? Quanto vale un giorno battuto dal vento dell’odio, con il gemito dei platani e con i germogli dei fichi che indicano ormai la primavera? Ancora un respiro mi tormenta. Ancora un sogno mi dilania: di essere nei giorni della terra un diverso che sogna o una disumana cosa che tutti rigettano. E tu, vestito di miseria, gemi nel mio convento chiuso di abbracci e dove solo canto dignità che nessuno può pagare per annullarla. Io sto qui a gridare: Grazie di esistere, o Dio. Sono appena un pallido respiro che si tuffa nella tua eternità di misericordia. Tutti chiami all’anima dove abita il tuo cielo d’amore. Tutti chiami all’anima dove ci plasmi a creare non solo intuizioni. Tutti chiami all’anima dove ognuno nasce allo stupore di essere e alla meraviglia che non finisce, allo stupore di creare divinità nel cuore. Tutti chiami all’anima e ora ti grido la gioia: Eccomi. P. Paolo Turturro.
insieme
Lettere che non mi spiccano mai il volo. Il cielo mi ha donato un’ala di riserva per sopportare gli intrighi degli odi. Non mi chiudo dentro un triangolo di sicurezze. Non opprimo il tempo. Spazio dentro la luce. Non ho muscoli se non quelli dello spirito. Lo spirito non si arrende mai. Non ho separato il dolore dalla gioia. Non riesco a vivere sempre lo stesso giorno. Quelli uguali sono giorni morti. Sono sempre aperto all’inatteso. Sono l’eremita del silenzio. Siamo tutti meschini dinanzi all’infinito. Non c’è anima che possa volare dentro. Non sono inerte dinanzi allo spirito che ama e intuisce. Cristo non mi avrebbe incontrato, se non l’avessero crocifisso. Non posso temere Colui che ha dato la vita sulla croce per me. La vanagloria mi picchia il midollo dell’anima. Anche la folgore cade dal cielo. Chi ara menzogne, semina su se stesso fallimenti. Signore, dammi la morte perché ti possa vedere. Depongo la bisaccia del tempo nel deserto del cuore e leggiadro vengo da te. E’ finito il viaggio dell’infinito dubitare. E’ finita tutta la musica che non ho vibrato nelle vene dell’anima. E’ finita l’orazione oscura che mi ha impedito di vederti. E’ finito la poesia non cantata sulla cetra della vita. E’ finito ciò che non si può dire e non si può agire. E’ finito l’uomo che non può capire. E’ finito l’uomo che non sa amare. E’ finita la luce fatta di polvere. Sono entrato senza sapere nell’eternità. Non quella ideata dal tempo. Ma cos’è l’eternità? Il tempo non sa dire. Chi respira affanni non può descrivere. E’ l’insieme delle alleluia non cantate. E’ l’insieme dei giorni non vissuti. E’ l’insieme degli abbracci non stretti. E’ l’insieme della luce che tu non puoi spegnere sui precipizi delle angosce. E’ l’insieme degli anni che gli universi hanno vissuto. E’ l’insieme delle nostre cadute. E’ l’insieme dei giorni tristi e felici. E’ l’insieme di ciò che non puoi pensare, di ciò a cui non puoi arrivare. E’ l’insieme degli intuiti negati dal potere del tempo. E’ l’insieme delle notti dell’ignoto. E’ l’insieme del creato ancora non creato. E’ l’insieme delle cadenze fragili che non sono i nostri giorni meravigliosi. E’ l’insieme degli istanti fatti di piccolissime cose. E’ l’insieme di tutto ciò che giunto al cuore e non amato. E’ l’insieme della luce che le tenebre hanno tentato di precipitare negli abissi. E’ l’insieme di ciò che quaggiù abbiamo tentato di negare. E’ l’insieme di ciò che non abbiamo potuto dire. E’ l’insieme delle notti oscure dei santi, dove hanno versato pianti stroncati. E’ l’insieme di tutto ciò che agli innocenti è stato negato. E’ l’insieme di tutto ciò che non è obbligato ad amare. E’ l’insieme di tutto ciò che, senza sapere, è già dentro di te. E’ l’insieme di tutto ciò che arde più di te. E’ l’insieme del crisma che quieta l’anima. E’ il vangelo che cammina sugli oceani del pianto. E’ l’insieme di ciò che non puoi varcare. E’ il deserto che attende sorgenti per germogliare. E’ il fiore che non appassisce. E’ il monte che non crolla. E’ la casa fondata sulla roccia della croce. E’ il fiume che non dissecca. E’ la luce che non si spegne. E’ l’eden che non abbiamo perduto. E’ l’amazzonia che non abbiamo segato. E’ la gioia che non tramonta. E’ l’amore che non fallisce. E’ il giorno che non muore. E’ l’aratro che ha vangato rocce. E’ l’uomo che respira luce. E’ il profondo dei tuoi occhi che aprono il cielo. E’ l’arcano che rende carne l’utopia. E’ la dimora della saggezza. E’ l’ascolto che genera creazioni. Descrivo l’eternità e mi sono stancato, mai di amare. E’ l’ipotenusa dei pensieri retti. E’ il ventre della terra che non abbiamo violentato, estraendo petroli. E’ l’innocenza che non abbiamo macchiato. E’ la mano che ha sempre benedetto. E’ lo spirito che ha offerto olocausti di pianto. E’ la polvere dei peccati che ci impedisce di vedere l’eternità che già abita in noi. E’ tutto ciò che è nuovo nell’anima. E’ tutto ciò che è fresco nel cuore. E’ tutto ciò che non riempie la bocca. E’ la volontà che ha attraversato l’infinito soffrire. E’ la letizia di Dio che per versarti dentro la sua divinità ha abbracciato la croce della morte. E’ la risurrezione che non può abitare i sepolcri. E’ l’eucaristia che soltanto lassù puoi spezzare. E’ il pane dell’anima che infiamma di stupore persino gli angeli. E’ l’estasi delle mani oranti. E’ l’estasi che il divino ti dona senza svenire. E’ lo stupore che non puoi sapere. E’ l’arteria che ti porta al cuore di Dio. Ora capite perché sono stanco e tuttavia non smetto di contemplare? E’ tutto ciò che all’uomo come dono d’eredità appartiene. Non dirò ancora cose stolte. Non dirò ancora cose fatue. Non dirò ancora cose che finiscono. Il meglio deve ancora arrivare. Mi sopraggiunge ciò che temevo: l’amore di Dio, più di quanto potessi immaginare. L’eternità è solo amore. Viaggio nei campi dell’eternità con il passaporto dell’amore. Ciò che vedo, la mente non può capire e né può descrivere.
Paolo Turturro
DOVE TACE LA CAMPANA
Gli alberi ondeggiano violenti rami nella bufera del vento. Noi due a discutere su una lampara. Dinanzi a noi solo il mare che non borbottava più nel profondo. Si può chiudere il giorno con un velo, se non ci fosse dinanzi a noi il muro della terra? E’ un muro alto, più del cielo. Non è un muro di cemento, né di gomma. E’ un muro pesante che non c’è. A sera, sui colli ripresero i falò. Noi giù sul mare a vedere. I falò di sempre. Di ogni stagione. Di ogni famiglia. Di ogni dolore. Per chi è questo falò? Per chi è questa campana? Lassù i falò, quaggiù ancora i morti. Mario non si convinse dell’operazione dell’alcool e vaneggiò ancora: “ Ma io non voglio seminare rancori. Voglio seminare grazie; voglio seminare sorrisi in questo “ dramma di Dio “. Sono cadute nel fuoco le lacrime. Hanno bruciato ogni dolore. Non mi vedranno più in terra. Hanno seppellito il mio respiro. Hanno ucciso il mio fiato (ruah). Il volto, il mio volto non vedo; solo in te ammiro il mio. Tutto l’oro della notte cade nel niente e le mie parole sono sabbia di vento. Il mio canto, contro le rocce, è un frammento e si è sbriciolato nel vento. Sono uno schianto di risate morte. Credo proprio di non essere visto da nessuno. Io sono nessuno. Nessuno è il cielo. Nessuno è l’aria. Nessuno è l’acqua. Nessuno è l’estate. Nessuno è Dio. Nessuno è la morte. Nessuno è nessuno. Mi sono nascosto male alla morte. Mi sono nascosto male ai fiori. Alla gente. Allo specchio. Mi sono nascosto male ai libri, ai papiri dei tempi. Al mio arrivo le campane suonano. Per chi suonano? Tace la campana il giorno. Tace la campana il sapere. Tace. Tace dentro la chiesa. Tace dentro il campanile. Ma perché tace? Tace. Non vuole suonare la morte. Tace. Non vuole suonare la guerra. Tace. Non vuole suonare gli eserciti. Tace. Non vuole suonare l’allarme. Tace. Dentro la campane c’è tanta gente. Gli anelli degli sposi. Le collane degli amori. Gli orecchini delle madri. La fede delle spose. Tace. Ci sono i figli. Tace. Ci sono gli uomini. Tace . Ci sono i soldati, i vicini e i lontani. Tace. Dentro ci sonno i popoli che sperano la pace. Tace. Ci sono i fanciulli che volano le fiabe. Oh! quanti gabbiani! uanti violini dentro . Quante terre. Quanti violini dentro. Quanto grano. Quanta biada per i cavalli e gli uccelli. Tace. Sorride solo alla morte, ormai passata. Tace. Non si nasconde. E’ alta. E’ cielo. E’ cuore. E’ dentro. E’ fuori. E’ vicina. E’ lontana. Tace. No sa dove mettersi. Non sa dove andare. Non sa dove correre. Non sa chi sfidare. Perché sfidare? Non sa chi sfidare, ora che ha ucciso la morte. Tace. Non passa più. E’ sempre presente. E’ di ieri. E’ di oggi. Tace. Piange. Piange la croce. Piange il pane. Piange l’acqua. Piange. Piange il padre. Piange la madre. Ecco sentite: “ E’ orfana di Dio. Non c’è più Dio. Tace la campana. Gli anelli sono spezzati. Le collane fuse. La fede è bruciata dentro quei falò. Si, bruciata dietro il capannone di fieno. Ecco sentite: “E’ morta la campana. Non ha più batacchio. Non ha più pagine suonate al cielo. Non ha più storia. Non ha più libri. Non si è spaccata, la campana è morta. Ecco sentite: “Ci sono altri suoni. Stridenti. Mortali. Hanno vinto la campana. L’hanno lasciata sola sul campanile. Neanche più il vento la suona. Ha suonato tanti giorni. Ha suonato tante aurore. Ha suonato mare, cielo e terra. Ha suonato amaro. Ha suonato dolce. Ha suonato niente. Ha suonato orizzonti che tu neanche vedi e guardi mai. Ha suonato tante notti. Soprattutto quella notte. Quella notte del sepolcro. Quella notte del risorto. Ha suonato tanti cuori. La campana è un respiro. Ora è un fiato. Ci sono tanti canti. Ci sono altri canti e altri lamenti. Altre nenie. Altre serenate. Ma io non ti lascio, o mia campana. Ti hanno gettata in fondo al mare. Ricordi, di notte, con il mio fiato ti ho pescata. E sei a valle. E sei sui monti. E sei sorgente. E sei giorno. Io non ti lascio. Nessuno dentro me ti vede. Nessuno ti sente. Io ti sento. Non più nelle stelle. Non più nei pianeti. Non più nella terra o sulla terra. Io ti sento dentro, in questo mio abisso dentro. In quale abisso vuoi suonare? E nell’abisso chi c’è? Perché suonare nel vuoto? Nel niente? Nell’abisso chi c’è? Ci sei tu, mia campana. Ci sono gli sposi e non solo gli anelli. Ci sono gli amori e non solo i doni. Ci sono le spose e non solo le fedi. C’è il calice zeppo di lacrime di ogni sorgente e di sangue di tanta gente. Ci sono i figli. Ci sono le madri. Ci sono i padri. Ecco sentite infine: “ Non è orfana di Dio, la campana. Non ho più pietà di me. Suono a morte, suono a festa. Non so esprimere il tormento del mio silenzio. Ogni tocco di campana, dall’abisso, lassù è divenuto una stella. Ogni tocco è un dolore, non è la morte. Ogni tocco è una primavera, non è l’inverno. Ogni tocco è uno sposalizio, non è un funerale. Ogni tocco è un battesimo, è l’acqua che nasce. Nel fondo del mare è la mia campana. Tutti dicono: ” Non c’è! “. Nessuno la può spaccare. L’acqua la zampilla ora argento, ora oro per la gente che là dentro più non muore. La mia campana, in fondo al mare, suona eterno”. Addormentati sotto un pino, ci svegliammo al suono dello scampanio in festa.
Paolo Turturro
Pagine dello spirito Io ti cerco senza certezze. Il volere non è ala che può raggiungerti. Sono niente e ti sento. Oso persino cantare la tua presenza, quanto solo pensarti è morire. Io, come foglie, cado nel nulla, dove, con mia meraviglia, tu mi abbracci. Mi sono assicurato su ragionamenti di cenere, mentre tu risplendi la mia debolezza di bellezza. Quale conforto posso impugnare nel deserto del tempo? Tutti e due ci lottiamo e ora all’alba dell’eterno usciamo dalla notte. Nel fittissimo buio annaspo come un ragno in una ragnatela di luce. Basta a lottarci, tu che muori di sangue per me. Mi arrendo al tuo silenzio nelle frenetiche e chiassose mie parole. Tu intendi la mia perdita, il mio urlo di sconfitta e il mio lamento. Sono onda che s’inabissa dentro, un tsunami nella notte delle incertezze. Tu sei persino tenebra luminosa per riprendermi negli scogli inabissali dell’orgoglio. Pigolo la luce solo quando mi sfacelo di niente. Tu mi inventi il giorno per sopportare il peso del mio rigetto. Conosco quando male mi faccio. Conosco la tua tristezza di non poter riversarmi dentro tutta la tua esistenza. Tu per me inventi il creato e io puntualmente nelle tue meraviglie a rifiutarti. Siamo due sconosciuti. Tu tuttavia mi hai pensato e amato nella fondazione del mondo. Mi hai fondato nella tua immagine e somiglianza. Nella mia ignoranza hai scelto di non farmi del male, di non buttarmi fuori di te. Sulla tua croce la tua divinità è divenuta per noi sangue di martire. Il mio peccato non ti ferisce, lo accetti, perché non mi ferisca e non mi sparisca. Soffri tu che non sopporti che soltanto un filo d’erba bruci nel nulla. E tu previeni prima che colpa o rimorso ci distrugga. Tu e io, il dramma della molecola dell’esistenza. Tu e io, oltre il duello, siamo. Tu mi lotti perché io non sparisca e io accetto la sconfitta. Perché mi insegui ora nella mente, ora nel cuore, ora nello spirito, quando la mia carne è solo passione? Basta, la mia tranquillità è il nulla. Sono felice solo quando la tempesta del pensare si quieta. E tu non mi togli la mente per non annientare il tuo spirito in me. Il pensare è l’origine del creare. Mi spaventa il diluvio degli universi. Ho strappato il cuore dal veleno degli oleandri. Tra le petraie dei mie pensieri, Dio rischia di sparire. Ho scalato la luce con la bocca e ho incenerito l’anima delle tenebre. Tu abiti dentro me, come un vento leggero per non gettarmi nell’oblio delle mie paure. Non ho paura del tuo amore. Non ho paura del mio corpo. Non ho paura della tua misericordia. Il dramma è dentro di te, peccare. Non fuggo l’esistenza, so che è un peso insopportabile. Non so quando passeggerò il tuo paradiso, non so quando mi inviterai a cena a casa tua? Non so quando finirò di dubitare e i sensi a generare tempo. Non so il cuore con quali ritmi batterà, né la mente con quali intuiti procederà. Potrò contemplare il tuo volto senza sparire, io che ho sognato per tutta la mia esistenza di vedere il tuo volto? Anch’io arrossirò per non averti amato. L’ultima vendetta sarà la tua misericordia. Tu, senza volto, tu senza nome, prendi già il mio volto, prendi già il mio nome per portarmi dove non posso essere. Mi arrendo. La mia carne diventa il tuo amore. Non c’è salmo, non c’è altare, non c’è calice, non c’è pisside che contenga la tua passione per me. Solo gli occhi abitano la tua luce. Tu ti doni e io mi arrendo al tuo esistere in me. Tu mi hai scalato l’anima per infilarmi l’anello della tua vita. Io ti fuggo per colpa e tu mi insegui per grazia. Il nostro è un inseguirci di rimorsi e di grazie. Io urlo a franare e tu continuamente sei mio argine. Il canto più dolce che innalzo a te è la mia rabbia. Tu l’ascolti e me la trasmetti in sinfonia di perdono. Con te non posso lottare, mi batti sempre sulla tua croce. Trono di divinità per tutti noi. Ti ho sfidato tagliando la morte e tu mi hai reso nuova generazione. Basta, non posso sfidarti, tu che sempre mi salvi. Tu sei ciò che nella salvezza non si può dire. Tu ti diverti a essere ignoto. Resta nel nostro impetuoso gioco solo il tuo amore. In nessun modo potrò raggiungerti se non nel tuo discendere di essere nostra carne. Tu non disprezzi i sensi, tu fatto nostra carne. Tu non sei nostra indifferenza. Sei un Dio inquieto perché pazzamente ami. Vieni tu che dai carne al Verbo. Vieni, alfa e omega di ciò che non so pensare. Vieni, alfa e omega di ciò che non posso essere. Ti scopro nel riempirmi gli occhi di grazia e di pianto. Ora che sono distratto ti incontro senza sapere. Sono, dove franano i pensieri. Sono, dove nasce la mia assoluta disfatta. Sono, dove sono naufrago della mia nullità. Sono il tuo volto nella caduta del mio essere tempo. Quante maschere ha indossato la mia faccia? Il tuo volto non è a misura d’uomo. Non so dove andare nella cenere del nulla. Strazio la notte e urlo:” Dov’è il tuo volto? Mostrami il tuo volto!”. E tu puntualmente altrove per portarmi oltre. Che ti ho fatto a tanto negarmi? E mi rispondi:”Guarda il tuo volto!”. Io mi guardo e sono volto senza sangue, e sono volto senza pianto, e sono volto senza volto. Non mi riconosco ora che sono in te. Sono nuovo senza sapere. Sono il tuo volto, senza che io sappia la mia e la tua felicità.
Paolo Turturro
NICODEMO DELLO SPIRITO Si arriva sempre dove si vuole arrivare. Si arriva in treno, con il pensiero. Si arriva a Bologna, a New York e a Napoli. Si arriva sempre alla vita. A volte suonano il campanello al nostro arrivo. Ma non mettiamo mai in conto i nostri giorni, i nostri anni, i nostri acciacchi. Si arriva a volte pesti, a volte stanchi, a volte sfiduciati. Ma si arriva sempre dove si vuole. Non si fa una vita con i soldi. Non si fa una vita con il pianoforte. Né gridando con la chitarra, né vestendo da barbone per terra. Ci sono tanti bovari in questa terra che sanno meglio dominarsi, più di un prete, più di un medico, più di un professore. E io non sono un bovaro. Per questo devo ancora comandarmi. Questa debolezza è di tutti. E’ difficile comandare se stessi. Mi accorgo oggi, che se non capisco niente o non capisco bene. Basta alzare gli occhi e te ne accorgi che non comandi tu, né tua moglie, né un prete, né l’asino nella tua stalla. Anche se Mario mi ripeteva che in una notte avevamo rubato al mafioso del paese, un mulo e cento pecore. Nessuno ha mai creduto a questa balla e tutti dicevano che erano troppo poche e poi un mulo. Chi poteva sfidare un mafioso per cento pecore e un mulo? Mario quando andava in casa di Elisa, la parrucchiera del paese, si sedeva sempre alla sua sedia. Scegliere una sedia per amore. La sentiva calda, la sentiva viva come Elisa. E tutti dicevano: “Prima o dopo si sposano ”. Ma Elisa comandava la parrucchiera e sentiva tante donne, tante ciance, tanti uomini all’apparenza onesti e forti, ma poi fuori sempre traditori. Non conviene sposare o mettere in casa un uomo. Così, anni dopo anni, faceva ancora la parrucchiera e Mario, anni dopo anni, sedeva sempre sulla sua sedia. Alla mattina Elisa scendeva sulla strada, salutava la piazza, le macchine e le bestie che passavano e poi si infilava dritto nel suo salone. Tagliava corto le dicerie che volevano che Mario si sposasse con lei. E ogni giorno trovava sul tavolo di lavoro un mazzo di rose. Tutti dicevano: “E’ un atto di rispetto che Mario da anni faceva e non dimenticava ”. Il prete del paese passava a benedire le case con il chierichetto che portava sempre un paniere di uova in mano. Quella volta si fermò da Elisa che si ricompose già troppo seria. Sulla porta a vetri si radunò tanta gente e il prete per niente preoccupato cominciò a salutare tutti e invitarli alla s. Messa. Al chierichetto cadde il paniere delle uova. Una fresca frittata a terra. Tutti risero ed Elisa li cacciò a tutti fuori della porta a vetri. Nessuno poteva criticare Elisa, per questo tutti accettarono e si dileguarono dal salone. Fuori, sotto le stalle, i ragazzi salivano e scendevano dai covoni e le vecchie gridavano con i bastoni: “Via, via maledetti. Così il pane non viene per niente benedetto.” In quei giorni pulivano tutto. Le cantine, i bar, i balconi per vestirli a fiori, i pavimenti della chiesa. Anche Elisa, come il sindaco del paese, andava in chiesa e aveva la placca d’ottone sul banco. Il prete mortificò il chierichetto con uno scappellotto e poi iniziò: “Qui c’è troppa gente, più che in chiesa. Fatevi belli i capelli, ma non date l’anima al diavolo. Su, alzatevi. Benediciamo prima le persone e poi gli arnesi e le pareti. Un giorno Cristo annunciò che proprio nell’anima si adora Dio. Non vorrei pensare alle vostre case sporche, con le imposte chiuse, con le ragnatele ai vetri delle finestre, per accogliere Dio nelle sozzure. Su via, vi raccomando, pulite le case e le vostre anime. Anche gli apostoli accoglievano con gioia Cristo e invitavano tutti a far festa. Oh! Quel Nicodemo, non ci voleva credere, come i nobili. Ci andò per sfizio a vederlo. Sul Giordano, tra le canne al vento, lui che insegnava sotto il fico. Socrate sotto i portici. Gli ebrei non avevano scuole. Insegnavano, per l’ombra, sotto i fichi. Anche se per loro il fico era simbolo di infedeltà. Ma lui insegnava ugualmente sotto il fico, pur fedele a Dio. Per questo Cristo, prima che lo vedesse gli disse: “Ti ho visto sotto il fico ”. E Nicodemo non ci stette. “Io il maestro? Io a insegnare sotto il fico? No, sei tu il Maestro che hai visto lontano, mi hai visto sotto il fico ”. “Oh! Solo per questo? – disse il Signore. Ne vedrai di altre cose, di altri più rigogliosi alberi.” “So – rispose Nicodemo – che nessuno può fare segni che tu fai. Risorgere i morti. Dare la vista ai ciechi, se Dio non è con lui.” “Oh! Ti dico: se uno non rinasce dall’alto, non può vedere Dio ”. “Vedere Dio – incalzò Mario al prete – Io sono qui da tempo e non l’ho visto ancora. Non posso andare più in alto.” “Ascolta – disse il prete – E’ Gesù l’alto. E’ Gesù dall’alto. Occorre rinascere in Lui e non di nuovo nel grembo di una madre.” “Sta zitto – rimproverò Elisa. E metti l’acqua alle rose. E’ già tanto che capisci gli steli, ora vuoi anche comprendere le rose?” “Qui nei nostri paesi – riprese il prete – il vento soffia forte, ma non si sa se viene dall’est o dall’ovest. Se è maestrale o se è grecale. Il vento è la voce dello Spirito che è libero di andare. Salta da per tutto, sbatte i potenti a terra, fa volare le terre, i peschi e le pere. Andiamo, - disse al ministrante – come fare capire le cose del cielo, se qui non capiscono neanche i capelli? Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito. Dio ama e chi ama nasce di nuovo dall’alto ”. Elisa fu felice. Certamente all’indomani sarebbe entrata più gente per i capelli. Le rose non sarebbero mancate e l’acqua benedetta avrebbe accontentati tutti nella vendemmia, nella mietitura, nelle more, nella raccolta delle pere e delle mele. Tutti, tornati a casa, si sentivano un po’ più benedetti. Solo Mario non nasceva dall’alto, a causa di quella sedia. Gli era rimasto un solo dispiacere: quella fresca frittata a terra. Pazienza. Domani ne farò una, tutta per me, con il prezzemolo, l‘olio, il sale e con un bel fiasco di vino rosso da tracannare. Che stupore mi dà la brace accesa di Cristo Gesù sul lago di Genesaret. Che meraviglia la cena preparata sulla riva dal Risorto. E poi quel pane cotto sulla brace da Dio stesso. Che stupore l’eucaristia! Che meraviglia grida il celebrante nella consacrazione: Misterium fidei. E’ l’atto d’amore della presenza continua e reale del Risorto. Vivo ogni istante nel celebrare tale mistero, tale sacramento d’amore di Dio per me.
Paolo Turturro
Non sono degno
Sui marciapiedi del lungomare i ragazzi dei trulli giocano con i noccioli delle albicocche. E’ una fortuna contarne tanti per riempire le tasche. I grandi non hanno più fede nei giochi d’infanzia. E’ solo un passatempo infantile che nulla dà. Tuttavia questi giochi d’infanzia incidono per sempre sul carattere di ognuno di noi. Non ho mai visto una fede così grande come quella dei poveri. Non ho fede per esplorare il cielo. Non ho fede per esplorare la vita. Non ho fede quanto un granello di sabbia. Non ho fede quanto un seme di senapa. Sono vuoto per essere riempito di fede. Anche la bisaccia del mio lungo andare nel martirio si è svuotata. Non ho fede come un servo. Anche i servi ieri erano amati. Il servo del centurione è molto grave. Sta per morire. E’ raro che i ricchi hanno molto caro i servi. Si è sempre servi quando si è dipendenti. Si dipende dagli altri specie nella malattia. Mi è molto caro chi soffre come me. Mi è molto caro chi è gravemente ammalato. Non so stare a lungo con gli ammalati. Mi stanco più di un malato al capezzale di un moribondo. Non ho fede per donare guarigione. Non ho fede negli occhi di Dio. Non ho fede nel cuore di Dio. Non ho fede per giungere alla serenità. Non ho fede e tuttavia nel bisogno ci aggrappiamo a ogni possibilità di guarigione, a ogni ipotesi di ripresa. Sentiamo parlare di taumaturghi e corriamo nella loro salvezza. Udiamo medici terapeutici e corriamo alla guarigione. Ci infatuano i santoni e ci tuffiamo nelle loro mani mistiche di denaro. Corriamo fuori per un tumore. Corriamo spendendo milioni per la nostra salute. Così il centurione avendo udito parlare di Gesù, gli mandò alcuni amici dei giudei a pregarlo di venire a guarire il suo servo. Persino i giudei si commuovono e raccomandano a Gesù:”Egli merita che tu gli faccia questa grazia, dicevano, perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruire la sinagoga”. Gesù accetta e si incammina con loro. Strano questo cammino assieme ai giudei. Abbiamo sempre la cortesia di non disturbare. Tutto si può risolvere senza amareggiare gli altri. Ecco il centurione manda alcuni amici a dirgli:” Signore, non stare a disturbarti, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, per questo non mi sono neanche ritenuto degno di venire da te, ma comanda con una parola e il mio servo sarà guarito”. Quanta umiltà e quanta saggezza in questo dire del centurione. E’ la grande fede nell’abbandono nell’altro. E’ la grande fede di fidarsi dell’altro. E’ la grande fede della fiducia in Dio che tu non conosci ancora. Comanda con una parola: è la forza che non puoi conoscere con la carne, con i muscoli, con la potenza della materia. E’ la Parola che guarisce. E’ la Parola vivente che squarta ogni malattia. Così queste parole del centurione sono oggiAggiungi un appuntamento per oggi nostra carne. Non sono degno di stare sotto il tetto del cielo. Non sono degno di entrare nella casa di Dio. Ogni giorno prima di ricevere l’eucaristia il nostro cuore palpita di centurione:” Signore, non sono degno...” E’ la certezza della nostra miseria dinanzi all’infinito amore di Dio. E’ la fede di chi piange adorando nell’eucaristia il mistero dell’amore di Cristo. E’ la fede di chi, gettato nel baratro dell’umiliazione, si sente empio, senza sapere che proprio l’eucaristia purifica e solleva. E’ la fede di chi quaggiù non trova fiducia nelle preghiere morte che non possono guarire. Tutti chiedono a te, Signore, la guarigione da una malattia, un miracolo. Io sono convinto però che tu vuoi per noi ben altro. Vuoi ciò che noi non sappiamo chiedere. Vuoi che noi non cadiamo nel domandarti ciò che finisce, miracoli che non si vedono, grazie che non santificano. Tu vuoi ben altro in noi. Signore, non sono degno degli occhi che mi hai donato per contemplare il divino. Signore, non sono degno della mente che mi effondi per comprendere l’ineffabile. Signore, non sono degno del cielo dove abita il tuo spirito. Signore, non sono degno dell’acqua che mi purifica. Non sono degno dei sacramenti che mi santificano. Non sono degno della Parola che mi incarna dentro il tuo spirito stesso. Dì, soltanto una Parola e io sarò guarito. Guarito dalla stanchezza di attendere. Guarito dalle calunnie che emarginano. Guarito dai peccati che umiliano. Guarito dall’odio che piomba addosso come macigno. Guarito dall’indifferenza. Chi soffre non è mai indifferente. Guarito dagli sguardi che opprimono di rifiuto. Guarito dallo scrollare le spalle per non vedermi. Guarito per gustare ancora la gioia che da tempo non conosco. Guarito nell’animo, la migliore terapia per sanare il corpo. Non sono degno di amarti, tanto è la miseria che mi opprime. E pur mi gridi dentro:” Ti amo, così come sei. Non sei tu che devi cambiare. E’ il mio amore che ti meraviglierà”. Allora ecco il mio grido:”Amami, così come sono. Ama il mio pianto. Ama il mio ormai mollare. Ama il mio tremare. Ama il mio balbettare sillabe ignote. Ama il mio continuo cadere nel nulla. Amami, sto come uno zoppo che non ha un sostegno. Amami, allora cado volentieri dentro il tuo cuore. Sono giunto al collasso dello spirito. Non sono degno neanche di dirtelo, per questo non ho ritenuto giusto neanche di parlartene. Ma tu sai già ciò che penso. Ama i miei passi che barcollano nel cadere. Ama il mio arrancare certezze solo nel tempo. Ecco non sono degno neppure di chiederti un’ala di riserva per non annientarmi nel nulla. Signore, prendimi sulle tue ali prima che finisca male. Custodiscimi nel tuo cuore prima che mi sbranino dentro. Gettami dentro la manica della misericordia di tuo Padre, prima che la cattiveria mi infesti lo spirito. Signore, fammi volare laddove non possono arrivare. Fammi volare per sempre dentro i salmi della tua salvezza. Signore, per stare con te. Signore, per stare in alto. Signore, per stare sopra le tempeste. Sono stanco di soffrire. Signore, per stare sopra gli inganni dei potenti. Signore, non sono degno, ma tu non puoi non salvarci. E’ tuo ardire sovvenire tutti, specie i deboli. Ecco già dentro di me mi urli ancora:”Stai tranquillo, sulla croce ho dispiegato le mie braccia per abbracciare non solo il cielo, io che lassù ho abbracciato tutti e consegnato tutti al Padre. Io, lassù, sono la Parola che mio Padre ti manda e che certo ti guarirà! Stai tranquillo, come il servo del centurione”.
Paolo Turturro
Geme lo Spirito
Nei tuoi occhi abita il divino. Tutti, prima o dopo, sposiamo l’anima. Il tempo è il peggior nemico della sapienza. Nei giorni della terra cresce il relativo. Lo spirito non conosce la relatività. L’Oltre abita negli occhi. Sul volto dell’innocente che soffre canta la sinfonia del creato. La luce è la bilancia del discernimento. Sfoglio l’anima per giungere laddove tu hai coniugato l’alito del tuo amore. La sofferenza si quieta nella beatitudine dell’abbandono in Dio. Nessuno ha danneggiato il mio spirito. La solitudine mi ha reso un tronco di quercia secolare sempre verdeggiante. La linfa dello spirito mi slancia dove non sarei potuto arrivare. Lo spirito non ha mete terrene di arrivo. Si comincia daccapo a contemplare. Il cammino della mente è lungo secoli di persone. In me non ci sono idee morte. Non si spegne il torrente dell’amore di Dio dentro di te. Nessuno ha potuto tagliare le radici della verità. Solo alcuni, Signore, hanno goduto della tua croce. Non conosco le rughe dell’anima. L’uomo è un solco di lacrime a irrorare i deserti dell’umanità. Sono caduti i giorni del calendario della morte. Ti chiedo soltanto il dono di un giorno per respirare ancora la terra. Tu sei il giorno che l’eterno attende. Non mi importa della tristezza, sotto il martello dell’incudine sono divenuto una fortezza. Ti chiedo soltanto il dono di una sillaba, io che sono rimasto senza parole. Ti chiedo soltanto il dono di un raggio, io che sono da tempo nelle tenebre di una condanna. Il sudario delle calunnie mi ha reso puro, perché un seme di luce ce l’ha anche la tenebra. Il peccato è la resistenza dell’uomo per non attingere il fuoco dello spirito. Il peccato è l’assenza della Parola di Dio. Quando perdono fiorisce in me la primavera della Pentecoste. L’oltre è nelle mie vene. Non trovi l’oltre nel tempo. L’ascesi è la dialettica dello spirito. Io lotto con le armi della luce. Sono ancora il guerriero della luce. Sono la temperanza per sostenere la sofferenza di miriadi di gente che crolla sotto il peso macropo delle ingiustizie. Sono la sobrietà per contenere l’immenso. Sono la vigilanza per riempire giare di valori. La lotta dei valori è la ginnastica delle beatitudini. Sono l’atleta dello spirito. Sono l’atleta dell’ascesi. La carne è pesante per ascenderla in alto. Io so che cammino sulle onde che tu mi hai infranto impetuose nel cuore. Sono l’atleta della luce. Il giorno è il mio cammino. Abbocco volentieri all’amo della luce. Anche lo Spirito geme lacrime di dolore per non poter effondere dentro ogni uomo la divinità della luce. Il dono di una lacrima scaturisce sorgenti di grazie. Geme lo Spirito a non poter effondere in noi i suoi molteplici doni. Geme lo Spirito nei nostri sacramenti morti. Geme lo Spirito nei nostri battesimi di carta a generare solo anime morte. Geme lo Spirito a non toccare il vertice del cuore che si appesantisce di passioni. Geme lo Spirito a non travasare i suoi doni nel ventre della terra. Geme lo Spirito nel resoconto delle bestemmie che invecchiano il mondo. Geme lo Spirito nel resoconto dei nostri dogmi recitati e non creduti. Geme lo Spirito negli annunci estinti del vangelo. Geme lo Spirito nel nostro pensare di ricevere la morte per vederlo, quando è così dentro di noi. Geme lo Spirito. Nessuno mai ha potuto tagliare le radici dello Spirito dentro di noi. Geme lo Spirito nei nostri linguaggi scaduti di sillabi contorte. L’amore di Dio è sempre nuovo, è sempre attuale. E’ sempre semplice e innocente. Conosciamo solo mozziconi di parole che paralizzano persino il gemere dello Spirito. Conosciamo solo montagne di carta che ci scoraggiamo persino a salirle. Lo Spirito è leggero. Lo Spirito è puro. Lo Spirito è saggio. Lo Spirito è libero. Lo Spirito purifica, non condanna. Lo Spirito ringiovanisce persino la pelle arrotolata di vecchiume dell’anima. Lo Spirito è la letizia di un incontro. Lo Spirito è la gioia di un perdono. Lo Spirito non è riducibile soltanto nelle nostre liturgie, aleggia oltre i nostri schemi mentali. Effonde oltre le nostre stesse attese. Effonde salvezza persino nel mio cuore duro e ostinato. Lo Spirito è la voce della Trinità che abita in noi. Non puoi insanguinare lo spirito, pure geme di atroci tormenti. Molti rompono i ponti con l’anima pensando che essa sia una pura illusione da tagliare e scartare nel macello della carne. E’ il massacro della mente che sottostà alla carne. Lo Spirito libera l’intelligenza prima per capire e poi per amare il divino. Il tempo non sfocia nel divino. Io voglio nascere allo Spirito. La creazione è il parto continuo di Dio a generare libertà, porta aperta sul divino. Non mi basta il sogno di Ezechiele dove Dio ridona la carne alle ossa e apre con coraggio tutti i cimiteri del mondo. No, non mi basta che io esca da una bara e che ritorni da un cimitero senza banda. No, non mi basta. Non mi basta il sogno di far nuove tutte le cose. Sono innamorato del tuo sogno, o Cristo, che vuole effondere dentro di noi il Paraclito, sposalizio divino dentro la nostra anima. Corpo e anima sposati per sempre con Dio. E’ il sogno che amo.
Paolo Turturro
Tu non sei un gendarme
Caro Gesù, mi sento altamente smarrito. Mi sento dentro tutto controllato. Vedo attorno a me una cultura di controllo, un labirinto di leggi che annientano ogni uomo, soprattutto i più deboli e più indifesi. Per di più ci hanno predicato che anche tu e tuo padre siete i più alti gendarmi di questa cultura di controllo. La vita quaggiù risulta una questione di potere. Io non ce la faccio più a pensare che tu lassù mi controlli con i dieci comandamenti. Tutti noi dinanzi a questo esame, da non affidare a te come gendarme di controllo, risulteremo bocciati con voti certamente insufficienti. So che nel mondo aramaico non c’è la voce:obbedire ma che tu vuoi che noi ti ascoltiamo. E ascoltare non è piegarsi al potere sociale o morale. A me sembra che tutte le leggi siano frutti della cultura del potere. Io non ce la faccio più a essere controllato con i documenti, con il cellulare, con le zone video sorvegliate. Non ce la faccio più. Tu infatti non pretendi che Maddalena si converti prima per stare tu poi con lei. E’ la tua presenza, è la tua amicizia che solleva chi è caduto. Non voglio puntellare la mia rettitudine che so che vacilla da ogni parte però so che la mia anima e quella degli altri non può essere circuita da leggi di controllo. Ho bisogno di riposare in te, voglio venire in disparte non solo per discutere ma soprattutto per vivere questa mia vita così insicura. Anche l’ascesi l’abbiamo vestita di poteri. Ascendere a una carica, ascendere a una posizione, ascendere a un titolo, ascendere a un comando. Ascendere a una carriera di potere. Molti mi chiedono quale titolo porto. Sua serenità? Sua beatitudine? Sua magnificenza? A volte mi scappa un’impertinenza e dichiaro apertamente: nessuno. Sembra in me il grido di quell’Ulisse che vuole scappare dal pericolo. Io scappo da ogni potere e non dalla responsabilità di vivere la vita oggi. Puoi tu ridurre la tua sapienza, il tuo infinito amore a un seccante controllo, a uno statico controllo che allontana tutti noi da te? Fino a quando affibbieremo tutto ciò che pensiamo a te e al tuo essere meraviglioso di crearci e di amarci? Mi viene in mente un vescovo che mi disse: “Quando c’è un vescovo un prete non può presiedere”. Gli risposi che chi presiedeva la celebrazione era un vescovo anche se non portava l’anello. Sono qui davanti a te per riposare e imparare attraverso la tua mitezza a entrare nella tua intimità. Fuori, nel mondo esplode l’attività legislativa che fa paura nella montagna di denaro da scalare e da pagare. Così mi accorgo che in me si stanno sgretolando tutte le torri di controllo. Con mia grande sofferenza, tu mi stai già demolendo le mie alte torri di superbia, le mie aspettative di gloria e di grandezza. Così da poter tu prendere finalmente dimora dentro di me. Ora viaggio dentro di me ma è anche vero e presente il cammino che ho fatto con tanti preti, con tanti vescovi che mi hanno edificato profondamente. Ho viaggiato dentro la chiesa e ho trovato tanti preti miti, intelligenti, buoni ma tutti emarginati perché troppo scomodi certamente non a te che non ti sei mai permesso di vestirti da gendarme. Mi stai togliendo il pesante fardello della maschera di essere fin troppo bravo e buono perché aiuto gli altri. So che la tua amicizia è estremamente esigente e intelligente ma non è un peso. Ciò che è intelligente è mite e soave. E’ tempo di finire che tu ci vuoi degli eunuchi sessuali. La preghiera, la contemplazione è il rapporto più vitale che coinvolge tutto il nostro corpo a te. La cultura del potere è la distruzione del concetto di Dio stesso. Tu la generosità che non comanda. Tu la provvidenza che non esige pagamento. Come possiamo ridurti a un beffardo gendarme? So che la gente ci rifiuta perché davvero non somigliamo a te. Anzi un detto spagnolo afferma:”Stai attento ai gesuiti se ci tieni al portafogli, e stai attento ai frati se ci tieni alla moglie”. Beh! Son cose della terra e tu non ti fermi a giudicarci dall’apparenza. Sono qui non per isolarmi. Sono qui non per fuggire la vita. Sono qui non per evadere dalla chiesa o dalla gente. Sono qui per trovar in te il senso profondo della mia vita. Non voglio perdere la vita. Non voglio che la morte acquieti il mio dolore. Sono qui, come tu hai suggerito di aspettare di ricevere lo Spirito della sapienza. Sono qui per ricevere la Pentecoste della chiesa. Tu sei il mio riposo in questo inverno di condanne. Tu sei il mio riposo in questo calvario della cultura di controllo. Ho deciso di salire dove tu sei. Tu sei asceso non in cielo, dove solo le nubi imperano sulla terra, ma tu sei asceso al Padre, sei asceso allo Spirito, sei asceso dove abita lo Spirito. Ecco il cielo: la grazia dove abita lo spirito. Mi hai portato con ali d’aquila sui prati dello Spirito che rinfranca, sui prati dello Spirito che ristora. Ecco sono scheletro di spirito, nutrimi con il tuo fiato. Nutri con la tua luce di misericordia la tua amata sposa chiesa. Nutri il mio corpo e la mia sessualità della tua serenità. Ho perso il gravoso peso di un’identità forte e importante. Qui sono nel tuo respiro senza essere potere. Qui sono nel tuo fiato per godere soltanto della tua intimità. Quell’intimità che equilibra tutto il mio essere, tutto il mio corpo, il mio carissimo fratello asino. Mi hai smarrito, perché io mi abbandonassi a te e in te, svegliato, mi ritrovassi.
Paolo Turturro
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I giovani dell’apocalisse del cuore.
In questo labirinto di steccati della nostra società, dove le persone sono manichini di mode e di non senso, voi carissimi giovani dell’apocalisse del cuore non solo vi ribellate alla sterile vita dell’apparire ma state già creando con il vostro impegno non solo musicale e con il vostro quotidiano sorriso la primavera della giovinezza. Cantare è l’avventura dell’anima e finché un solo giovane canterà il mondo non morirà. Finché un solo sorriso germoglierà dal canto il giorno non si spegnerà. Ecco il vostro ardire. Mi avete ancora una volta infiammato il sorriso. Non so dire fino a quando sul mio volto splenderà ma è certo che è sbocciato e anche il cuore ne ha sentito il suo beneficio. Ancora sento Giuseppe con la sua voce a timbro di potenza e ascendo ai valori che non tramontano. Ecco mi giunge l’armonia di Manuele e anche le vene dello spirito si deliziano di sapere. Non so descrivere gli occhi di Fabrizio che nel canto raggiungevano quelli di Sonia. Il vostro cantare è stato uno spettacolo dell’apocalisse del cuore. Non a caso avete scelto i versi di chi a terra sanguina sassi. Non a caso avete scelto i versi dell’avventura più straordinaria che è quella che persino il nulla inghiotte la morte. Si può viaggiare assieme per un’autostrada deserta come quella di Palermo- Messina e cantare ancora la speranza per la nostra amata Sicilia. Si può viaggiare assieme per una presentazione di un libro che ha pagine chiare di solidarietà. Si può viaggiare assieme e gettare a mare una crociera di vomito di mare. Si può viaggiare assieme e rimanere uniti sulle strade del mondo a creare e a germogliare speranza nel lavoro e nelle proprie famiglie. Si può viaggiare assieme e avvertire all’improvviso la gioia perenne di essere giovani per gli altri. E per di più si può pregare con il canto a ribellarsi all’indifferenza persino di chi è di chiesa. Avete pregato nell’urlo del canto che gioiva di benedizione. Avete cantato la visita di Dio che scende ancora a purificarci e ad amarci. Non sempre il canto è letizia e voi invece l’avete reso armonia dell’anima che si quieta. Non sempre il canto è letizia e voi l’avete reso campo aperto all’orizzonte e cielo geloso persino agli angeli. Non sempre il canto è letizia e voi l’avete reso già eternità di respiro e speranza che il male per sempre con il canto sarà sconfitto.
Paolo Turturro
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L’uomo degli oggetti non abita la felicità.
Il vivere della società è un fuggire dal proprio io, e acquistare un altro io con ordinazione. In una vita di shopping siamo felici finché il prodotto non scade. Tutti corrono tuttavia agli sconti prima della scadenza. L’oggetto si consuma e l’ansia della felicità non trovata o perduta rende l’uomo d’oggi ansioso e sazio di diossina. Gli oggetti comprati sostituiscono la personalità. Il vestito dell’ultimo grido prende corpo alla propria dignità. Si corre dietro l’ultima moda per apparire d’essere. La via che porta alla felicità passa per i negozi e tanto più sono esclusivi, tanto maggiore è la felicità cui si arriva. I supermercati sono i nuovi templi che abbelliscono soltanto la carne. Sono i nuovi prodotti della sussistenza non più reale. Presto infatti i prodotti si consumano e lasciano dentro chi li ha usati un’ansia durevole da creare così nell’uomo degli oggetti la totale dipendenza. Si rovesciano le parti: l’uomo è soltanto un recipiente da riempire e il prodotto è il contenuto. Nasce ovviamente uno squilibrio. Inoltre siamo bombardati dall’immane pubblicità che ci impone di ringiovanire e di cambiare vita continuamente. Nasce in noi la convinzione che tutto è relativo. Queste relazioni a tempo non riguardano soltanto il possesso degli oggetti che ci fanno apparire d’essere ma fuoriesce in una cultura delle relazioni a basso impegno. Ecco l’arte che fuoriesce in performance d’imbratto. Ecco la filosofia che si è fermata a un tubo digerente. Ecco la scienza che vuole manipolare persino Dio a cui non crede. Ecco la religione che diventa la via della guerra per ottenere il possesso del mondo. Le conseguenze sono serie. Le conseguenze sono irreversibili. L’uomo insoddisfatto dà la colpa solo al passato, dà la colpa alla famiglia chiusa in tabù, dà la colpa alla religione ancora oppio del popolo. L’uomo contemporaneo è disposto ad annullare il passato per rinascere e acquistare un altro io, più indipendente, più libero, più se stesso. La conseguenza è scartare il passato, scartare la famiglia, scartare persino la propria origine per rincarnarsi in una società che deve ancora nascere, in un io che non può essere. Sogna di tuffarsi in una personalità che non può essere, di aprire dentro di sé un nuovo inizio. Calpesta il proprio io per acquistare un altro su ordinazione della pubblicità. Nasce il tempo della fuga continua. Nasce il tempo di consumare tutto in fretta. Provare tutto, provare le sensazioni solo del corpo, setacciando dalla mente ogni ipotesi di spirito, ogni ipotesi di eternità. L’eternità è oggi. L’eternità è il giorno da consumare. L’uomo cade senza accorgersi in un baratro di infelicità. L’uomo segue questa chimera del tempo del consumismo, distruggendo in fretta quell’io dell’oggetto a cui fidarsi per la felicità. Si aprono così le pagine della precarietà e dell’insicurezza. C’è però un’energia che l’uomo degli oggetti non può consumare: è la nostalgia dello spirito. E’ la forza di tentare l’impossibile. E’ la forza dell’amore che dona ali alla vita. Dare ali a ciò che ci blocca a terra con pesanti macigni. Dare ali alla speranza e svestirci della zavorra che ci impasta solo di piombo, d’argilla e di creta che si sgretolano alla nascita di un nuovo prodotto di moda. E’ la sfida dell’essere. E’ la sfida dello spirito che l’uomo vuole nel tempo del consumo, seppellire per sempre. E’ la sfida della vita che è un’opera d’arte. Si, noi siamo un’opera d’arte del creatore. Un’opera d’arte da inventare continuamente l’alito e le ali per creare in noi lo spirito che ci fa continuamente nuovi. L’opera d’arte impone in noi un cammino non solo terrestre ma profondamente interiore, tanto da sapere che il viaggio più lungo è quello interiore. Cerco ciò che è più forte all’intemperie del tempo per essere inespugnabile al tempo. L’uomo degli oggetti muore. L’uomo degli oggetti non abita la felicità. L’uomo degli oggetti non abiterà l’eternità. Ricordati, uomo, che sei invincibile e inespugnabile nello spirito. E’ l’unico luogo dove i sogni di ogni uomo sono inespugnabili e dove la vita continua a essere. I giovani rompono la frontiera dello spirito, creando in se stessi nuove occasioni, nuovi inizi, nuove prospettive di una catena infinite di partenze. Partire sempre senza raggiungere mai la meta, partire sempre senza prospettive di arrivo. E’ il viaggio dell’esistenza del passato che credono di frantumare con l’ironia di nuovi inizi. Il viaggio dell’esistenza del passato ci appartiene per poter continuare la vita. La sfida è una vita d’arte. Essere artisti della propria vita. Artisti del cuore. Artisti degli occhi. Artisti della mente. Artisti dello spirito. Artisti dell’eternità. La critica, la crisi, il disagio dell’essere è superato attraverso la fatica, attraverso il dolore, attraverso al sofferenza non solo del lavoro che ci riempie di essere capaci di creare arte, amore, passione, bellezza, intuizioni, mitezza, beatitudini. Ecco lo scrigno della felicità: non più riempito da oggetti che sostituiscono la personalità dell’uomo ma da valori che l’uomo stesso nel viaggio della sua esistenza è capace di auto crearsi. In questo cammino non c’è il meccanismo dell’esclusione come avviene nei vari programmi del Grande fratello o dell’isola dei famosi. Nessuno è escluso dallo spirito. Nessuno è escluso dall’abitare la vita. Nessuno è escluso da creare l’opera d’arte della vita. Il meccanismo dell’esclusione consuma il corpo e la mente. Stressa ogni prospettiva di futuro; è ordinato solo dal lucro di pochi. Così chi non si veste più di oggetti cade subito in uno stato di depressione. Si alimenta di angoscia. Il suo corpo è l’elemento primo a consumarsi. Ecco la proposta dello spirito: la felicità comincia a nascere dal momento in cui ti apri a te stesso e all’altro. La felicità dell’essere per è la risposta all’uomo degli oggetti. L’uomo degli oggetti già muore. L’uomo degli oggetti non abita la felicità. L’uomo degli oggetti non abiterà la felicità.
Paolo Turturro.
Accompagno l’anima. Io sto accompagnando il mare . Ha voce profondo e già mi parla di te. Accarezzo le onde dopo ogni mio pensiero. Ogni sogno che faccio, segno un passo avanti sulle rocce delle onde. Stella tu sei anche per me. Forse tu non sai che cosa ti darei perchè tu possa essere felice. Troppi sogni di coraggio ho fatto nei giorni sbagliati. Troppi sogni di coraggio ma assai fragili. I miei sogni sono al di là dell’orizzonte della terra. Mi sono accorto troppo tardi che i miei sogni me li hai dato proprio tu e che ogni sogno viene da un’ala del cielo. Ogni giorno è una nuova stagione dove le lacrime invisibili sono conosciute solo dagli angeli. e dove è possibile cominciare daccapo. Sento che il respiro che ti infiamma di odio non è di casa mia. Camminerò nel tuo cuore. Ho una grande voglia di tornare a casa. Se tu ci sei, io ti cambierò e la nostra casa sarà di nuovo piena di pace. Accompagno il cuore dove tu sei. La nostra visione invisibile agli occhi sarà di carne che sposerà lo spirito. Tu non puoi sapere quanto è immenso il cuore di Dio. Tu non puoi sapere da quando tempo egli ti attende. Tu non puoi sapere quanto sudare sulla croce per salvarti. Tu non puoi sapere quanto tardo è il tuo incontro con lui. Quanti futili motivi ci distaccano da lui. Non è il dubbio che ci stacca da lui ma la nostra poca fiducia in lui. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Tu non c’eri sotto il venerdì della morte. Eppure lui ti accolto nel suo ultimo respiro consegnato al Padre. Troppo alto è il suo dolore. Troppo divina è la sua consegna. Noi sappiamo solo di offerte di terra. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ti ha consegnato come figlio a sua madre. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ha squarciato le tenebre per battezzarti di luce. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ha scontato per te e per tutti il peccato del mondo. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui coccio arido, gola senza acqua ti ha irrorato di sorgenti divine. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ti ha nutrito con il suo stesso sangue, con il, suo stesso corpo eucaristico risorto. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ti aperto il mare del cielo perché tu potessi procedere sicuro nell’estasi di Dio. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ti ha unto di olio crismale non solo il capo. Ti ha rafforzato le vene dell’anima con il crisma che inebria non solo gli angeli. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure il suo costato squarciato si è aperto per i tuoi giorni, per le tue notti, per la tua solitudine. Si è aperto come sacramento per essere chiesa, sua sposa santa, sua sposa tenera di salvezza e di misericordia. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ha scommesso su di te per essere santo come lui è santo. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ti ha abbracciato da lassù con un amplesso eterno. Lui è stato baciato con un bacio lungo secoli. Lui invece con il bacio dello spirito ci ha levato al Padre. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ha preso sulle sue spalle tutte i flagelli dei nostri peccati. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ha cancellato in te, in me, in noi, ogni colpa, ogni condanna. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ti ha reso libero dai tuoi molti peccati. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ti ha consacrato di onore nel battesimo della risurrezione. Il ritmo dell’anima scorre veloce negli sguardi dell’orizzonte. Ti riconoscerò nel segno dello spirito. Ti accenderò e capirai che parliamo solo d’universo. Resterai nei miei sogni. Mi troverai dentro l’anima. Vivo come te, coraggioso solo d’amare. Non puoi sbagliare nel riconoscermi nel silenzio. Mi troverai nei sogni che accarezzo. Scrivo mille pagine di noi. Dimmi che ci sei e che cammini accanto a me. Sentirò il tuo respiro e capirò che tu parli di me nel tuo amore. Tu pieno di compassione e di fertile sapienza dentro le mie vene. Io confido nei tuoi occhi. Io sono uscito dal seno della tua parola. Inconcepibile mistero d’amore. In te, solo in te, concepisco il senso della mia vita. Tu mi hai fatto tua armonia, pur nel tormento che angoscia il corpo. Tu hai scritto sulle labbra dell’universo il mio nome. Sono nato dalla sinfonia della tua misericordia. Mi prenoto in ogni aurora al tuo appuntamento, sicuro di trovarti. Sento il tuo respiro su di me. Te ne vai via e sento ancora il sapore del tuo caldo fiato. Senti quello che ti dico:”Resta sempre il mio amico”. In te la vita non è mai finita. In te posso volare. In te l’odio non vince mai. Bacchetto la luce che fatua splende nel sarcasmo dei potenti. Io sono il fiume della luce che non si spegne mai e che mi travolge inesorabilmente nel coraggio. Senti non mi portare in cielo, servo ancora in terra. Tu sai che il crogiuolo è lento e doloroso a purificare lo spirito. Fluiscono in me le note come sensazioni che non so dire e che tuttavia mi riempio di gioia. Io non dire cos’è l’estasi, quando cado sempre a terra dall’altezza del tuo spirito. E resto stabile nella fede. Ho scommesso tutto sulla fiducia in te. Sono stabile in te perché hai carattere nel mistero. Sono stabile in te perchè mi fai paura nelle altezze che nessuno lassù è mai salito. Sono stabile in te perché io e te non abbiamo mai il cuore arrabbiato. Sono stabile in te perché sei un amico che sa stare in compagnia. Sono stabile in te anche se sei testardo per un tipo come me che sono più testardo di te. Sono stabile in te, ci puoi scommettere che non ti abbandonerò mai, io che ho tradito anche la luce. Sono stabile in te , tra di noi non c’è uno che sia fuso o stanco di essere assieme. Sono stabile in te e tutti noi ci moviamo in tanti abbracci di molti corpi. Sono stabile in te e non provo mai a scappare da te, anche quando la salita diventa croce. Mi dispiace non posso lasciarti ora che ti ho trovato proprio sul letto della croce. Tanta fatica per trovarti e ora tu sei con me. Sono stabile in te perché il mio corpo è nato dall’eterno. Non ho nessuna flessione nel procedere sulla cima dell’eterno. Ho scavato sassi con la mia bocca, rendendo candide e trasparenti le mie vene, più dell’issopo. La tua presenza è un invito al ballo. La tua presenza è una musica che nasce dagli occhi. E ti seguo e nessuno mi vede. I mie pensieri spaziano danza che mi sorride. Il suono delle tue labbra sempre di più diviene un’armonia in due. E il nostro abbraccio è fusione in un unico corpo che arde diamanti e grazie d’amore. Io sento ancora la voce che mi ha chiamato a sussistere il cielo. Se potessi decidere abiterei per sempre sulla terra, nella mia casa del silenzio.
Paolo Turturro
IL CANTO DELLA LUCE Io sono l’architetto della luce. Il mio corpo è tempestato di dolori imperanti in tutte le mie ossa. Ciò che temevo è sopraggiunto su di me. Venisse la morte a consolarmi di riposo. Mi hanno buttato nel deposito più oscuro come una veste sconcia. Potesse questo giorno che si apre essere risposta all’attesa. Passo il tempo in attesa della soluzione. Son divenuto carbone che neanche il fuoco più ardente mi accende. Il segreto delle intuizioni è nel dolore che setaccia continuamente la mente dalla feccia dei pensieri. Non vedo nessun confine nel cielo. Ho spezzato le tenebre della carne. Nelle fibre del mio corpo vivono tutte le dimensioni dei secoli. E’ tanto il magma dentro me che rivoluziono in un istante ciò che i secoli hanno intuito. Mi bolle dentro una fornace che mi catapulta nell’otre e rimango tuttavia stabile. Ho diffidenza dei preconcetti. Mi fanno obbrobrio quelli pagati. Ho diffidenza di ciò che è stabilito sacro per ammutolire i deboli. In fondo io sono soltanto un chicco di pensiero che germoglierà solo sulle rocce di altri universi. Intuire, vivere, amare è un effluvio tonificante. Mi rinfrescano, mi tonificano e mi rigenerano. Intuisco ciò che è rifiutato perché fa paura. Ho vinto la paura corazzandomi della sua stessa potenza. Non raggiro gli ostacoli, li converto in me in energia positiva. E’ tardi a intuire, per questo ho deciso di stare sveglio tutte le notti a scrivere. La nostra vita è solo un’azione a scegliere. Io sono certo che la libertà non è un’illusione, bandita sugli esclusi. Il corpo è la sede della libertà di respirare ciò che il creato ti dona. La libertà è il frutto di sapere. Io scelgo la libertà, senza sarei lo schiavo del tempo, lo schiavo dei sensi, lo schiavo di ciò che i prepotenti ti buttano in faccia. Io sono la luce che liberamente respira. E’ certo che dentro me, Signore, non c’è la tua impronta. C’è ben altro. Io sento vivo il tuo respiro nelle mie ossa, nel mio ventre, nella mia mente. Non ragiono con i sensi. Non ragiono con la carne. Non ragiono con i nervi. Non ragiono con le passioni. Non ragiono spinto solo dagli impulsi. Io ragiono con la mente. Io ragiono con il pensare. L’uomo nasce e cresce stanco, finché non riceve il primo bacio che lo accende di vita e diviene la torce calda e luminosa della speranza. Io non posso fare a meno d’essere il guerriero della luce. Sciabolo cattiverie che scendono tutte nel baratro della sabbia. Cerco in me la spada della luce. Mi vulcanizzerà il cuore. La cerco nelle rocce. La cerco nel calice di ogni fiore. La cerco sui monti innevati. La cerco nelle carezze di ogni madre. La cerco nel sorriso di ogni bimbo. La cerco nelle aurore che l’universo mi genera. La cerco. La cerco nelle sorgenti a cascate impetuose. La cerco nelle vie del cielo e nelle vie delle bufere. La cerco nel volto della gente. La cerco nell’innocenza dei cuore. Dove sei, o spada di luce? Dove sei, spada del cuore, tu che uccidi la morte? Dove sei, anima della mia anima? Dove sei, tu che mi consacrerai all’eterno? Dove sei? Sono pronto ad affrontare le sette prove, pur di trovarti anche nella morte. Dove sei, tu che nasci nella parto della morte. Tu che mi hai ferito con la prova più assurda. Io non posso fare a meno di te. Io che ti ho inventato nel buio più fitto del dolore. Non sono stanco dei sogni che mi precedono puntualmente le intuizioni. Sono caduto nella notte e nessuno si è accorto che ho generato la luce del conforto. Soltanto io e te, sappiamo il percorso che la creazione ha generato nei secoli di anni luce. Soltanto io e te, sappiamo che la religione non può conquistare il mondo. Soltanto io e te, sappiamo che il potere è sclerotico e che si incenerisce più della morte. Soltanto io e te, sappiamo che l’uomo e la donna sono appena un petalo di carne. Soltanto io e te, sappiamo che la carne non muore nell’amore. Soltanto io e te, sappiamo come brilla il deserto della nostra fede. Soltanto io e te, sappiamo che il peccato ferisce solo le tenebre. Soltanto io e te, sappiamo che l’uno è il talismano dell’altro. Soltanto io e te, sappiamo che il sangue non è peccato. Soltanto io e te, sappiamo che l’uno riposa nel corpo dell’altro. Soltanto io te, sappiamo di vedere nel buio più denso dell’oblio. Soltanto io e te, sappiamo che l’agonia è il respiro dell’eterno. Soltanto io e te, sappiamo che tu e io siamo figli prediletti di Dio. Ecco ti ho trovato, o spada dell’amore. Ecco ti ho trovato, o spada invisibile di luce. Altro non sei che Dio dentro di me. Altro non sei che Dio, alito di tutto il creato che ci infiamma di luce che non tramonta. Soltanto io e te, sappiamo di vivere in eterno, ineffabili, inseparabili. Carne della stessa carne. Luce della stessa luce. Respiro dello stesso respiro. Io e te, coniugati nell’amore. Io e te, coniugati a creare l’universo dove l’uomo non può più peccare. Io e te, coniugati a generare i sogni che Dio a seminato dentro di noi, per far nascere lo stupore e la meraviglia di ogni creatura che fa l’amore con la terra. Io e te e siamo l’alfabeto del nuovo universo che nessuno ancora vede. Io e te ad arredare l’anima di valori nella sinfonia della luce. Io e te.
Paolo Turturro.
VENITE A ME Il cielo vuole abitare dentro di me. L’ho accolto e gli ho donato la stanza più luminosa. Sono stanco di camminare su sentieri bui di rabbia. Ho piedi insanguinati da tratturi di gelosie. Ora sono beato. Il cielo è in casa mia. Mi ha regalato le aurore più splendide, anche se la carne è sempre più bella. Cammino ancora sentieri tempestati di rovi e di spine. Ho gambe sfregiate a sangue. Mi danza dentro il ritmo della luce. Il dialogo più umano è l’abbraccio dei più poveri e degli emarginati non solo sui confini della mente. Mi hanno isolato nello scrigno del silenzio. Qui sento che anche i colori hanno le labbra rosee di canto. La luce mi conduce a mano nel calice dei sogni e dei sapori divini. Mi hanno flagellato gli occhi a non vedere la verità, senza sapere che essa nasce nello spirito. Solo il peccato frena il sorriso e l’incanto del cielo. Il sorriso delle lacrime scaturite dal dolore più atroce brilla più di ogni grazia. Il pianto mi ha insegnato ad amare persino chi mi ha calpestato nel fango. Sono la voce della luce, terapia di ogni malattia. Mi sono spalmato sulle membra la crema di arancio e il nettare delle pomelie. Sono divenuto dopo l’inferno l’albero maestro della primavera. L’azzurro del mare mi ha squarciato il corpo di arcobaleno. Mi fendono dentro raggi di eternità. Non cade colui che ha la mente e il cuore nel bene. La grazia non cade mai, mai. Con il fianco piegato la volontà del bene mi erge in piedi. L’anima mi ha coronato di spine la fronte. Nella mia città del silenzio mi strugge la crisi della chiesa. Crisi nata solo dal potere. La crisi della chiesa finirà nel momento in cui avremo una chiesa miti e povera, come Cristo l’ha ideata. Ecco inizio la mia chiacchierata. Non posso ringraziare nessuno per l’ascolto, tuttavia vi chiedo solo il favore, se vi addormenterò con il mio dire, di non russare. Vorrei meditare in questo momento duro per la chiesa il brano di Matteo:” Venite in disparte e riposatevi un po’”. E ancora”:Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio gioco infatti è dolce e il mio peso leggero”. Ecco iniziamo a interpellare il Signore. Siamo invitati dal Signore alla sua intimità, alla sua amicizia di famiglia divina. Qui, nella sua casa, qui nella sua intimità capiremo che la crisi è solo una possibilità di ritornare a Lui, alla sua origine, al suo modo di pensare, di amare e di vivere. Si, vorrei dirvi che questa crisi è la visita più terribile che il Signore vuole farci. La peggior crisi mai conosciuta dall’uomo è la distruzione della propria anima. La peggior crisi mai conosciuta da un popolo è la distruzione di ogni costituzione. La peggior crisi mai conosciuta dal Israele fu la distruzione del tempio e la deportazione in esilio con l’abbandono totale della terra promessa e dell’arca dell’Alleanza. Possiamo scoprire però che Dio è più vicino che mai in questa nostra crisi, più vicino di quanto non lo fosse mai stato presente nella legge, nel potere, nei sacramenti distratti e venduti. E’ vicino a sollevarci. E’ vicino a consigliarci. E’ vicino a correggerci e a curarci. Ecco Dio è vicino. Compare ancora oggi quel Gesù scomodo. Quel Gesù a infrangere le leggi tanto amate anche da noi, a mangiare nel giorno di sabato, a toccare gli impuri, a toccare i lebbrosi per essere che lui lebbroso, esiliato fuori della mura, esiliato dove nessuno può andare, a gridare che l’uomo è padrone del sabato e che non può affatto essere che il denaro è il padrone dell’uomo. La crisi nasce dalla schiavitù del denaro. Compare ancora quel Gesù che vuole fare a pezzi tutto ciò che non è amore; vuole fare a pezzi tutto ciò che noi amiamo per nostro comodo. In ogni eucaristia puntualmente noi lo perdiamo, perché credere è entrare nell’invisibile al male dove lui vuole portarci. Questa nostra crisi è un tempo che ci viene donato per scoprire quanto quel Gesù non normale ci vuole essere vicino di quanto noi avessimo mai immaginato. La nostra è una crisi di fede, è un’anemia di fede causata troppo spesso per usare il sacro a nostro favore. E tuttavia non ci abbandona alla tentazione di non esserci più. Questa crisi è l’occasione più imperante per la sua totale purificazione e benedizione. Possiamo dunque stare tranquilli. Questa crisi ormai mi sta troppo stretta e io non posso più indossarla. Ho preso un’altra veste, un’altra maglietta, un altro camice, mai un altro cristo. Forse vestirò la chiesa di sudario perché possa risorgere davvero. E lui puntualmente sulla spiaggia dei nostri tempi ci accende la brace della speranza, la brace dell’incontenibile letizia della sua presenza. Possiamo stare tranquilli perché ci ha liberati da ogni condanna. Ogni crisi è l’inverno che possiamo godere per il suo silenzio, per la sua intimità, per il suo calore familiare. Questa nostra crisi è causata dalla mancanza di essere famiglia di Dio. Tornare all’origine ci dà la forza di essere tranquilli, qualsiasi cosa accada. Torniamo all’origine di essere piccola chiesa, piccola famiglia dove quel Gesù scomodo invita con certezza il Padre a stare con noi. Poniamo la domanda perché la crisi possa risolversi: in che modo vivere questa nostra crisi come un tempo di benedizione e di nuova vita? L’impatto è enorme. Ovunque c’è una rabbia contro la chiesa. Ovunque ci sentiamo smarriti e oppressi. E quel Gesù scomodo ancora una volta ci invita:”Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi ristorerò”. Siamo gravati di stampa. Siamo gravati di odio. Siamo gravati perché non vogliono soltanto cavarci gli occhi, vogliono la morte di quel Gesù tuttora scomodo, la morte del suo vangelo così blasfemo agli occhi dei prepotenti. Noi lo perdiamo, quel Gesù scomodo, se lo lasciamo usare dai prepotenti del mondo a loro modo. Quel Gesù vuole caricarsi del nostro peso perché facciamo altrettanto nel sopportarci il carico pesante delle nostre stesse violenze. Nel sopportare la rabbia di chi parla per odio, senza mai avere subito violenze. Io non riesco ad ascoltarli alla radio e alla televisione. Riesco a stento a resistere, voglio spegnere, anzi non accendo. Quel Gesù scomodo ci insegna, mentre noi vacilliamo, a portare sulle nostre spalle il peso della rabbia, il peso delle ingiurie, il peso della delusione e della amara sofferenza, fiele dalla bocca di chi odia. In noi sta per compiersi la parola del profeta:”E fu annoverato tra gli empi”. Mi sento così annoverato che sono empio, fatto empio, perché l’empietà venga ancora una volta annientata da quel Gesù scomodo che fa soffrire tutti i suoi amici. Ecco amici, la sua amicizia. Ho davanti a me l’angelo della giustizia che dinanzi a Dio mi elenca tutti i miei peccati e anch’io mi sono rifugiato nella manica di Dio dove trovo un grande refrigerio e riposo. Mi capita però che nello stesso istante subentra dinanzi a Dio chi mi ha fatto del male e a sua volta l’angelo della giustizia comincia a numerare i suoi pregi e le sue cose disgustose e anche lui si rifugia nella manica di Dio e stranamente ci troviamo tutti e due nel ristoro divino. Tutti e due seduti nella manica di Dio, fianco a fianco, a godere il riposo all’ombra della tunica dell’amore di Dio. Anch’io sono fuggito lì a mia volta. Non è un sogno quello di Elia. E’ la risposta di quel Gesù scomodo che vuole salvi santi e peccatori. E’ la risposta alla nostra stessa crisi. Possiamo uscirne soltanto chiedendo perdono e perdonando.
Paolo Turturro.
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Nell’ icona del cuore Vivo eremita e il cielo non si può liberare di me. Senza, il suo volto sarebbe esangue. La vita non è una fuga da se stessi. La giovinezza è resistere all’agonia fisica e morale. Dentro la giovinezza non scende mai l’inferno. Tante cose non comprendo. So soltanto di patire la giovinezza che resiste alla dimensione del tempo. Ho mangiato pensieri nel banchetto dei giorni. Mi sono reso conto che la sapienza abita a stento la carne. L’universo si perde nel nulla, quando l’aria muore. Viviamo selvaggi, incirconcisi nella mente e nel cuore. Ho spulciato pensieri malvagi dal tuo cranio. Ho purificato il tuo sangue dalle scorie delle diossine dell’odio. Ho potato le radici dell’anima, secche di speranza. Combatto l’autonomia del pensare e la sua assunzione al servizio di poteri diversi. La mia esperienza di solitudine mi porta dentro gli insegnamenti dei padri da Basilio a Isacco il Siro, dai padri del deserto ai padri dei giorni d’oggi. Colgo i simboli di fede nelle icone bizantine. E scopro che sono sigillati dentro il mio stesso corpo. Cammino le grotte degli eremiti e medito nelle rocce il cielo da loro contemplato. Sento la sinfonia del loro silenzio. I padri non passano e non lasciano nei manoscritti liturgie sterili d’amare. Incontro la loro solitudine piena di comunione nei secoli. Mi affascinano le loro straordinarie meditazioni create nel buio silenzioso dell’anima. Sanno ciò che avviene nel mondo senza vedere e lontano dagli stessi eventi. Sanno la calma e interrogano il fuoco perché le loro fiamme riscaldano il gelo della mente di ogni uomo. Hanno occhi pieni di sapere e le mani incallite di terra. Riposano in piccole celle e nel giorno hanno il cielo come chiesa. Il loro cammino è la teologia della creazione. Partecipano eremiti alla coltivazione del creato. Scrivono l’essenziale della sapienza umana perché sanno che scorre come la sabbia che i loro piedi nudi calpestano. Tutto sigillano nella pelle del loro corpo che massiccio sa di potenza. Vivono la comunione senza falsità. L’uno è la presenza dell’altro. Non hanno drammi sulla loro pelle. L’autentica ricerca del senso non li accascia nell’angoscia. Persino le loro ossa stanche sono serene. La povertà è la loro più grande ricchezza. Pensano, amano e vivono senza zavorra. Le loro dita sono pennelli di affreschi e sono beati nel vestirsi della pelle dello spirito. Vivono il convegno della comunione nella perfetta sincronia del silenzio. Danzano passi di angeli mentre zappano orti e segano tempeste. Anche nella notte respirano il giorno. La notte è giovane nel loro cuore. Nelle loro notti scorrono fiumi di luce e abitano già l’eden dello spirito. Non conoscono il dolore della terra tanta è l’estasi che inebria le loro giornate. Scrivere o zappare, leggere i salmi o faticare la terra è la stessa dimensione dell’icona della loro contemplazione. Sanno che ogni loro meditazione è fredda nel fuoco del divino amore, per questo il loro corpo è un’offerta perché l’ineffabile trovi spazio per abitare nel loro cuore. Il silenzio è lo spazio più ampio perché il divino ti possa parlare. La miseria dei peccati abbassa il tono dell’estasi e la teologia della misericordia prende campo nelle loro vene. E solo nel letto della croce trovano il riposo più salutare. Vivono le nozze della comunione fraterna. La pieve più gettonata è il loro stesso corpo. Dentro si coniugano i sacramenti dell’olio catecumenale, dell’olio crismale e curano le ferite dello spirito con l’olio degli infermi. Conoscono le stagioni del tempo come le loro tasche e sanno con certezza l’ultimo respiro che lo spirito può effondere al loro corpo. Corpo e terra, anima e bibbia sono la loro stessa dimensione reale. Scrivono con il fiato la teologia umana riscaldata da una embolia d’amore. Nel monastero, lì non prendono dalla vita cose eterne, lì prendono dalla vita quanto essa dà, non il tutto, né il nulla, bensì il discernimento del bene e del male. L’unica battaglia dell’uomo: conoscere il male e scegliere il bene. Lì non si aggrappano convulsamente alla vita, ma neppure la si getta via spensieratamente. Sanno che al di là della morte incontrano già nelle pareti della terra l’uomo nuovo, fatto di potenza del loro amato risorto. L’uomo nuovo è l’icona che giorno dopo giorno affrescano nel loro spirito. L’uomo nuovo è la creazione che nelle fatiche della sabbia e dell’argilla dei giorni il risorto sa creare nella loro carne stanca e senza preghiere. L’uomo nuovo è l’umanità che a fiumi esce dai loro conventi e a fiumi scorre nelle vie del cielo per fare nuova ogni cosa della terra. Cantano il paradiso nelle celle spaziose dei loro cuori. E offrono il loro respiro a un altro vivente, perché la vita continui a meditare e a vivere il cielo. Qui la vita è una croce a fiamma di luce. Ogni eremita è una tranquillità. Stringi le loro mane calde di calma. Esci dal loro monastero sazio di cielo. Nello scrittorio nell’anima ti annotano risposte sagge e adeguate al tuo stato di situazione. Non si possono chiudere le loro pagine di silenzio. Restano impresse nella parola che tu fuori annunci. Riuniscono giovani assetati di spirito e affamati di serenità. I monaci nella pastorale della questua lasciano nei paesi, nelle città e nelle strade scie di profumo divino. Ci basta questo per sperare che il divino ci visita e vuole abitare la nostra esistenza. Senza il cuore l’uomo è sabbia. Il risorto è la buona novella per questa nostra umanità smarrita da secoli. I monaci sanno indicarci il sentiero dove cammina il risorto nelle strade delle icone di oggi. I padri hanno voce oggi per noi. Salgono in cielo per vivere nella terra. Ognuno di loro è un’icona sicura di pace per i nostri cento passi di ribellione ad ogni male.
Paolo Turturro
Ancora il fuoco Apro le mie mani al cielo, perché diventino dieci fiaccole a illuminare le tenebre. Invoco il fuoco dello Spirito a infiammare la fiacchezza che il dubbio stressa la gente. Sanno gli artisti la potenza del fuoco. Sanno le madri e i giovani il calore delle fiamme dell’affetto. Sanno i saggi la forza del suo discernimento. Sa la famiglia come ogni braciere raccoglie attorno ai figli la memoria che plasma nuove generazioni. Sanno le clarisse nella liturgia del canto come infiamma il loro silenzio. Sanno i sentieri battuti dalla luce di ogni aurora. Sanno i tetti accarezzati dall’alba di ogni giorno. Sanno gli alberi come trasmettono con il vento i molteplici riflessi di luce. Sa il cuore come arde passioni e sentimenti a concepire generazioni innocenti di valori. Sa la musica come danza la struggente bellezza di ogni giovinezza di pensiero. Sa la liturgia come prende incanto e vita non solo nella notte della Pasqua. Sa il canto come far scendere dal cielo il coro degli angeli e dei santi. Anche le nostre fantasie, anche i nostri slanci d’amore, anche le nostre ardite poesie sono una flebile fiamma dinanzi all’incommensurabile fuoco della mente divina che accende l’universo e l’animo di ogni vivente di nuove e irripetibili creazioni. In greco il fuoco ha la radice etimologica del “puro”. E’ l’alimento che rende innocenti tutti. E’ l’alimento che bruciando le scorie di ogni stanchezza, di ogni limite, di ogni peccato splende candore di innocenza. E’ l’elemento che nascosto profondo ci purifica senza consumarci. I nostri malinconici giorni, le nostre liturgie spente, i nostri consigli freddi e distaccati agli afflitti e ai poveri sono il segno di essere noi anime spente. La ripresa alla speranza, la ripresa alla consapevolezza, la ripresa all’impegno altro non è che la potenza del fuoco nella nostra stessa coscienza. Ho sempre non solo le mani ma tutto il mio volto ogni giorno rivolto al cielo perché mi piova dentro la brace di fuoco dello Spirito. E’ la mia iniziazione al divino. E’ la mia iniziazione alla fede che ha occhi sempre di fuoco. Un turbine di fuoco avvolge ogni mia passione tanto da offrire il mio corpo, come lievito, per impastare il fuoco nel cuore. Non sempre il fuoco riesce. Si spegne dinanzi alla cenere della mia indifferenza. Si spegne nel baratro del cuore che odia. Si spegne negli occhi che non credono. Si spegne nella parola che uccide. Si spegne nella corruzione del denaro che vuole comprare persino Dio e il cielo. Si spegne nelle carte nascoste di ogni diritto d’uomo. Si spegne nei palazzi dell’odio. Tuttavia anche nell’abisso di ogni cenere la sua magma si riaccende. Accende la gioia. Accende il nuovo cammino. Rianima dove maggiore è il pericolo, là è la salvezza. Nel fuoco abita la purezza. Nel fuoco abita l’innocenza. Nel fuoco abita la giustizia nascosta agli innocenti. Nel fuoco è la mente di Dio che fa carne e pensiero ogni volere. L’esperienza del fuoco coinvolge tutta l’esistenza. Lo sanno i pionieri dello spirito che ardono idee secoli prima che i gretti di mente possono capire e accettare. Lo sanno le miriadi di donne che non hanno potuto esprimere agli uomini le loro opinioni e che morendo le hanno affidato al fuoco che le ha trasmesse allo scrigno del sapere umano, nascosto nel silenzio degli occhi delle generazioni. Mi infiamma ogni Pentecoste, soprattutto quella attorno a Maria; quella con gli apostoli dagli occhi al cielo; quella effusa di miriadi di fiammelle; quella che arde persino gli agnostici; quella che arde silenziosa in ogni cuore che veglia il silenzio di ogni aurora; quella che consacra i sacramenti; quella che avvolge di sorpresa gli afflitti; quella che ci unisce in un unico linguaggio d’amore; quella che non spasima di fatui entusiasmi; quella che rabbrividisce d’incanto e di perdono ogni cuore; quella che apre l’orizzonte del cielo nelle viscere della terra; quella che non puoi dire perché il fuoco sa di alfabeta di silenzio. La Pentecoste è lì, dinanzi alla porta del tuo cuore. Basta un piccolo fiammifero per incendiare il bruto più incallito di tenebre. Il fuoco non è il quarto elemento. E’ il principio di ogni elemento. Spira talmente amore che te lo trovi dentro senza sapere. Spira talmente ardito che ti fa Trinità nella Trinità. Ti infiamma nella Trinità senza consumare la tua identità. Io non so dire come il fuoco diventi carne. Io non so dire come lo spirito diventi corpo. So tuttavia che questa è la legge di ogni fuoco. E’ scritta al principio dei secoli. E’ scritta all’aurora di ogni Pentecoste che crea sempre nuovi universi di pensieri. Il fuoco è la teologia dove puoi leggere tuttavia solo un barlume di Dio. Non puoi scrivere la teologia del fuoco. Sono fiamme troppe incandescenti per divenire argilla di parole. Sono fiamme troppe incandescenti per essere pagine della terra. Ecco perché, qui sulla terra, tutto rischia di essere cenere. Ecco perché io muoio sterile di fede. Ecco perché anche i giovani, dal cuore di fuoco, si spengono di dubbi e di odio. Ecco perché anche le liturgie più antiche sanno di ancestrali tenebre se non si ritorna al fuoco d’origine che riaccende di stupore anche i cuori più freddi. I nostri sacramenti se non ritornano nella brace dello Spirito Santo non potranno che generare anime spente. Ecco perché la ricerca di ogni così chiamato ateo non è altro che quel fuoco d’origine che vuole tornare a splendere di conoscenza e di verità. Entriamo nella fornace dello Spirito. Lasciamoci infuocare. Lasciamoci cuocere puri e fragranti. Lasciamoci illuminare dal discernimento delle sue fiamme. Lasciamo le nostre freddi opinioni di liturgie che rendono scheletri i nostri animi per divenire corpi ardenti del suo spirito. Lasciamoci martorizzare l’anima come torce ardenti che riscaldino il mondo ormai ghiacciaio perenne di fede fredda. Il fuoco non può perdere. Il fuoco non può perdermi. Se non ci fossi dentro di lui, mancherebbe qualcosa, qualcuno al fuoco dell’eternità. La Pentecoste sei tu che ti riaccendi di speranza che diviene carne della tua fede.
La lavagna delle idiozie
Mi ribello a chi afferma ancora oggi che le armi di difesa possono essere strumenti che garantiscono la pace. Povero Mandela! Povero Gandhi! Eppure c’è chi su tale paraocchi riceve il premio Nobel della pace. E’ un’asserzione ipocrita che rinsalda la capacità di ogni guerra. Possibile che non ci sia un estintore che possa spegnere tale idiozia per sempre? Ritorno al senso. La luce è arte. Mi crea colori non solo sulla pelle. Io sono l’architettura della luce. Io sono l’idioma della parola. Io sono la nota dell’armonia. Ho consacrato la luce nell’anima. Sono il generatore dello spirito. L’ignoranza è la pazzia più dominante. Aizzare un folle è la violenza più squilibrata. Sono tutti fuori nel cortile delle mode dei big che si gonfiano di sapere altro che la frivolezza. Oggi si arricchisce chi è cretino. Molti lo fanno per elemosinare denaro che a iosa riempiono le loro tasche vuote d’intelligenza. Lo stupido fa ridere lo sciocco. E guadagna banche che non sfrutterà mai. Il soldo delle stupidaggini è come una casa senza tetto. Dentro vi vomitano non solo pioggia, ma delusioni, disperazioni e avvilimenti. Il loro guadagno è un diluvio a cielo aperto. Lo stolto che tutti oggi vogliono imitare, è l’immagine reale della nostra società basata sull’apparenza. L’effimero ha il volto dell’opulenza. Fai il cretino e guadagnerai denaro. E’ lo slogan di tutte le trasmissioni. Ora trasmetto il loro ragliare. Il capo claque delle idiozie è un conduttore televisivo. Lecca sempre davanti e di dietro. S’intende i fogli da leggere. Non indovina una. La sua faccia, e non solo, è di pietra. Adorerebbe anche il sedere del suo padrone. E si ride a crepapelle per ascoltarlo e in lui, per ricevere favori, apparire sapienti. Solo così gli inerti si garantiscono il posto di lavoro. Si ride senza comprendere battute e idiozie. Sono capaci a pieno titolo di far ragliare l’asino sulle cattedre delle università. La laurea più venduta è quella delle stoltezze. Vi ho detto che li farò ragliare. Non ci vuole molto, dato la loro bravura in questo campo di stalla. Cominciamo il concerto. La battute più alte sono sciorinate sulle nuvole reali televisive. Lassù anche il caffé è celestiale. Il Padre eterno è sempre vecchio di barba bianca. Mai una volta che sia giovane come egli è. Gli angeli sono statuine di ovatta e gli attori credono di essere divini. Provano a volare e subito si piombano di risate grasse e umane. In cielo non si ride di carne. Scendiamo giù nel baratro dei telegiornali. Cantano solo violenze, condanne e morte. Siamo così stanchi della morte della televisione da sapere fin dalla partenza della mattina che ci annunciano solo catastrofe. Eppure è così assurdo che proprio nelle idiozie della pubblicità si vende a quantità. Si rischia di atrofizzare il cervello di non sapere altro che sciorinare sciocchezze. Stai lontano dall’elettricità delle scemenze televisive, perché senza sapere ti trovi ingabbiato nella morsa di ragionare come loro. Eppure penso di spaccare le onde di certi programmi di grandi fratelli. Oppure le lacrime di certi amici che per finta si commuovono davvero. Meno male che sulla lavagna si può sempre cancellare. Indelebile invece è la credenza della stupidità. Ieri lo sciocco veniva facilmente calamitato a credere alle idiozie. Ahimé oggi anche gli intellettuali ridono di vuotaggine. Forse perché non hanno vissuto le notti di sudore per studiare, comprando le laurea a basso presso. Sto pensando come tale clima di superficialità abbia condotto la nostra Italia a livelli minimi di cultura con evasione, non solo scolastica, ad altezze inimmaginabili. Siamo divenuti una nazione culturalmente più bassa dell’occidente. I nostri fratelli che vengono da terre più lontane sono più motivati e più slanciati nelle ricerche della crescita culturale. Basti pensare che un bambino Mauriziano, o dello Srylanga conosce la sua lingua natale, l’inglese, il francese e l’italiano. In confronto, senza offendere nessuno, il bambino palermitano conosce il dialetto siciliano e appena appena l’italiano. Che baratro di differenza. Andando avanti così troveremo, forse con clima migliorato, i nostri fratelli dell’Africa e dell’Oriente, consiglieri comunali, professionisti delle nuove industrie, artisti, poeti e operai della nuova civiltà multirazziale. Ben venga la civiltà dell’intelligenza aperta al mondo e non più chiusa di paura di razzismo e di religione. Che brivido la grettezza delle idee che aggrediscono solo chi vuole eliminare l’altro. Sono cresciuto imparando a leggere sul volto dell’altro le lacrime della speranza e le rughe della vera sofferenza culturale. I furbi di cattiveria mi hanno sempre irritato di ribellione. Ho aperto sui giorni del mondo il vero telegiornale della verità che sostengono non solo i poveri ma ogni cittadino che cresce apprendendo carismi da ogni popolo della terra. Ora mangio datteri e papaia, uva e mango, pesce e ostriche non più francesi. Ora leggo Dante e Gibran, Leopardi e Khaled Hosseini, Savonarola e Enzo Bianchi, Francesco e Edhit Stein. Ora scrivo terra e cielo, Africa e Scandinava, erbe, fiori e arte, innocenti e colpevoli. Ora dipingo Van Gohg e Renoir, Van Dych e Pietro Novelli. Ora curo santi e peccatori, sani e malati. Ora ascolto Bach e i tamburi africani, jazz e valzer, concerti e bestemmie. Ora so di tutto ciò che è intelligente e strappo seppellendo nei solchi dell’ignoranza gli statuti dell’egoismo che i potenti avari di cuore imperano sui poveri e sui deboli. Ora accolgo dentro me ciechi, storpi, zoppi e malfattori. So che la mia casa è aperta per costituire la nuova tavola rotonda della terra. L’assemblea è aperta a tutti, nessuno escluso. Non si paga biglietto d’ingresso. L’unico sigillo che si richiede è l’intelligenza che è un regalo che ogni uomo ha dal Padre eterno. L’assemblea è fissata per ogni giorno della terra. E’ per i piccoli e i grandi; per gli innocenti e i colpevoli; per ogni figlio d’uomo vivente sui colori del nostro pianeta. Buon lavoro assemblea riunita sulle pagine bianche della luce. Scriverete costituzioni, statuti, poemi che solo la luce della verità vi suggerirà. Scriverete soltanto ciò che è carne e spirito di verità. Ogni uomo leggerà ciò che il suo stesso sguardo ha sigillato sulla pergamena fatta di pelle umana. Tutti attori, scrittori e poeti della nuova costituzione universale della terra. Buon giorno, terra, ora abitata soltanto da innocenti.
Paolo Turturro
Il fuoco della Pentecoste Ho sposato il fuoco. Nel braciere della sua brace ho lacrimato dolori. Mi piace, stamane, confondermi nelle tue braccia. Tu mi abbracci e non mi consumi mai. Sono legato per sempre a te. Tu appari e dispari però. E’ l’eterno gioco dell’amore. E’ l’eterno gioco di ogni fuoco. Quante proibizioni il fuoco. “Sta lontano”. Non toccare”. “Ti bruci e ti scotta”. “Ti consuma”. Quanto incanto il fuoco. Il tuo fuoco è sempre una liturgia. E’ la liturgia delle fiamme d’amore. Ogni fiamma è in me un miracolo. Sono entrato da tempo nel dolore e ancora non respiro germogli che sanno di verità. Sono dentro un mare dove l’orizzonte è soltanto oceano. Anche il mare ti rassomiglia. Ti inabissi senza sapere dove vai. La Pentecoste è l’anima di Dio. Non è un evento esterno. E’ lo spirito che s’infuoca senza esaltazioni esterne. Da tempo ho smesso di respirare la speranza. Sto soffocando, ho bisogno del tuo respiro bocca a bocca. Tuttavia questa agonia non mi porta alla tomba. Io sono fiducioso in te. Mi sono abbandonato in te. E sento dentro di me un fuoco che è enigma e contraddizione. Non scherzo con il fuoco. Inconsapevole anch’io rubo ai santi i fiammiferi, per sperimentare la letizia del tuo fuoco. Questo fuoco somiglia a me stesso, che sempre mi accendo e mi ribello. L’inganno mi fa disperare, so tuttavia che assomiglia alla notte che finisce prima o dopo nella risurrezione. Sono sempre giovane perché resisto a ogni dolore fisico e morale. La giovinezza è questa: bruciarsi senza consumarsi. Sei sceso dentro di me a liberare gli occhi senza preghiera. Sei sceso dentro di me a liberare l’anima senza speranza. Sei sceso dentro di me ad accendere il roveto ardente. Ho valicato il limite dell’impossibile dove Dio è il fuoco della follia dell’amore. Tutto purifica e rende ogni spirito smeraldo di ogni brillante. Qui dentro di me, con ordine, il fuoco della speranza si accende e regolarmente si spegne. Sono nella fragilità del fuoco. Non sono in balia del fuoco a disperare momenti e giorni. Mi avvampa e mi accende le mie notti oscure. Io non so che cos’è la Pentecoste ma ho paura che le sue fiammelle mi scendono dentro. Io non so che cos’è la Pentecoste ma mi costa che dall’agonia mi esala all’estasi. Fiammelle che dal capo mi accendono lo spirito. Spirito di fiammelle che accendono il mondo. Il suo corpo non sopporta di essere toccato. So che mi incendia senza che io sappia. So che mi purifica senza che io lo chieda. Scendi sopra di me per cuocere quel pane che spezzi a ognuno di noi per purificarci. Scendi dentro di me perché le tue vampe brucino la diossina di ogni stress e di ogni male. Non so che cos’è la Pentecoste, so tuttavia che il risorto mi infiamma. E’ innominabile questo tuo fuoco. So tuttavia che comunica ardore. Sei il più puro di tutti gli elementi. Sei il più innocente di tutti gli incanti. Sei il più attraente volto d’amore. Sei il giorno che non tramonta e il più chiaro della creazione. Le nostre tristezze, le nostre malinconie, le nostre disperazioni, le nostre passioni, solo di carne, sono senza fuoco. Il mondo è spento perché non scommette più lingue di fuoco, non scommette valori che assicurano la letizia. Il mondo è spento perché si riscalda alla cenere del denaro umano. Tutto questo tu lo prevedevi:”Sono venuto a gettare fuoco sulla terra e quanto vorrei che fosse già acceso” . E qualcuno ancora:”Egli vi battezzerà nello Spirito Santo e nel fuoco”. E’ una pura contraddizione che solo in Dio è reale. E’ una comunione irreale, impossibile quella dell’acqua e del fuoco. Coniugare acqua e fuoco è ciò che Dio sa fare. Come possono convivere senza che l’uno consumi l’altro? E’ la stessa energia dei coniugi che non consuma nessun partner nell’amore. Certo non consuma senza drammi. Io non so che cos’è la Pentecoste, so tuttavia che nel braciere il fuoco distrugge le scorie e arde di splendore ogni metallo. Più scendono dentro di me queste fiammelle e più in alto ascendo. Che cos’è questa avventura che disarma persino i potenti? Fuoco che diventa musica. Fuoco che diventa carne. Fuoco che diventa anima. Fuoco che diventa imprevedibilmente spirito. Che cos’è questa’anima del fuoco che coniugata all’acqua diventa in te spirito di Dio? E’ il battesimo del fuoco. E’ il battesimo di fuoco che rende i peccatori innocenti come i bambini. E’ il battesimo di fuoco che musica colori nell’anima di ogni credente. Tuttavia è soltanto un pallido fuoco quello della terra. Quello che discende dal cielo ci brilla dentro la nobiltà del sapere divino. Illumina il discernimento della verità. Coniuga il cielo e la terra in uno stupore di volti sereni. Non bastano i sette candelabri. E’ sempre oltre il Figlio del fuoco. Non consuma soltanto le ingiustizie. Non incenerisce soltanto i prepotenti del tempo. Ravviva la fede, riaccende la speranza d’incanto, arde il lucignolo fumigante. E tu che ti senti spento, ardi già di vita nuova. C’è sempre una colonna di fuoco sulla terra, che indica che il Signore è presente. Ecco la colonna di fuoco di sant’Agostino. Ecco la colonna di fuoco di san Francesco. Ecco la colonna di fuoco di santa Teresa d’Avila. Ecco la colonna di fuoco di santa Maria Faustina. Ecco la colonna di fuoco di santa Bernardetta. Ecco la colona di fuoco di san Luigi Orione. Il fuoco è l’intimità con Dio. La Pentecoste è il tabernacolo che ti incendia di sicurezza. Caro amico, il peggio che ti possa capitare è non essere né caldo, né freddo. Il gelo si può incendiare. I ghiacciai si possono ardere, diventano sorgente di acqua pura, ma non si può ardere l’indifferenza. E’ il verme che annienta l’umanità. Il fuoco è un’esperienza difficile. E’ una cosa seria. Si rischia senza la giusta responsabilità di distruggere l’intimità del dono. Non si scherza con il fuoco, non si scherza con il sacro. Il fuoco abita nelle vestigia del sacro. “Togliti i sandali perché la terra che calpesti è sacra”. Non si può consumare il fuoco dei sacramenti nell’indifferenza assoluta delle nostre fatue feste di comunioni, di battesimi e di matrimoni. Si rischia l’incredibilità. Il fuoco è l’elemento che coniuga la vita e la morte. Oggi siamo così freddi che non conosciamo più le meraviglie del fuoco, perché troppi fatui fuochi illuminano i nostri occhi. Il roveto ardente è la nostra coscienza, fornace sempre incandescente per alimentare i valori sulla terra. Solo Dio conosce il segreto del fuoco. So tuttavia che da questo segreto nasciamo tutti noi. Il fuoco dello spirito è così ardente che solo i puri di cuore lo possono sostenere. Con i nostri sacramenti fatui generiamo invece solo anime spente. Cari amici, basta un frammento di fuoco dello Spirito santo per incendiare di nuovo il mondo, come è capitato ai nostri amati discepoli. Su, non teniamo chiuso nei cassetti della nostra mente i fiammiferi dei sacramenti che Prometeo ardeva conoscerli per infiammare il mondo. Le fiammelle del fuoco conoscono il creatore, per questo tendono sempre più in alto a sposare il cielo. Paolo Turturro
Apro la luce Apro la luce nella tomba. Apro il tau della vita. L’aurora del risorto mi sta donando il Qiqajon, l’alberello di letizia e di frescura nel cammino del solleone che infiamma disperazioni. Ho segnalato ai radar del cuore di ogni uomo la via Lattea. Lassù non ci sono lotte intestine. Lassù scorrono fiumi di luce. Scorrono primavere del risorto, primavere di latte e miele. Ho messo in crisi l’assurdo. Ho discusso il negativo convertendolo in positivo. Io non so che la lotta delle energie interiori. Poco conosco delle passioni della terra. Ho distrutto l’inferno del tuo cuore. Io so che nasce soltanto dall’odio. Io so che è la bestemmia più orrenda affibbiata a Dio. L’ho cacciato fuori nel fango dell’inesistenza. Tu, con il risorto, abiti l’eden dello spirito. Ci siamo fermati a quello della terra, del Tigre e dell’Eufrate. Abbiamo ancora tanta strada da fare. La felicità è l’eredità degli occhi. Mi sono sposato il fuoco per generare la gioia. Ora posso affidare il mio sguardo alla tua luce. Non sono sicuro di conquistare la contemplazione. L’anima del tuo fuoco è imprevedibile, è incommensurabile. Come gustare il divino? Come sàpere dell’ineffabile quando l’uomo arranca ancora sabbia di rancori? In Te apro il nuovo giorno. Nessuno sa che i santi sposano la luce. Penetrano nel loro corpo raggi cocenti, tanto che diventano per noi fornace ardente. Calpesto gli affari. Nella mia città sono il più misero. Non penso però che qualche satana mi abbia accusato dinanzi a Dio, come ha sofferto Giobbe. Come può satana stare dinanzi a Dio? Altrove scommettono a gomitate per avermi compagno. Ho scalato lo spirito, salendo sul monte della legge, il Sinai che mi documenta regole della coscienza. Non ho trovato in giro cocci dei comandamenti. La coscienza non è fatta di argilla, né di creta dura della gente. Ho scalato il monte della luce, quel roveto ardente che brucia le scorie del peccato del mondo. Ho scalato il monte della trasfigurazione, il Tabor, dove è l’uomo a trasformare la sua mente per vedere ciò che gli occhi della terra non possono vedere. Dio è immutabile e Gesù, il Figlio della luce, dona agli occhi dell’uomo la capacità di vederlo, quale egli è. Ho scalato il monte degli ulivi, dove si è consacrati di profumo crismale. E sono sul monte della pietà, dove scorro fiumi di lacrime a versare nell’oceano del cuore di Dio. Sto salendo il monte del cranio, dove è proibito salire per non appestarsi di malattie infettive. Vedo tanti scalare il monte del calvario, dove è salito l’uomo, chiamato Dio. Lassù si sale per l’ultima battaglia con la morte. L’ultimo mirabile duello per annientare la morte. Lassù, dove il Figlio dell’uomo consegna a Dio l’umanità tutta perfetta, nuova creazione del suo amore. Pochi sanno di essere sul monte della risurrezione. Tutti consegnano il proprio corpo alla croce che dona soltanto la morte. Pochi sanno che il sudario del nulla ci avvolge di vita nuova. Staremo tanto dentro monte del sepolcro, da dove esplode per ogni uomo l’irradiazione divina della risurrezione. Chiusi nel monte del sepolcro nessuno saprà mai dell’esplosione della risurrezione. Nessuno saprà mai l’alito, il fiato d’amore che genera nel ventre della morte la nascita a nuova vita. Nessuno saprà mai cosa è successo a quel sudario ben piegato a terra. Su quel sudario è scritta la risurrezione. Su quei teli è affrescata la vita eterna. E’ il mistero dell’oltre e nessuno saprà mai il volto dell’oltre tomba. E’ il mistero dell’ignoto. E’ l’alfa del sapere. E’ l’omega della perfezione. E’ l’alfa del vivere senza morire. E’ l’omega dell’infinito. Tace persino il dubbio dinanzi a tale certezza, a tanta meraviglia. Persino la rabbia del sepolcro si quieta. Non può contenere nel suo buio la luce. Io non so l’esplosione della luce. Io non so come ci si fulmina di eterno dentro il buio di una tomba. Io non so dire che impazzire di vita a non finire. Io non sento che una infinità di voci attorno alla croce. Io non sento che un’infinità di sinfonie di palpiti di certezze attorno al risorto che nessuno vede nel tempo. Io non sento che tutta la creazione vibrare di risurrezione dentro una tomba che nessuno dentro mai vede. Io non sento che soltanto il giusto è il lievito di pane che fermenta senza che tu lo sappia l’infinito dubbio della tomba in vita eterna. Io non sento in questo fuoco che l’umiltà del sapere. E’ la strada che mi conduce al giardino del magma fiorito. E’ la strada che mi conduce al vigneto che pigia vino rosso nel cuore. E’ la strada sulla quale tutti hanno scritto lacrime di fuoco, fiori sbocciati nel terreno del dolore. Non vivo come topi nelle fogne delle metropoli. Ho bisogno di respirare, di toccare la terra che mi ha partorito, di annusare l’aria di ogni incanto. Non passeggio più sotto l’agonia dei grattacieli di cemento armato. Apro la luce di ogni chicco di terra e respiro la primavera della creazione. Apro la luce di ogni farfalla e godo la metamorfosi di ogni vivente. Apro la luce e scolpisco il cielo dentro le mie vene. Apro la luce e affresco l’anima di angeli e di santi. Apro la luce e sono l’artista di caldi colori e di affreschi di carne. Apro la luce e gli uragani si quietano in sorgenti di paradiso. Apro la luce e lo storpio cammino retto e sicuro. Apro la luce e il cieco contempla ciò che è dentro l’invisibile dell’infinito. Apro la luce e verso ai semplici ciò che è nascosto ai sapienti del mondo. Apro la luce e mi inebrio già del corpo glorioso di Cristo. Io non so dire ciò che la luce accarezza. Io non so dire ciò che la luce annuncia. Io non so dire ciò che la luce scrive sul volto di ogni innocente. Io non so dire ciò che la luce incarna sulle labbra di ogni bellezza. Io so soltanto di vedere appena e nulla so descrivere e più ancora nulla so vivere dell’eden della luce. Non cammino soltanto nel magma del grembo della terra. Ho sognato il mio corpo navigare nel ventre dell’infinito. Lì dentro abito e canto e respiro la luce del Risorto.
Paolo Turturro
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Non sprecare Dio.
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Sul lago di Tiberiade.
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Paolo Turturro
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Un silenzio di paura, un silenzio senz’ali di speranza
Di nuovo le strade vestite di paura. Di nuovo le case chiuse di silenzio. Di nuovo blandire le mazze per la morte. Ogni domenica a sera eri a messa a s. Lucia. Sono tornati i massacri. Sono tornati a Caino e Abele. Sono tornati selvaggi dello spirito. Sono tornati alle mazze. I primitivi sono disarmati dinanzi a tanta violenza della mente. La carne è sacra dinanzi ai misfatti e ai tumulti di certi cervelli. L’impressione è gigantesca dinanzi al silenzio di questa città. E’ una città caduta da tempo nell’inerzia. Si rimane massacrati sulla strada, dinanzi agli occhi atterriti della gente. La risposta è l’omertà che tutti consacrano nelle carte perché viviamo uno stato che blocca ogni giustizia. La risposta è il silenzio. Un silenzio senz’ali, seppellito da terra di cenere. Ogni domenica a sera eri a messa a s. Lucia. I contenuti della fede ti aprivano l’animo. Si dialogava assieme dopo l’omelia. Non sempre capivo le tue scelte. Manifestavo a te direttamente e a uno obiettore di coscienza affidato a Dipingi la pace, il mio pensare. Ognuno di noi, retto e lineare nell’agire e nel parlare, procedeva nel rispetto di due persone che cercavano di aiutare questa nostra amata città. Non so dire lo scandalo che vive il tuo ambiente, certo il clima è di tensione e di preoccupazione. Il muto e inerte camminare della gente dinanzi al tuo massacro è la quotidiana copertura di paura. Non riusciamo a uscire da questo stato di fetore e di torpore che stagna la nostra gente. Da tempo è tutto finito. “E’ tutto finito! - ci angosciava Caponetto”. La stasi è la legge di questa città. Anche questo mio scrivere si perde di speranza. Ci hanno incatramati, bloccando il coraggio e la lealtà. Non so più sognare un treno di pace che parta dalla nostra città. Non so più sognare le catene di coraggio di giovani che infiammino la nostra città. Non so più dire, tanto abbiamo detto nelle stragi dei dolori. Non so più dire, tanto abbiamo gridato l’inutilità delle mafie. Non so se è meglio la tua morte o la mia vita. La morte è la libertà di vivere per sempre dentro il creato di Dio, dove non c’è peccato, non c’è ingiustizia. Tu stai nel pianto della misericordia del Signore. Tu, lassù, non stai massacrato di gambe. Non si possono spezzare le gambe dello spirito. Non si possono spezzare le ali della speranza. Non c’è mazza che possa massacrare l’animo. Quante lacerazioni il cuore. Quanti smarrimenti la mente. Lo spirito non si piega mai. Non avranno la tua obbedienza. Mi rivolgo ora al Signore che tu vedi e contempli la sua infinita misericordia. “ Ti sei mischiato nel nostro fango per purificarci. Nel tuo volto sfregiato di terra abbiamo ritrovato la tua luce. Perdendoci in te, ci siamo ritrovati. Vibra nel nostro spirito il midollo della tua divinità. Non è affatto vero che l’umanità piomba in paura. Io so che vive della tua reale presenza. A una a una hai strappato le foglie secche dei nostri dubbi, delle nostre ribellioni, delle nostre proteste, dei nostri peccati. Il tronco del nostro corpo è lacerato, come un condannato a morte che sale sul Golgota. Il tuo figlio, per primo, è salito sul morte della morte da dove ha esploso per tutti la tua vera luce di misericordia e di salvezza. Saliamo su tante montagne: L’Oreb, il monte del roveto ardente; il Sinai, il monte della sorgente; il calvario, il monte della morte e della risurrezione. Tutti noi saliamo, per restare non solo in piedi ma procedere in alto e giungere fino a te. Tutti noi nella tua vigna eravamo fichi secchi, rigogliosi solo di foglie non capaci di coprire le nostre nudità. Vivi di peccati e morti di grazia. Per questo tuo figlio ha giocato alle contraddizioni, per farci ritrovare, nel suo amore, morti al peccato e vivi di grazia. Continuamente ci sollevi per non precipitare nel baratro dell’inerzia e del nulla si può fare. In te, siamo il lievito della ripresa, non solo per questa nostra amata città. Felix culpa! Ci siamo meritati un così grande redentore. Felix culpa! Sono certo che solo una goccia del tuo patire, Signore Gesù, lava i massacri del mondo. Non ce la facciamo più a stare in questo liquame. Sono certo che il tuo pianto è la nuova linfa vitale per ringiovanire la vecchiaia del massacro. Sono certo che anche chi massacra sente dentro di sé il fuoco ardente che brucia di dolore e di rimorso. Sono certo che l’alito di una città splende con il tuo e con il sacrificio di tanti martiri. Martiri che senza saperlo sono stati malati di amore di questa nostra amata città. Sono certo che la pena non cambia una città. Sono certo che l’uomo abbisogna di aprire il libro della propria sua coscienza e non sono le pagine delle sanzioni. Sono certo che occorre ricominciare daccapo con l’educazione scolastica seria e austera per i nostri giovani. Non hanno tolto il tuo sangue sull’asfalto lavato dal diluvio delle tempeste, perché scorresse profondo nelle radici fresche e sane di questa nostra amata città. Sappi, come ora tu sai, che Dio è amore e misericordia che sono la linfa più certa per sanare non solo una città ma ogni cuore d’uomo.
Paolo Turturro
Tu non c’eri! Accompagno l’anima.
Io sto accompagnando il mare. Ha voce profondo e già mi parla di te. Accarezzo le onde dopo ogni mio pensiero. Ogni sogno che faccio, segno un passo avanti sulle rocce delle onde dello spirito. Stella tu sei anche per me. Forse tu non sai che cosa ti darei perchè tu possa essere felice. Troppi sogni di coraggio ho fatto nei giorni sbagliati. Troppi sogni di coraggio assai fragili. I miei sogni sono al di là dell’orizzonte della terra. Mi sono accorto troppo tardi che i miei sogni, me li hai dato proprio tu e che ogni sogno viene da un’ala del cielo. Ogni giorno è una nuova stagione dove le lacrime invisibili sono conosciute solo dagli angeli e dove è possibile cominciare daccapo. Sento che il respiro che ti infiamma di odio, non è di casa mia. Camminerò nel tuo cuore. Ho una grande voglia di tornare a casa. Se tu ci sei, io ti cambierò e la nostra casa sarà di nuovo piena di pace. Accompagno il cuore dove tu sei. La nostra visione invisibile agli occhi sarà di carne che sposerà lo spirito. Tu non puoi sapere quanto è immenso il cuore di Dio. Tu non puoi sapere da quando tempo egli ti attende. Tu non puoi sapere quanto sudare sulla croce per salvarti. Tu non puoi sapere quanto tardo è il tuo incontro con lui. Quanti futili motivi ci distaccano da lui. Non è il dubbio che ci stacca da lui ma la nostra poca fiducia in lui, il nostro non distacco dal peccato. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Tu non c’eri sotto il venerdì della morte. Eppure lui ti accolto nel suo ultimo respiro consegnato al Padre. Troppo alto è il suo dolore. Troppo divina è la sua consegna. Noi sappiamo solo di offerte di terra. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ti ha consegnato come figlio a sua madre. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ha squarciato le tenebre per battezzarti di luce. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ha scontato per te e per tutti il peccato del mondo. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui, coccio arido, gola senza acqua ti ha irrorato di sorgenti divine. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ti ha nutrito con il suo stesso sangue, con il suo stesso corpo eucaristico risorto. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ti aperto il mare del cielo perchè tu potessi procedere sicuro nell’estasi di Dio. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ti ha unto di olio crismale non solo il capo. Ti ha rafforzato le vene dell’anima con il crisma che inebria non solo gli angeli. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure il suo costato squarciato si è aperto per i tuoi giorni, per le tue notti, per la tua solitudine. Si è aperto come sacramento per essere chiesa, sua sposa santa, sua sposa tenera di salvezza e di misericordia. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ha scommesso su di te per essere santo come lui è santo. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ti ha abbracciato da lassù con un amplesso eterno. Lui è stato baciato con un bacio lungo secoli. Lui invece con il bacio dello spirito ci ha levato al Padre. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ha preso sulle sue spalle tutte i flagelli dei nostri peccati. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ha cancellato in te, in me, in noi, ogni colpa, ogni condanna. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ti ha reso libero dai tuoi molti peccati. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ti ha consacrato di onore nel battesimo della risurrezione. Tu non c’eri sotto la croce di Gesù. Eppure lui ti ha fatto santo come Lui è santo. In questo Venerdì Santo, Signore, sto uscendo dalla notte del dolore e mi trovo immerso nell’aurora della tua risurrezione. Amico, usciamo assieme dalla notte della morte.
Paolo Turturro.
Prefazione all’Apocalisse del cuore.
L’apocalisse del cuore è la sfida che l’uomo fa a Dio. E’ la sfida della terra che vergine vuole partorire Dio. E’necessario tuttavia che il cuore vada in esilio. Così San Giovanni per la sua grande apocalisse. In esilio si scrive per vedere ancora i propri cari. In esilio si ama con la mente che lancia messaggi oltre il tempo, oltre i confini dello stesso esilio. Così san Giovanni scrive da Smirne alle sue amate comunità . Io di te, caro Giovanni, ho scelto la città di Laodicea. Quante lettere. Quanti sogni. Quante lacrime versate su quei papiri della notte. Quante urla non solo nei sogni. E tu, caro Giovanni, scrivevi e lanciavi alle tue comunità l’appello alla speranza, alla fede, all’impossibile dell’avversario che inevitabilmente sarà annientato. Anch’io ho urlato, anch’io ho sognato la liberazione non solo mia ma della mia comunità , della chiesa. Anch’io ho scritto con le lacrime. Anch’io ho scritto con il sangue. Anch’io ho spaccato la rabbia della poca fede. E mi sono trovato a terra. Non riuscivo a ritrovarmi. Non riuscivo a sollevarmi. Così in me è nata la rabbia dell’Apocalisse del cuore. Così in me è nata la ribellione a un dio fatto da uomini e che mai potrebbe amare o rispondere. Così mi sono liberato di un dio morto senza risurrezione. Caro, Giovanni, è l’apocalisse del cuore e non della parola. Tu sei l’apocalisse del logos vivente. Il cuore può sposarsi con il logos, con la Parola Vivente. Vedi sono caduto nell’abisso del nulla, per questo alla fine mi sono ritrovato. Vedi sono caduto nella fossa dei leoni per questo chi mi ha gettato dentro è stato divorato. Resta soltanto il silenzio tra noi. Io vorrei tanto sapere perché non riesco a vedere l’invisibile che tanto mi ama. Ho mangiato il suo spirito per questo il mio respiro è infinito. In qualunque parte del mio corpo tu sia, io ti raggiungerà. Ci sono stati uomini che hanno sventato intuizioni lungo secoli prima che si realizzassero. Manifestare il proprio pensare è uno scandalo che costa totale emarginazione. Vedi Galileo, vedi Copernico. Tu muori sulle labbra che parlano baci di falsità . Solo il sacrificio di morire per l’altro ti fa capire che l’altro è un dono per te e che l’altro vive, ama e respira come te. Tante volte coloro che sollevano gli ammalati non sanno d’essere malati D’amore. La situazione più comune della gente è vivere la maggior parte della propria esistenza nella superficialità dell’ignoranza. Invece tu sei stato da Dio destinato ad essere eterno, destinato all’ineffabile, destinato alla sapienza. Tutti andiamo a baciare la morte e solo gli angeli che sono dentro di noi sentono il profumo delle nozze con Dio. Io cammino il corpo del cielo. Abito il corpo delle stelle. Abito il vento dell’universo. Abito gli occhi dell’invisibile. Svento il corpo della primavera. Dentro mi scorre il corpo delle sorgenti. Io vesto la miseria della carne sbranata da mille lupi. Solo così divento eterno. Tengo per me lo spirito di sapere amare il nemico, forza che è data solo ai profeti. Sei lontano mille anni luce se pensi che la mente è la coscienza. Ti sbagli, come la notte, se pensi che il cuore è la coscienza. Sei in errore, come l’odio, se pensi che le labbra sono la coscienza. E’ oltre la coscienza. E’ oltre il pensare, è oltre il parlare, è oltre l’amare. E’ oltre il cuore per palpitare eterno. E’ oltre la mente per non ridurre la coscienza al solo pensare della terra. E’ oltre il parlare perchè le labbra sono appena la porta del cielo che non vedi. Lì non possiamo peccare. Entro quella porta non è dato sbagliare. La coscienza non è attaccata alle ossa. La coscienza non è di carne, né abbisogno di carne. Respira senza carne. Esiste senza carne. E’ amore senza carne. E’ l’alito di Dio che il tempo non può recriminare. E’ l’alito di Dio dentro ognuno di noi che la carne stessa non può coniugare. E’ l’alito di Dio che resiste alla tomba che la morte sogna di splendere e che solo sa incenerire. Tu credi all’impossibile che ti fa essere davvero? Tu mi credi che mai anima fu assetata di Dio più di me. Tu mi credi che mai cuore palpita alfabeto di Dio più di me! Tu mi credi che mai mente fu affamata di Dio più di ognuno di noi oggi. Tu mi credi che non smetterò di sognarlo finché dentro assieme lo vedremo. E solo allora gli griderò: “Perchè così tardi! Perchè così oltre! Perchè così amaro per amarti!” Perchè che allora non resteranno senza risposta. E allora appena comincerò ad aprire le labbra che ora non ho, resterò in silenzio a contemplare il tanto amore infinito per me. E mi sposerò coniugandomi con lui nel silenzio. Ora solo spasimo di sapere che cosa succederà là dentro. L'apocalisse del cuore è appena iniziata.
Paolo Turturro.
Il Padre dal cuore di misericordia.
Io so che significa essere il più piccolo di famiglia. Io so chi è il figlio più giovane di casa. Io so, si versano su di lui tutte le attenzioni, tutte le soluzioni mai date ai fratelli più grandi. Io so d’essere il più giovane di casa per questo mi assomiglia tanto la parabola del Padre dal cuore di misericordia. Il più piccolo è sempre estroso, è bizzarro a qualunque costo. Al più piccolo si concede tutto. Le nonne poi fanno passare l’assurdo nel nipote più piccolo, persino la pipì sotto il naso. Il più piccolo è il bastone della vecchiaia per cui l’affetto che i genitori riservano è davvero in commisurabile. Comunque andiamo alla parabola, non tutti i figli più piccoli sono scapestrati, non tutti poi fuggono di casa, Che cosa è successo in casa del patriarca? Che succede fuori di casa per cui un figlio desidera la parte del patrimonio che gli spetta per fuggire in un paradiso che non c’è? Scendiamo in una casa di contadini, aperta a tutti persino a radio e televisioni. La porta è aperta. Non c’è bisogno di bussare alle porte delle case di paesi. Anche di notte sono socchiuse e libere di sicurezze. Ci vuole una intelligenza tutta diversa per guidare pecore, cavalli, asini e televisioni. Così il più piccolo di casa, oggi, bevuto di radio, di computer e di facebook arde di città e rifiuta campagna, stalle e capanne. Proviamo a scendere in un paese d’Israele. Ecco il padre è benevolo. E’ affabile con ogni figlio. E’ liturgico d’amore. Non può immaginare il male che non conosce e che non abita nelle vene della propria casa. Eppure il più piccolo non è contento e chiede di andare altrove. E il padre divide tra i due figli le sostanze. Basta un pugno di dollari per realizzarsi? Basta un assegno di un milione di euro per farsi una dolce vita? Ecco vediamo. Quel figlio raccoglie le sue cose in un sacco di pelle di montone e và . Che cosa possiamo mettere in uno zaino di un pellegrino? Che cosa possiamo pigiare in uno zaino di sacco a pelo? Quali cose di casa mettere dentro se poi al body-scanner tutto è da eliminare? Che cosa far passare alla dogana elettro- magnetica, quando la polvere di ogni droga è più invisibile di ogni malizia? Si è nudi anche dinanzi a certi raggi. Si è nudi sempre dinanzi agli occhi degli altri. Si è nudi sempre dinanzi al male. Nudi di dignità. Nudi di potere. Nudi di discernimento. Nudi di niente. Nudi di vagabondare. Nudi e vagabondi di incertezze. Così si passa? Basta pagare, per passare al male? Si passa. Si và altrove. Si va sempre in un altro paese. La curiosità è il passo stanco della gente. Si và altrove, in un altro paese. Diverso dal proprio, per non essere riconosciuti. Diverso da quello di campagna, per non sentirsi ancora cafoni. Diverso da quello senza malizia, per godere ciò che è proibito. Diverso e perciò piace. Quello più lontano è sempre il più desiderabile. Nel nuovo diverso si sperpera tutto. Al vento delle mode si vende tutto. A quella amica un gioiello di tatuaggio. A quella donna più esigente un brillante. Bisogna sempre far bella figura. Quella figura che dentro non c’è. Quella figura che al limite non vorresti mai avere. A quella donna poi che ti dà tutto, ecco l’anello civile che ti lega non per sempre. E’ un bene non legarsi per sempre, non si sa mai nella vita cosa succede. Meglio un legame superficiale, è facile poi scioglierlo. A quel gruppo di anarchici, do persino la mia volontà . E’ meglio senza volontà. E’ meglio che decide l’altro. E’ meglio che decide chi ha più potere. Decidiamo noi, sta tranquillo. Tu devi essere solo felice. Felice di noi che pensiamo a te. A quel grande fratello poi, tutte le mie passioni e tutte le porcherie. Ci sono. E’ il massimo che potevo desiderare. Cioè svuotare tutto me stesso per essere sul trono del successo. E’ il massimo del piacere. Tutti poi mi conoscono che sono arrivato al limite della stoltezza. E questo mi basta tanto da saziarmi. E’ il massimo del piacere che tu non hai e che mi acceca gli occhi e la mente. Non è poi tanto futile quest’estasi della terra! E’ il massimo, dove vendo persino le ricchezze della mia casa, i sudori di mio padre, e se avessi una moglie la venderei senza scrupoli. E’ il piacere che ti blocca di inerzia. E’ il piacere che non ti fa più pensare. E’il piacere che ti annulla. E’ il piacere che spegne non solo il corpo. E’ il grande fratello che vive da dissoluto. Si spende tutto nella futilità. Si spende ciò che non è tuo nella nullità . Si spende tutto nell’apparenza di non essere mai se stessi. Tutto calpesto per giungere al cinema che non mi fa essere. Per giungere a un Sanremo più inutile e venduto. Anche nel ristorante più frivolo può raggiungere la carestia. Muore il bacio nella carestia dei valori. Muore l’affetto nella carestia dell’impegno. Muore il cuore nella carestia dell’amore. Si perde la faccia senza saperlo e si bestemmia la carestia dei cibi e del denaro, addossando a Dio la colpa della mancanza. Chi si affida soltanto al denaro prima o poi cade nella carestia dell’avvilimento. E quel giovane per sopravvivere serve persino i maiali. Serve persino i porci. Chi si perde nel denaro e nel suo bisogno si sazia del rifiuto dell’altro. Nel denaro si bramano persino le carrube o le ghiande dei maiali. Quanto schifo nella miseria! Quanto pianto nel fango! Il fango però non può distruggere una coscienza di figlio, una coscienza nutrita dallo spirito del padre. C’è sempre una goccia di rugiada nella creta più secca e più dura. C’è sempre in noi una rivoluzione dell’anima. C’è sempre in noi una riflessione. E così quel giovane nello sporco dei maiali si diceva: “Che faccio? Dove sono? Mio padre?”. E’ la coscienza che ti salva dall’abisso dove sei caduto. E’ la coscienza, amico, che ti fa rientrare in te stesso. Non posso non sapere che mio Padre ama sempre. Non posso non sapere che sono stato creato per essere con Lui. Non posso non sapere che le lacrime mi fanno rientrare in me stesso e mi dico: ”Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te: Non sono più degno!”.”Taci!” grida il Padre abbracciandolo. “Taci!”. “Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio!” E più insistente il padre: “Taci. Sei il mio sangue. Taci, sei la mia vita. Taci, ti ho aspettato in tutti questi anni. Taci, sei il palpito che ogni giorno lanciavo dalla torre del mio cuore per ritrovarti. Taci, sei la mia commozione dopo tanto mio disperare. Taci, finalmente ti abbraccio. Taci, il mio animo è in festa, perchè eri perduto e ora ti ritrovo. Eri morto e sei tornato in vita, vivo dinanzi ai miei occhi. Taci, non ricordo proprio niente del dolore che nessuno mi ha dato. Taci, sei qui e mi basta”. Dio è Padre-Madre che dopo il dolore del parto esulta la gioia di averci sempre vivi. Dio è Padre-Madre che genera continuamente il parto della misericordia per ognuno di noi. Lo spirito non può per sempre tuffarsi nel fango. C’è sempre festa nelle braccia di un Padre, come Dio.
Paolo Turturro
Io non so!
Tutti sospirano l’eternità . Io amo ancora il presente. Io non so il risorto. Dio è l’uomo più disarmato che ci sia. Io ho sfiorato le sue labbra e sono divenuto il fuoco che crea nuovi cieli e terra nuova. La luce partorisce ciò che è sacro. Il perdono mi regala la veste pura del cuore. Ho sposato la carne del supplizio e ho generato l’amore che non muore. Tante parole fredde che non riescono a superare le labbra. Tanto amore gelido non riesce a uscire dal cuore. Forse non ho mai scelto nella mia vita. Non sono tuttavia trascinato dall’inerzia. Molti sono fermi proprio nella quantità del fare. Dinanzi a tanti crimini vivo il deserto del dire, vivo il deserto della fede. Questo è lo strapiombo che non finisce mai. Voglio uscire dall’abisso della parola. E’ solo ciò che mi resta. Sperimento la sabbia dei miei pensieri. I giorni si ottenebrano. Tutto è attentato dintorno a me. Mi restano gli scheletri dei giorni e delle mie notti oscure. Lo spasimo della luce è a goccia a goccia nel lambicco del dolore. La croce è la mia carne, per questo presto risorgerò. Cammino dentro di me la terra santa. Molti vengono a visitarmi e vanno via con i sacri vasi pieni di terra intrisa di sangue. Nel ventre caldo del pensare mi inerpico di volontà , tuttavia valgo meno di niente. C’è sempre un qualcosa in me che non è mio. Infinite voci che non so equilibrare. Infinite voci che mi aprono le vie dove devo andare. Io non so dire se entrano dal muro della mia mente o dal pavimento dei miei passi. Mi attorcigliano come vampe di fuoco e poi vanno via veloci. Sono angeli, sono demoni. Ho imparato a non ascoltarli, anche se so dentro di me che li comprendo e spesso li cerco. Quanto è stanco il corpo! Tuttavia non è mai vecchio. La colpa più grande che mi avvampa dentro è quella di volere continuamente, di voler pensare, di voler sapere, di voler amare prima che gli occhi che non muoiono si spengano. Forse il pensiero, lungo secoli, camminerà nell’oltre che non conosco e che già lo voglio. Chissà come sarà quel volere? Tutto so, guardando le labbra di Cristo. Io non so che il suo capo di spine. Io non so che il suo volto di cielo. Io non so che il suo costato di chiesa. Io non so che le sue labbra d’amore. Io non so che il suo sguardo di sovrumana pace. Io non so che le sue braccia possenti a sollevarmi. Io non so che il suo dire a infiammarmi. Io non so che il suo annuncio di salvezza e di misericordia per tutti. Io non so che le sue beatitudini del pane. Io non so che il suo camminare veloce. Io non so che il suo non tacere sul male. Io non so che il suo andare lento sul calvario. Io non so che il suo procedere flagellato di spalle. Io non so che il suo perdonare i soldati che lo inchiodavano. Io non so che il suo affermare: perdonali, Padre, perchè non sanno. Non è peccato non sapere, tuttavia è il crimine che ha ucciso Dio. Io non so che il volto raggiante di Maddalena nel giardino del risorto. Io non so che lo spalancare il cenacolo di Spirito santo. Io non so che lo saziare di pane la terra e renderla affamata di Dio. Io non so che il suo risorgere e mangiare ancora il pane e una porzione di pesce. Io non so che il suo amare la terra e il suo innamorarci di cielo. Io non so che il suo ascendere al Padre e il suo rimanere sempre con noi. Io non so che spezzare la sua carne e nutrire le nostre vene con il suo sangue. Io non so che il volto radioso di ogni santo, compagno di classe nel tabernacolo della risurrezione. Io non so che ha annullato la morte e ci ha incarnati di vita eterna. Io non so che il suo perseguitarmi di salvezza. Dalle sue labbra tutto io so e tuttavia attendo ancora il meglio e ciò mi spasima l’anima come una spada che mi trafigge senza sangue. Io non so che spargermi il suo crisma regale, profetico e sacerdotale. Io non so che entrare nel ventre del suo battesimo, morire a me stesso e risorgere. Io non so che cantare il silenzio delle icone che splendono solo in cielo. Io non so che battezzare i suoi giorni, i suoi piccoli, la sua mitezza e la sua infinita bontà. Io non so che consacrare la luce del perdono e fare di Cristo il cuore del mondo. Io non so che risorgere e tirare fuori dalla caverna degli inferi il resto ancora non risorto. Dalle sue labbra tutto io so. Io non vedo che sorgenti scorrere sui popoli sfiniti di arsura e di non credere. Io so che non conosco e per questo sono l’agnostico di fede. So anche tuttavia che Lui prima o dopo mi spalancherà la porta del suo cenacolo e allora non ha importanza sapere. Sono soltanto amore che spasimo di Dio.
Paolo Turturro
Nessuno si è accorto…
Dio è disarmato dinanzi alla potenza dell’uomo. Io non ti conosco e tu ugualmente sei arrivato al volto della mia origine. Sei entrato dentro di me senza che io lo sapessi. Mangio amaro sulle ferite del tuo sangue. Eppure solo tu conosci il mio amore per te perché a nessuno ne abbiamo parlato. Nessuno si è accorto di come ho gli occhi rivolti solo a te. Dentro me ho la vertigine dei cenci. Non mi sono curato della mia bellezza. Nessuno si è accorto che abito l’inferno che non è capace di bruciarmi l’anima. Per questo soffro ancora di più. Nessuno si è accorto di te, tu che hai creato l’universo. Nessuno si è accorto della luce che hai irradiato nei giorni. Nessuno si è accorto che io con te non riesco a peccare neanche nella disperazione. Tu, o Cristo, sei l’uomo che non ha mai disobbedito alla vita. Tu sei l’uomo dall’origine eterna. Tu sei l’uomo della crocifissione e della risurrezione. Tu sei l’uomo della polvere e della gloria. Nessuno si è accorto che la tua preghiera è quella di ogni uomo, lungo secoli di dolori. Tu sei stato la più grande catastrofe che i secoli abbiano potuto vedere. Tu sei la mano che la luce ha inchiodato. Tu sei il pensiero che si legge negli occhi. Tu sei l’uomo che abita nel tabernacolo. Tu sei il corpo che splende stupore. Nessuno ha mai parlato di te come il mio tormentoso cercarti. Io sono il tuo corpo che hai salvato sulla croce. Io sono l’anima che hai consegnato all’universo. Nessuno ti ha mai pagato una grazia, tu che hai un fiume di lacrime per ognuno di noi. Tu sei l’uomo che abita l’anima di ogni uomo. Tu sei la luce che affronta ogni battaglia. Persino nella pietra è impresso il tuo sigillo. E’ l’imprimatur dell’esistenza. Nulla senza di te sussiste. Tu sei il lebbroso che hai guarito, per gridare la salvezza per tutti. Io parlo sempre di te, eppure non ti ho mai visto. Sarebbe ora che pagassi il mio dolore di cercarti in ogni dove. Tu non mi lasci sedurre dall’effimero. Non mi intristisco dalla banalità del quotidiano. Non mi comprimo nelle strettoie del tornaconto e non mi smarrisco nei vicoli ciechi dell’interesse. Hai pagato troppo alto il prezzo del mio riscatto. Non posso mandarti in fallimento un’altra volta. Ogni giorno mi sbatti a terra dagli stalli delle mie sicurezze. Ogni giorno mi fai uscire dai recinti grevi che non partoriscono un conforto, un aiuto per chi mi sta vicino. Ogni giorno la mia casa è sventata, senza tetto e lo sguardo è sempre più alto di ogni stella. Ho appreso che unendomi al cielo, si travasa in me il nettare della sua energia. Stando con te ho assimilato la logica del Signore nel valutare le vicende dannose della storia. Abitando nel tuo tabernacolo ho imparato a giudicare me stesso e ad amare ogni più turpe peccatore. Non sono io che esisto ma sei tu che esisti in me. Il tuo sguardo spirante sulla croce mi quieta di desiderio del cielo. Mai come adesso ne avverto una estrema necessità. Se puoi, aprimi la porta. Mi sono accorto che dai giorni delle notti oscure la mia vita non rischia più di rimanere agli ormeggi. Con forza mi inietti l’overdose del primato della spiritualità. Mi fa molto male, tuttavia sono divenuto un’icona del tuo cielo. Tu sei la finestra dell’eterno sempre aperta sulla gente. Si, io guardo nei tuoi occhi, come finestre del padre. Ora il mio deserto è l’eden dei santi, a stento tuttavia vedo solo me stesso. Io sto centrando tutto in te, per questo i flussi del cuore sono collassi. Datti una smossa a salvarmi dall’abisso. Vedi che affogo nel fango. Io so che il mio grido di supplica ti commuove, per questo quaggiù non mi dispero. Nel fiume largo della tua misericordia non rimango in secca. Sento l’ululato che esce dal ventre dello spacca pietre. Sotto le Murge del tavoliere scorre un fiume di vento che spacca le caverne di ogni spirito. Non vorrei per niente abitarvi. L’inferno in te è solo una ipotesi. La notte del dubbio non finisce mai.
Paolo Turturro
Un lontano incontro. Ho terminato di leggere il capitolo “Uno strano prete” di Ignazio Silone. Da tempo non sentivo l’emozione di un santo come don Orione. Pagine vissute con la semplicità più seria. Pagine descritte con la passione dei ricordi. Anch’io, come lui, a volte mi nascondo per non farmi vedere piangere, magari da don Orione. Ho conosciuto Ignazio Silone nella chiesa di Monte Mario , Mater Dei, durante un funerale di un mio confratello. Egli conservava l’emozione di quel ragazzo dagli occhi dello stupore, lucidi ancora sul treno Roma- San Remo, in compagnia di don Orione. Ricordo la sua affabilità nel salutare tutti noi chierici,. personalmente ognuno di noi. Mi strinse forte non solo la mano, incise in me uno suo sguardo profondo, uno sguardo che mi resta ancora dentro,a distanza di tanti anni trascorsi, uno sguardo di intuizioni sull’arte, sul bello, sulla poesia. Sentivo quasi una consegna di un testimone che allora non capivo, la consegna di un impegno nell’ amare e raccontare la vita. Fin d’allora ammiravo il suo stile di Fontamara, Pane e vino, Una manciata di more, l’ammirazione dei cafoni, la bellezza del Seme sotto la neve. Mi spronava l’audacia della sua chiarezza, il coraggio della verità che nei suoi personaggi balzava immediata dalle pagine scritte non con l’inchiostro ma con la passione del cuore. Personaggi simili a quelli vissuti nel mio paese. Ricordi eguali alla mia terra che sa ancora di cafoni intelligenti soltanto a soffrire. Volevo non staccare la mia mano dalla sua. Volevo che fossero eterni quei secondi di saluto. Ma la vita è sempre un distacco per non incollarci a vicenda sul tempo che finisce. Così egli andò via ma non la forza della sua parola, non l’energia effusa dai suoi occhi. Non il suo capo imbiancato di neve candida. Non le sue mani rugose nello scrivere. Non il suo passo lento per incontrare tutti sul portale della chiesa Mater Dei. Volevo raccontargli che anch’io una volta fuggii dal collegio Vittorio Emanuele di Giovinazzo, fuggii non dal portone dimenticato aperto dall’autista di un furgone ma dal muro di cinta alto oltre due metri. Anch’io non sapevo dare una risposta al perché di un tale mio gesto. Anch’io ebbi dinanzi un direttore dalle mani unite e libere solo da un dito che mi minacciava. Anch’io ebbi la paura di non sapere spiegare il fattaccio. Io però mi rifugiai a casa mia non in un albergo presso la stagione di Roma.. E subito i miei mi riportarono in collegio, dove fui acconto da una suora benevola, suor Giulia. Ella mi spiegò con semplicità che amare la propria famiglia è un dono di Dio e che potevo tornare a casa quando e come volevo senza dover scavalcare quel muro così alto che mi sembrava quello di Berlino, tanta era la distanza tra il collegio e casa mia, cinquecento metri appena. Volevo dirgli che nacque tra me e quella suora un dialogo così sincero e semplice da somigliare a quel dialogo tra lui e Don Orione. Tutto questo però non gli ho potuto dire niente. Però nel mio animo mi ero proposto di scrivergli qualche volta. Come è amara la vita senza ricordi e come è amara la vita senza realizzare i sogni e i propri impegni. Per questo oggi nel rileggerti ho sentito una fiammata di ricordi e ti sto scrivendo, caro Ignazio, per scontare la mia promessa mancata.. Qui, non ci sono più cafoni. Anche la terra più isolata ha un sindacalista. Quanto diverso è la tua ribellione sugli operai. Quanto diversi i cafoni di allora, intelligenti e semplici. Sapevano quello che volevano. Sapevano il dolore di una casa senza lavoro. La tua e quella dei tuoi cafoni è una ribellione senza cavalcare le spalle dei disoccupati. Ora invece tutti vogliono fare i sindacalisti per cavalcare l’onda della politica. Che tempi strani. No, non sei tu strano, né don Orione uno strano prete. Senti, te lo dico chiaramente: sono strani loro nel cavalcare i poveri per farsi strada di successo. Non ci hai detto che cosa don Orione ti ha scritto su quella straordinaria e affettuosa lettera lunga dodici pagine, tanto da suscitare gelosia persino a un santo vescovo, mons. Felice Cribellati. Non fa niente. Il cuore consegna sempre. Non fa niente. Tutto si può sapere leggendo gli occhi. Non fa niente, tanto il tempo prima o dopo scopre i segreti dei cuori. Non fa niente se la fonte è amara anche quella della propria casa. Non fa niente se le pagine di una manciata di more oggi sono dimenticate. Stai certo che ci saranno nuovi giovani, nuove menti che apriranno le tue pagine perché il mondo ricominci a camminare sui sentieri delle nostre colline sassose. Tutti si nascondono in questo disastro di società, nessuno ha combinato guai, sono solo frutti di un sistema che tutti portiamo avanti e non nel cuore., Tutti si oscurano nel non sapere, senza sapere che un dito non può celare un monte o una boscaglia di disastri. Voglio anch’io per ora seppellirmi sotto la neve. Si resta puri sotto il cielo della neve. Si resta veri sotto la bufera del ghiaccio. Si resta forti sotto l’uragano delle bufere. Là sotto è custodita l’originalità della propria identità. Là sotto si geme. Là sotto si freme. Là sotto non si ci addormenta mai. Là sotto è l’esercizio più rigido per continuare ad essere. Là sotto anche la luce penetra sicura dal velo candido di ogni neve. Là sotto la vita si custodisce sicura. Là sotto anche le stelle hanno seminato la loro essenza di brillare nel rigido dolore. Là sotto abita il silenzio che genera le sinfonie delle foreste, le sinfonie delle sorgenti. Là sotto si concepisce la luce della speranza. Là sotto ci concepisce ciò che le lacrime irrorano nel cielo. Caro Silone, spunterà il giorno nuovo. Germoglierà il giorno della speranza. L’acqua scorrerà dal gelo e la terra germoglierà prati di viole e di primule di nuovo ardire. La natura fa nuova ogni cosa. Non c’è petrolio che possa incatramare per sempre i giorni del pianeta terra. Non c’è odio che possa spegnere il sorriso del giorno, il sorriso di un vivente. Non c’è arma che possa uccidere il fiato della natura. Non c’è nucleare che possa esplodere il creato e le valli dell’infinito. Non c’è un artiglio di mano umana che possa aggrovigliare i giorni delle stagioni. Sai, me l’hai stretta troppo forte quella mia mano e ora mi sprigionano le tue energie date nell’alito di una consegna, nella luce di un testimone preso per caso dal fato dei giorni. Un testimone che molti sentono nell’energia delle vene dell’arte, della poesia, del vero, del buono e del bello. Un testimone dato da Davide Maria Turoldo, da Alda Merini, da don Tonino Bello, da Genualdo Bufalino, da Salvatore Pappalardo, da Bruno Ghiroldi, da Angelo Vallesi, da Antonio Casile. Tanti, tanti corrono sul percorso della tua vita. Tanti, tanti sono angeli d’intelligenza sul tuo sassoso cammino. Paolo Turturro.
Galoppo il cielo Strofino le mani per riscaldare la luce, le rispondo con il sorriso del cuore. Vado a piedi nudi per la strada. Quanti giorni passano sterili. senza sapere di esistere. Ho deciso vendo la mia pazienza. Nessuno la vuole. Preferiscono le marine di Lo Jacono. Ne sono innamorato anch’io. Le onde scivolano sugli scogli prima che scenda la notte sulle barche gonfie non solo di vele. Senti ciò che ti dico” Scegli sempre un angelo che ti faccia compagnia nella notte più profonda. Ti saprà comunque indicare la strada che smarrisci.”. Prima che sia finita la notte tuffati nel giorno della speranza. Non vincerà l’odio. La bontà splenderà più della luce e persino le stelle la inseguiranno. I tamburi ritmano i passi. Cento passi per amare. Cento passi per protestare. Non si arriva mai alla dimora dell’orizzonte. Cento passi e sempre più avanti. Le idee di una certa candida prudenza sono più gelide del ghiaccio perenne. Non ti gelare l’anima con la falsa prudenza di certa bella vita. Ascolta, non fuggire la mente. E’ l’unica bussola della certezza. Non atrofizzare la ragione. vendendola al denaro. La mia cavalla, ogni mattina mi addestra a galoppare i giorni sempre diversi, sempre più imprevedibili. La costanza del galoppo dell’aurora mi sprona a superare gli ostacoli insuperabili. Io e lei solo con un fischio ci capiamo. Le offro delle zolle di zucchero con il polpaccio della mano e lei mi lecca tutte le dita. Nitrisce e mi indica il cammino delle colline innevate. Quanti giorni sanno i cavalli. Quanti sogni realizzano i voli della loro criniera. Questa mattina ho fischiato più a lungo del solito e non è salita nella stalla. Era giù. Era giù in mezzo all’erba alta. Ancora un fischio e salirà. Niente da fare, questa mattina è sazia. Preferisce l’erba fresca alle fave secche. E invece no, più tardi ho capito il perché. Una telefonata mi ha spiegato tutto. Ero già in viaggio in macchina, sullo scorrimento veloce Agrigento – Palermo. Squilla il cellulare. Pronta è la mia voce. “ Fuoco grande, una sorpresa è la voce dell’altra sponda. “E’ nato furia, il cavallino”. Ho capito, con la sua testa a ritmo di sorpresa che non ho capito, mi indicava a terra la nascita del suo cavallino. “Auguri, Luna. Furia ti darà filo da torcere, dato che dopo alcuni minuti era già in piedi a galoppare”. Dio mi galoppa nel cuore. Mi scende dalla mente al cuore. Galoppa senza che io lo veda, senza che ne sento il suo fiato. Quanto silenzio, questo Dio. Nel silenzio crea l’universo. Il tacere è la gestualità di chi crea, di chi genera, di chi nasce. Ho sfidato il silenzio. Ho perso chiaramente. L’ho amato fino all’abisso. Mi sono perso in lui e ho cantato ciò che non si può udire. I morti vagano sempre, finché non trovano il perdono. Ho forato la luce per penetrare nell’invisibile dove il silenzio fa l’amore. Ho carattere per osare ciò che la mente non può ardire. Mi piace ridere io che da dieci anni non conosco il sorriso. Tuttavia non sono arrabbiato. Amo viaggiare con la mente e quindi sono sempre in compagnia con la distrazione. Una cosa giusta io so fare: amerò il silenzio dove ci sei tu. Il demonio fa chiasso solo se l’ascolto. Io non odo mai i suoi rumori e il suo fracasso. Per cui per me non c’è. Non do da mangiare al suo morto e fuori del cimitero fumano solo le chiacchiere della gente. Smetto di galoppare il tempo e ora di ascendere come un airone su voli d’aquila dello spirito. Oggi è la shoah. Finalmente tace l’orrore. Ho firmato nelle vene dei popoli l’alleanza della fratellanza. Dio mi ha regalato la luce del discernimento. Lentamente sfoglio le sue pagine. Ho tanta paura di sapere da preferire il non conoscere il divino. Che so dell’eterno da poterlo definire? Che so dell’invisibile da poterlo contemplare? Il nulla è la voce del sapere. Tuttavia non chiudo le pagine della mente, pure se apro quelle del cuore. Non smetto di giocare il dialetto. Dentro di me salgo sul tetto degli angeli. Quando mi sento solo c’è sempre una musica che mi sveglia dal torpore dell’inerzia. Più siamo in tanti nel silenzio più alto saremo. Forse cambierà nella testa della gente quel silenzio che non ha niente a che fare con questo qua dentro. Quello è solo paura. Non si può immaginare la differenza. Questo è un battito di vita. Quello è una frustata di terrore. Solo gli angeli possono portare via le ali del terrore. E l’angelo che ha l’orizzonte della pace è la tua innocenza. Per morire adesso ti apre dentro una piccola poesia che ti fa nascere di nuovo. Io nasco due volte: una volta dal grembo di mia madre che non ho conosciuto e l’altra dal bacio del tuo spirito che mi ha battezzato di eterno. Forza, ci riuscirai anche in me a esplodermi di letizia.. Testardo come sono, più di un mulo. Tu sai ciò che noi sbadati dalle visioni notturne realizziamo senza nostro sapere. C’è sempre un principio di sorpresa per aprire le mani alla speranza. Quante cose che non sa il tempo. C’è sempre un principio di allegria per abbattere gli ostacoli della vita. Quante cose ci sono da buttare nel ghiaccio del male. Insieme si può battere il nulla. Insieme si può cominciare a sorridere alla vita, tuttavia meravigliosa. Danzo lo spirito e galoppo il cielo. E dentro sento le parole tue che sono la vita mia. E t’amo, e t’amo anche se non sento le tue melodie. Quanto spazio per galoppare il cielo. L’amore è il galoppo di questo spazio infinito e sento le parole tue che mi slanciano ancora più in alto a sapere, a conoscere , ad amare. Ora volo questo canto del silenzio per te. L’amore è melodia quanto nel silenzio tace l’inatteso, l’inaspettato, e non si ferma. Nulla è niente di in attentato. Paolo Turturro
Gli angeli sono i tuoi amici Nulla sa il peccato. La misericordia è l’energia del sapere l’amore. Io dall’acqua scalerò il cielo. Stupenda l’acqua che brucia il sole. Preziosa è la sorgente che scala le montagne. Il grembo delle sorgenti è pieno di morti e di risorti. Acqua che trasmette musica che annienta la morte. Guardo senza guardare in faccia il nemico. Ho superato la frontiera delle mie parole nutrendomi solo di una tua voce. In te sono altrove. Addio dolore. Di te non ricordo niente. Sono un uomo risorto. Mi scorre dentro un cielo di canti. Mi scorre dentro un fiume da ricordare. Fa parte di me. Scorre con me. Un fiume che è il tuo vangelo. Ora lento. Ora impetuoso. Musica del giorno dopo. Musica è il grano del tuo vangelo. Musica è un airone delle tue parabole. Musica è la tua carezza che rinvigorisce il corpo. Musica che parla solo di silenzio. Musica è il colore che toglie la nudità del corpo. Musica è l’altezza che capta suoni inascoltati nella dimora dell’invisibile. Musica è il cuore che apre sinfonie che pochi ascoltano. Musica che vibra girasoli di luci. Musica che plana generazioni di viventi. Dentro mi cammina nuda la vita. Procedo senza certezza alcuna. Annuncio senza nessuna sicurezza, senza una tunica, senza una borsa di denaro, senza i sandali per i miei piedi arrossati di cancro. Sento su di me il tuo respiro. Non più i calci della morte. Sento e ti aspetto ogni notte, dovessi odiare queste mura. Sento che mi fracassi le tenebre e io volentieri e stanco mi appoggio il capo sulle tue spalle. Quanta sicurezza! Quanto riposo! Quanto tutto che non finisce mai. Qui nella mia stanza mi hai dato, come custode, un angelo cugino: don Tonino. Ci guardiamo e lui mi sorride sempre anche nelle fitte lacerazioni del cuore. Non sono mai solo. Gli angeli non mangiano serpenti per avvelenare gli stessi amici. Essi sono un’ala di riserva per non piombare nell’orizzonte dell’inerzia. Sono mani che sorreggono per alzarci dalle cadute che umiliano. Vi assicuro che gli angeli non sono invisibili. Sono ali senza tempo. Sono ali senza spazio. Sono ali sempre pronte a volare. Sono ali sempre oltre il tuo immaginare. Sono amici sempre pronti a scommettere su di te. Quanta vita nel silenzio. Quanti amici che ti aspettano. Amici dell’ora in cui si fa ritorno a casa e si assapora la gioia di essere accolti da qualcuno. Amici che ci fanno il regalo della comunione fraterna. Amici che non ci fanno sedere soli nelle ore difficile della nostra vita. Amici del dialogo del silenzio, che non giudicano ciò che pensi e ciò che fai. Amici che scuotono i fedeli dal parcheggio dell’inerzia dell’annuncio. Amici che spalancano le chiusure dei perimetri segnati dall’ombra del proprio campanile. Amici che ci liberano dalle lusinghe morali del quotidiano calendario liturgico e ci aprono la liturgia del vivere quotidiano. Amici indiscreti sempre pronti a non esserci laddove tu non vuoi che ci siano. Amici dalle mani di cuore e dal respiro dello spirito. Amici che seminano le tue lacrime nel profondo del loro cuore. Riempiono di presenze serene il tempo amaro di chi è fallito. Offrono sempre la spalla per poggiarci il tuo capo avvilito. Spengono le lacerazioni del pianto con lo sguardo discreto del loro silenzio. Assicurano il nuovo giorno nelle fatiche delle ore notturne. Non ci lasciano soli a salmodiare le nostre paure. Nei momenti dell’oscurità ci confortano con la certezza che anch’essi aspettano la luce. Le sorgenti delle lacrime si disseccano sul loro volto di speranza e insieme svegliamo l’aurora. Insieme nelle notti oscure ci riscaldiamo e illuminiamo il nostro volto della luce calda di Dio. Paolo Turturro
Il Tabernacolo della parola Tu sei, Cristo, il Tabernacolo della Parola. Tu sei l’uomo dell’osanna e nel contempo l’uomo della disperazione. Sto cadendo fuori della superbia. Ho generato tra le rocce il mistero. Nel tormento più rigido tu non hai lasciato morire il mio cuore. Il collasso delle superbie genera il terremoto della pace. Ho bruciato nei cadaveri dei dubbi i giorni non miei. La compassione senza limiti di Maria, tua madre, al sepolcro, ha concepito la risurrezione. Vado alla radice della fede, da cui derivano: fidanzamento, fedeltà, confidenza, fiducia. Io derivo dalla fede del fidanzamento con Dio. Mi sono troppo innamorato del bello, del bene, del vero. Per questo sono giunto alle sue nozze. Quanti affidi sulla nostra terra: mi fido di te, l’affido a distanza, mi affido al tuo buon cuore, ho fiducia che tu mi risolva il mio problema, confido nella tua discrezione. Sono chiamato a credere in ciò che tu dici sulle nostre origini. Siamo nati dal fiato di Dio, tuo Padre. Non siamo dura argilla del tempo. Non siamo impastati di creta che si sgretola come cocci al sole della rabbia. Meditare, contemplare, scrivere è l’azione stessa del tuo creare. Io scrivo per uscire dall’angoscia. Scrivo per me e per l’altro. Tuttavia tu sei il Terzo e non l’altro. Tu elevi tra noi ciò che di basso c’è. Io e l’altro non siamo Dio. Tu armonizzi le relazioni tra di noi, tra due persone impedendoci tra noi l’aggressione, l’aggressione dall’altro, la fusione in un solo volere che comanda, l’assorbimento solo nell’altro. Il finire solo sotto il potere dell’altro. Tu sei il Terzo che sigilli dentro di noi la Trinità. La nostra famiglia è la SS. Trinità. Ecco la fede: l’uomo non è uno, ma trino. Non è un solitario. La sua dimensione, non solo di carne, è la socialità, è l’unità con l’altro. Nella radice del nostro corpo c’è la trilogia della creazione. Il concepimento più alto è quello dello spirito. Nella coscienza concepisco relazioni con Dio e con gli altri. L’uomo, dentro di sé, è capax Dei. Si, sulla terra è anche capace di dire no a Dio. Non sono certo di quello che avverrà lassù. Come posso dinanzi allo stupore delle meraviglie spirituali, io peccatore, non innamorarmi del tuo perdono e del tuo amore eterno per me? I concetti anche teologici non possono circuire Dio nel realizzare in lui solo ciò che noi riusciamo a pensare di lui qui sulla terra, nella nostra limitata mente. Dio non è circoscrivibile nei nostri mattoni di leggi, nei nostri tomi incomprensibili persino a noi stessi. Io parto dal convincimento che la nostra vita ha un senso e che c’è in noi, in ognuno di noi, nell’uomo di ogni fede, di ogni religione, un percorso che porti alla realizzazione di tale senso. Tu, Cristo, sei l’uomo più sovraccarico di tempeste. Tu sei la parola più sovraccarica di tutto il linguaggio umano. Non a caso ti sei sovraccaricato del peccato del mondo. Tu porti a compimento, a pieno sviluppo il senso della vita di ogni uomo. Tu e non noi. In te non c’è l’annichilimento di ogni uomo. L’uomo non perde la sua dignità di essere nell’abitare in te, anzi si sublima la stessa natura umana. In te ognuno di noi trova il compimento pieno dell’essere creato. Ho imparato a riconoscerti non più nei misteri, non più nel sacro, non più nel prodigioso, non più nel miracolistico; piuttosto sto scoprendo la tua presenza nella mia storia, nel mio dolore, nella storia di un togolese ucciso dalle mitragliatrici in diretta tv, dinanzi ai nostri occhi passivi, nella storia della carne umana, unica dimora degna di Dio. Questa fede nella carne di ogni uomo potrebbe sembrare irriverente, scandalosa, irritante e persino incomprensibile agli schemi teologici costruiti da noi stessi. Qui è il rischio di Dio per l’uomo. Scendere nelle passioni, scendere nel peccato, scendere nella rabbia di ogni flagellazione, scendere nell’assurdo perché tu possa essere praticabile in ognuno di noi. La fede è così praticabile perché tu ti sei incarnato in ognuno di noi, perché la nostra carne fosse la dimora della tua salvezza. E’ lo scandalo quotidiano dell’eucaristia nel nostro corpo. Così questa nostra carne nuda è lo scandalo più plausibile perché avvenga in noi lo smascheramento di ogni idolo. E’ lo scandalo di non possedere nessuna certezza se non quella della kenosis di Cristo in noi. In te, Cristo, io non sono ciò che ho fatto di me ma ciò che tu hai fatto di me. E’ terribile l’immagine del Dio visibile: il crocifisso, Colui che non ha volto, Colui che per l’uomo perde il suo volto per manifestare nell’uomo il volto del Dio invisibile. Il minimo che un uomo potrebbe obiettare è l’incredulità. Eppure tu prima di ascendere sulla croce più volte hai manifestato questo tuo volto; nel buon samaritano, nell’adultera, nel lebbroso, nello zoppo, nel cieco nato. Così io credo nella storia di chi hai salvato, nella tua storia che ti sei salvato affidandoti al Padre. Così sto imparando da te che la fede non nasce dal modo in cui un uomo mi parla di Dio ma dal modo in cui tu mi parli delle cose umane amate e salvate dalla tua stessa croce. Paolo Turturro.
Non lasciarci Non ho mai visto un angelo nascondersi né sotto terra né lassù in cielo. Tu, Gesù, sei l’uomo che ci fai vedere le meraviglie della terra e ci parli solo del cielo. Ci hai rivelato che Dio, tuo Padre, è così dentro di noi che ci dimentichiamo persino di esistere nel dubitare della sua stessa presenza in noi. Viviamo gran parte del giorno nella assoluta assenza di noi stessi. Come frenare un terremoto? Centomila persone morte in pochi minuti ad Haiti. Come governare la natura? E’ il dominio che squilibra il creato. Se mi rompi gli occhiali, io perdo i miei occhi. Da tempo i prepotenti hanno perso gli occhi della ragione. Le nubi stamani abbracciano di lacrime i campi di grano, le colline pettinate da ocre colore, i vigneti e gli oliveti. Leggimi stamani una fiaba perché il cuore oggi è senza una favola. Molti spendono la vita affacciati al balcone del potere. Preferiscono vivere fuori dall’anima. Io ho spezzato gli argini di ogni confine. Sono fuori del tutto. Così è l’estasi. Uscire fuori di sé. Arriccio il naso alle puzze del male. Quest’anno i terreni sputano sorgenti d’acqua. Troppi scrosci di fulmini. Non sarà mai però un nuovo diluvio. Tu, Gesù, hai sudato già quello universale delle lacrime di ogni persona. Una lacrima è sempre una sorgente per l’umanità. I poveri bevono lacrime e si saziano di pace. Tu, Gesù, non arrotoli la vita di nessun povero. Ancora oggi sento la tua voce:” Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi”. E’ dura la mente a comprendere il divino. Eppure è fatta per la sapienza. Ci piace la tua moltiplicazione dei pani e dei pesci. Continua ancora oggi per noi, Gesù. Ci piace un cieco che vede. Ci piace vedere uno zoppo che cammina. Ci piace stupirci del sangue che sgorga dall’eucaristia spezzata. Vogliamo vedere niente e tutto questo. Vogliamo vedere i miracoli nella materia che siamo senza sapere che tu sei visibile solo nello spirito. Tu sei riconoscibile solo nell’invisibile che è in noi, visibile solo nell’amore. Non ci soddisfa l’invisibile. Siamo fatti di occhi. Siamo fatti di braccia. Siamo fatti di testa. Non ci soddisfa l’invisibile. Eppure quando prende il corpo ci infiammiamo di cielo. Siamo rigidi, Gesù, dinanzi ai doni della tua Parola. Non ci scuote neppure lo Spirito. Tu sei, l’oggi di Dio in me, in noi. Oggi si compie il tuo perdono. Oggi si compie la tua giustizia. Oggi si compie la tua beatitudine. Oggi si compie in noi la tua divinità. Troppo ho camminato per raggiungerti invano. Troppi giorni si sono spenti senza la tua presenza. Troppo ho vagabondato nel silenzio inquieto della mente. Troppo buio hanno squarciato i miei occhi. E sono giunto al fuoco ma non è mia la fiamma che vi luccica dentro. Tu sei la luce. L’anima si nutre di luce. I santi mi stupiscono di questo splendore. Troppe volte nelle notti oscure delle tenebre ho innalzato l’orcio del mio cuore spento di speranza. E tu, condottiero della luce, puntualmente me l’hai riempito con il tuo olio. Troppi giorni, troppe notti ho sognato nella città del mio dolore. Tutto ciò che mi sono detto in questi lunghi anni del dolore non posso esprimerlo. Troppo pesante è il suono. Troppo ardito è il pensato. Persino il mio capo rabbrividiva dinanzi a certe intuizioni. E’ troppo alta la tua rettitudine e io non so sempre perdonare. Il perdono è l’ala maestra per i voli d’aquila. Io non volo neanche un centimetro. Neanche una papera sono. Frequento il mio gatto che mi insegna a volare come un gabbiano. Non posso esprime il segreto più profondo delle mie lacrime. Non posso dire l’amarezza delle notti. Tu sei, Gesù, la chiarezza di ogni sguardo su sovrumane trasparenze. E ora che mi stai facendo uscire dalla notte molti mi trattengono e mi dicono:” Non uscire, non lasciarci ancora”. Quante volte ho lasciato il silenzio. Come lasciare il silenzio? Come lasciare i giorni del dolore. Come lasciare la luce che mi ha generato al tuo silenzio? “Non lasciarci, qui hai visto volare i tuoi sogni. Non lasciarci, qui hai sposato il pianto e la gioia. Non lasciarci, qui hai celebrato, per prima volta, i giorni dell’eterno. Non puoi andare. Non sei ospite della tua città. Non sei straniero delle tue notti. Sei la stessa ala del pianto. Sei la stessa ala della gioia. Ti sei sposato a noi e non puoi divorziare dalla casa del silenzio. Non lasciare che il nostro cuore manchi del tuo palpito. Non lasciare che i nostri occhi abbiamo fame del tuo viso. Non lasciare che il tuo soffrire manchi al nostro pane. Non lasciarci. Non si separino le onde delle tue lacrime dal nostro mare. Non diventi solo memoria il canto della tua libertà. Non diventino memoria i tuoi giorni passati tra noi. Persino l’ombra dei tuoi momenti tenebrosi è stata per noi luce che ha illuminato la nostra disperazione. Non te ne andare. Abbiamo amato il tuo pianto e rischiamo con il tuo andare di non amare. Ti abbiamo amato senza parole. Non te ne andare, rischiamo di rimanere muti, persino senza dolore. Non te ne andare. Abbiamo amato senza conoscere il distacco. Rischiamo di morire se ci togli il tuo fiato. Tu sei tutta la nostra città. Non puoi svuotarci di senso. Non puoi svuotarci di esistere. Non puoi svuotarci di cadere nel nulla. La città del silenzio si spegne senza le tue notti oscure. Tu non puoi andare incontro a un orizzonte che non finisce mai. La città del silenzio non è la rassegnazione. Non si può lasciare ciò che hai sognato. Non puoi non rispondere alla voce dello spirito che ti ha parlato nei segreti delle notti. Eppure mi viene incontro ancora una volta la tua voce, Gesù:” E’ tempo di andare. Prendi il largo. La tua nave è pronta. Tu la deve salpare. Va’ profeta della città del dolore. Entra nelle vampe che ardono gioia. Va’ profeta della giovinezza. La giovinezza è la primavera del dolore che tu hai sbocciato persino nella notte. Va’ profeta della luce. La città del silenzio ha bisogno di questo estremo tuo dono: l’offerta della tua vita. La croce è il tuo letto. Va’. Non mancare a questo essenziale appuntamento. Va’, perditi nell’orizzonte dello spirito, che non finisce mai.
Paolo Turturro
Fermati un attimo, Gesù Ho coronato di luce i miei giorni. Sono entrato nel grembo di Dio e mi ha partorito le sue beatitudini. Ho letto negli occhi della gente le pagine del tuo vangelo. Il dolore è il fiato di Dio a cui nessuno può resistere. Da dieci anni mi hai effuso il dono delle lacrime, amare agli occhi della gente ma in te sono rugiada che fa germogliare grazia nella mia carne. Attende Domine. Non fuggire. Non andare così in fretta. I tuoi passi sono fulmini. Ti vedo sempre correre, sempre più in fretta. Attende Domine et miserere, quia peccavimus tibi. Oculos nostros sublevamus flentes. Attende Domine. Come lodarti nella fretta. Come riconoscerti nel passare veloce dinanzi alle nostre porte. I nostri occhi sono miopi dinanzi alla tua grazia. Attende Domine. Non andare oltre il tempo. Noi non capiamo niente. Non andare oltre i nostri pensieri, noi nell’infinito ci smarriamo. Non andare oltre il nostro sguardo. Vediamo limitati e appena solo vicino. Ti posso confidare i drammi della gente. Ti posso confidare i dubbi su di te, sulla tua croce, sulla tua risurrezione? Attende Domine. Fermati un attimo. Parliamone. La gente non sopporta che Tu, Dio, possa essere un condannato a morte. Neanche agli innocenti io riesco a spiegare che tu hai accettato la morte per distruggere la morte. Qui la morte c’è ancora e impera con cattiveria. Qui le condanne ci sono ancora e schiacciano solo gli innocenti. E tu mi assicuri che la morte è la più grande libertà. Libertà dal tempo. Libertà dagli intrighi. Libertà dal peccato. Libertà dalla carne. Libertà dall’odio. Libertà dalle guerre. Libertà dal nulla. Libertà dal non sapere. La morte è la chiave per aprire il cielo. La morte è il parto per nascere nell’eterno tuo divino. Ma la gente non vuole sapere del cielo. Tu ci hai incantato delle meraviglie della terra e poi ci parli solo del cielo. Neanche i sofferenti comprendono che la tua croce è il nostro letto d’amore con te. Lassù sulla croce abita solo il silenzio e nessuno è capace di spiegare le scelte di Dio. Eppure ci affermi solennemente, da lassù, che tutto hai compiuto: la salvezza, la perfezione, la divinità, la redenzione, la predestinazione, l’eternità nella carne di ogni vivente. Tutto hai compiuto e che lassù hai solo il compito di consegnare tutto a tuo Padre, nella consegna del tuo stresso spirito. Nelle tue mani, Padre, consegno il mio spirito. Tuo e nostro spirito. Consegna mirabile. Consegna sicura. Consegna per tutti. Nessuno escluso. Consegna perfetta. Consegna che metti persino in dubbio le clause della tua stessa chiesa. Fermati, ascolta, Signore. La caverna del male ci inabissa nella disperazione. Anche la madre più semplice si perde nel fare il bene. No, non conviene essere buoni. Chi fa del bene, riceve del male. Eppure io faccio più fatica a fare del male ma la gente non crede più alla solidarietà verso l’altro. Chi fa del bene, riceve sberle in faccia. Così dice la gente. E tu che dici? Come la metti con questa nostra situazione? Non darmi, ti prego, la solita risposta che in cielo troveremo la ricompensa. Nella notte più oscura tu sei sempre l’autore della luce. Illumina oggi, nei giorni del nostro tempo, una motivazione valida. Oggi e non domani. La gente crede solo al tempo. Del resto tu ci hai creato le ore, i giorni solo per poterti qui incontrare. Il bene è la saggezza del dormire in pace, di dormire tranquillo nelle vostre notti fatte di tempo. Forse, Signore, ci siamo convinti che vivere onesti fa bene al cuore. Tuttavia molti gridano nella rabbia che i buoni li prendi subito e che i malvagi restano più a lungo a fare del male. Che tremenda storia è questa anche per te che hai fatto bene tutte le cose. Forse ancora nel silenzio mi darai risposta al dualismo del bene e del male. Io non so capire niente. Il capire il divino è assurdo per noi, qui sulla terra. Io sono certo però che tu sei il sommo bene e che qui sulla terra ti sei fatto vincere dal male per sconfiggere qui tra noi il sommo male. Che terribile il male. Come può sussistere dinanzi al tuo volto, Signore? L’angoscia però che assilla i nostri giovani è il nulla. L’abisso del nulla affascina anche i più sapienti della parola e dell’arte. Nel vortice del nulla è dire nulla smarrirsi. E tu vedi uomini smarriti nella filosofia, nell’ingegno delle stesse intuizioni. Smarriti artisti nelle loro opere evanescenti. Tante vie per incontrarti e il nulla ci dà una risposta sicura che tutto viene dal fato e che tutto è una pura illusione della mente. La mente non può che pensare il nulla. Il niente è la voce che ci quieta. Il niente è la situazione che annienta ogni nostro dramma. E tu nella luce del nuovo giorno mi alzi in piedi. E mi addolcisci, vedi se una molecola di un solo filo d’erba, così ricamata, così splendida nella sua architettura, possa scendere dal nulla. Vedi se l’arcobaleno dopo le bufere così luminoso di colori possa splendere dal niente. E vedi dentro di te se lo spirito che ti innalza su voli d’aquila possa planare nell’abisso del nulla. Il nulla altro non è che l’ansia della ricerca dell’eterno, l’ansia della ricerca dell’assoluto fatto da meraviglie continue da stupirsi. Il nulla è l’assoluta cieca via che porta a me. La mente dei vostri cuori è fatta per amarmi e incontrarmi. L’amore è l’unica via che non può essere accecata dal nulla. Solo l’amore non si smarrisce nel cercarmi anche sulla croce più lacerante. A tutti do la forza di salire sulla sapienza della croce. Tuttavia, Signore, il calvario, qui sulla terra, è il capolavoro del fallimento. Non ci piace, Signore, un Dio fallito. Non ci piace, Signore, che anche tu debba morire come noi. La risposta non è la croce ma ciò che attraverso essa si scopre. Il tempo non può vedere ciò che la croce spira nel suo letto d’amore. Guarda in alto. Alza gli occhi al silenzio e non parlare dinanzi all’eterno, anche il fiato della terra annebbia il divino che spira dalla croce di ogni uomo. Non so dire nulla dinanzi alla tua sapienza di scegliere qui sulla terra solo il tormento e la bufera del sangue. Io confido in te, Gesù. Per quanto io mi inabissi nell’oceano del sapere io resto sempre senza sapere. Resto senza nulla, anzi non esisto, se non ci sei tu. Fermati accanto a me. Sai facciamo così, se vuoi vieni ad abitare per sempre in me, o meglio spezzo l’eucaristia ed entro per sempre dentro di te. E’ questo pane che mi apre la sapienza nella carne povera di idrogeno e di ossigeno divino. Finalmente un buon appetito. Non aprire tutto il cielo però, Signore, perché altrimenti io mi smarrisco ancora. Un po’ alla volta è la quiete del cuore. Oltre non sa andare. oltre non sa amare.
Paolo Turturro
Confidenze A MARIA Custodiscimi, o Maria, dentro le tue mani oranti. Stringimi con la tenerezza del tuo amore materno. Dio è il mio pane. Mi nutro di eucaristia. La mia mente è un delfino. Riesce sempre a superare gli ostacoli. Custodiscimi dentro le tue mani oranti. A volte sono lento nella preghiera come una tartaruga. Le tue mani oranti sono uno scrigno, sono una fortezza sicura per me. Proteggimi nelle bufere delle tenebre. Non ho rughe da nascondere dentro la notte. Ho tanta voglia di sentirti. Udire la tua voce materna. Ti saluto, o Maria, il mio cuore è un mare agitato. Quale lode ti potrei innalzare se non l’inno di un figlio distrutto dal pianto? Nei miei passi quanti timori. Sul mio volto quanto smarrimento. La morte, la croce di Cristo, è il dono della libertà che desidero. Frequento la solitudine. Abito la solitudine. Tuttavia, in te, non vivo il dolore nella tristezza. Lo spazio della speranza va oltre il cervello. Addio dolore, non ricordo niente di te, sono un uomo risorto. Sono uscito da tempo alla luce. Non appartengo a una bandiera. L’arcobaleno è la discesa degli angeli sulla terra. Ecco scendono. Luminoso e chiaro è l’arcobaleno della mente. Già scompare. Sono andati altrove gli angeli. Ecco perché l’arcobaleno è scomparso. Sono andati altrove a sostenere chi è più debole di me. Sono andati altrove a consolare chi è più depresso di me. Sono andati altrove a sorreggere gli afflitti cadenti nella più oscura disperazione. Sono andati via. Così presto siete andati via. Così subito, senza consultare il cuore. Così immediato tanto da farmi credere che è stato una illusione l’arcobaleno. Frequento l’incerto. Tutto qui è possibile. Frequento l’insicuro. Tutto qui accade. Non è l’arcobaleno, lo spirito. Non è la luce del giorno, lo spirito. La mia mente cerca il tuo volto, Signore. La mia mente è come un feto concepito nel grembo del divino. Che fatica concepire la mente. Che fatica concepire lo spirito. Amici, non vi stupite se vivete accanto a un uomo che siete voi stessi. Siamo così incerti da non accorgerci di vivere. Gesù Cristo ci assicura:” Sono io, la vostra anima. Sono la certezza che non potete conoscere sulla terra. Sono il volto che il dolore vi svelerà”. Tuo figlio, Maria, è un uomo che vuole risolvere il mondo, disarmato persino nella mente. E’ l’uomo che non sa peccare. E’ l’ uomo che vive con mille donne amandole e rispettandole nell’innocenza. E’ l’uomo che disceso dall’alto porta tutti noi in cielo. E’ l’uomo che conosce il divino. E’ l’uomo che cammina con ognuno di noi senza che nessuno si accorga che sia Dio con noi. Non è un bacio che l’ha tradito! Mastica sogni che diventono realtà. Non è un bacio che l’ha tradito. Ti inietta certezze che nessun raggio di sapere può infliggere. Mille labbra di dubbi l’hanno tradito. Mille labbra di inganni l’hanno crocifisso. Mille voci di dolori l’hanno abbandonato. Mille mani l’hanno rubato. Mille preghiere l’hanno insultato. Mille volti gli hanno voltato la faccia. Mille menti gli hanno voltato le pagine del suo vangelo. La divinità è stata annientata da un bacio lungo miriadi secoli. Ora, Maria, ti scrivo pagine con sguardi pieni di amore, con sguardi pieni di nuova confidenza. Posso io, ultimo nei secoli, presentarlo con sovrumane trasparenze vivente qui nella gente? Santo tra la gente? Non ho mai calpestato il cielo. Di te, o Maria, ho la certezza che queste pagine siano scritte con le tue mani. Di te, o Cristo, sa tutto Maria, come qualsiasi donna che ama suo marito. Tu sei, Maria, l’amore che mi renderà puro. Ho percorso tante strade dall’alto in basso e dal basso in alto. Quando ti raggiungerò? Quando ti abbraccerò? Così lontano è ancora il cuore. Così lacerato è ancora la mente. Non vorrei farmi vedere da te così amareggiato e così distrutto. Eppure dentro le tue mani oranti mi sembra di ricominciare continuamente daccapo. In te mi riscaldo dal freddo della mia miseria. Vango la terra in cerca di pesci. Vango la terra in cerca di angeli. Come può la terra germogliare angeli? Come può la terra germinare l’infinito? Come può il fango splendere di luce? Nessuno abita un angelo. Nella notte dei tempi sono cadute all’uomo le ali. Gli è rimasta soltanto quella della speranza. Fa fatica a volare con un’ala soltanto. Qualcuno dal cielo però è sempre pronto a donargli un’altra di riserva. L’uomo senza sapere mostra a tutti la debolezza di un uomo che ha paura di essere uomo. Io ho scommesso di sviscerarmi tutto prima che sopraggiunga la fine del tempo. Quanto tempo è finito nella sabbia non solo della clessidra. Quanti miriadi di persone tu, Signore, hai visto morire. Sei formidabile nel non scoraggiarti. Stamattina ho visto scendere dal cielo una piuma bianca. Sembrava non vera. Sembrava non di tempo. Sembrava oltre le piume della terra. Che piuma poteva essere, o Maria? E può una piuma sollevare il mondo in catene di guerre? Che piuma poteva essere, o Maria? Ti confido che ho avuto la certezza che fosse una tua lacrima discesa a consolare il mondo. E così è avvenuto. Io tuttavia non sono certo. So soltanto che molti stamani sono giunti in chiesa pellegrini a pregare. Che sia un nuovo giorno? Io tuttavia non esco da dentro le tue mani oranti, o Maria. Paolo Turturro
Un raggio per riflettere Sono tornato all’origine, allo spirito della mente. Il cuore è sempre più su. In Calabria le olive sono minute e nere. Strano frutto da alberi così giganti. Scrivo da sei ore e lo scrigno del pensare è sempre più bollente. Ho paura di fondere il motore della matematica. Non faccio calcoli per vincere. Non calcolo il bene. Non calcolo i ragionamenti. Manca poco tempo alla fine dell’era dei computer. Nessuno resterà a piedi. E’ tempo in cui l’uomo giusto leggerà nel cuore dell’altro. Scruterà l’universo e vedrà dentro di se tutto ciò che avviene nel mondo, senza televisioni o radio da sentire. Ecco domani leggeremo il cielo, leggeremo l’universo, leggeremo le stelle, anche se morte da gran tempo, ma amici miei, nessuno sarà capace di leggere lo spirito degli altri. La coscienza è invalicabile. E’ individuale. Va oltre il tempo delle energie e delle onde magnetiche. L’uomo è uno e trino, a immagine e somiglianza di Dio. Dio ha sigillato nell’uomo l’ardire di amarlo. Immagine del corpo. Cristo Gesù ha donato all’umanità il suo corpo. Dio Padre ha donato il meglio di sé a ogni uomo: lo spirito. Noi luce da luce. Alito da alito. Respiro da respiro. Noi dono dello Spirito santo. L’uomo, in Dio, uno e trino. Non solo il mio corpo è segnato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ma soprattutto il mio spirito. Una vecchietta dorme ignara di questo mio ribollire. Allora smetto. Non offendo gli anziani. Non serve infiammare libri se non rallegrano il cuore. Così per un po’ ho fermato la mente. Un po’ per riposo e un po’ per prudenza. Scendo dal piedistallo di cartone e abbraccio chi soffre come me. Ho seminato le mie lacrime nel campo della pazienza. Fiorirà, fiorirà il germoglio della felicità. Sboccerà all’aurora della mia morte. Lo stato ha troppi buchi neri di memoria. E per non dimenticare li getta nelle giornate della memoria. E’ sempre così: i padri uccidono i profeti e i loro figli ne innalzano monumenti. Solo poche donne sono contente di aver buttato il proprio fidanzato. Tutte piangono tuttavia per il primo paio di scarpette costrette a rilegarle in soffitto. L’umidità della nebbia fa meno male dell’indifferenza. Non sono indifferente dinanzi al sole. Non sono indifferente dinanzi al soffrire di un tumore. Non sono indifferente dinanzi alle verità calpestate. L’indifferenza del saluto è la spada tagliente in mano all’umanità che diventa sempre più sola, sempre più egoista, sempre più sterile. La società è fatta di Buon Giorni freddi, arrabbiati, rubati ora al cuore, ora alla stessa moglie, ora a se stessi. La prigione della notte oscura del Venerdì santo è stato il tempo più buio di Dio. Prego alla sua aurora e tutti mi assicurano che presto mi innamorerò della sua risurrezione. Non so dire del suo corpo glorioso. Ora so dire che egli mi ama. Il suo amore è risurrezione. Il primo figlio nasce dal dolore. Il primo figlio è l’amore. Non è sterile nel far nascere in me la luce della mitezza. Non vado in crisi nel dolore. Molti invece cadono in depressione per collassi bancari e per rovine finanziarie. Sai quanto vale il cristiano? Quanto vale il risorto. Quanto vale in lui lo spirito del suo corpo glorioso. Finisce il tempo dell’odio. Non c’è più tempo per rancori. Finisce il tempo delle tenebre. C’è l’eternità della luce. C’è l’eternità della gioia e della letizia divina. Anche se i peccati dell’uomo fossero più numerosi della sabbia di tutti gli oceani, la misericordia della sua risurrezione è infinitamente più grande. Mi tuffo volentieri in questo oceano di Dio. Io sono il niente che proferisce il tutto e il cuore è sempre più su. C’è chi consola, c’è chi semina letizia, c’è chi ara la terra e il cuore è sempre più su. C’è chi prega, c’è chi abita il silenzio, c’è chi parla eterno e il cuore è sempre più su. Le burrasche delle onde delle piogge di questo tempo ingoiano il respiro di tanta gente. Colline inghiottite da alluvioni. L’uomo non sempre argina il male. Solo quando l’uomo non dominerà più, la natura si quieterà. Il cuore è una finestra sul mare. Mi entrano dentro aspirazioni e ansie della gente. Come agita il mare! Come agita la mente! Non basta un’onda anomala per franare una città. Le fondamenta dello spirito sono ancora tutte da scoprire. Tentate inutilmente l’assalto alla pace. Fumate barili di petrolio senza rendervi conto che intossicate la vostra stessa angoscia. Vi assicuro che il denaro ha la testa d’oro, le braccia di ferro, il petto di acciaio, le gambe di ghisa e i piedi di argilla. La creta crolla tutto. Crolla tutti i vostri affari. Crolla banche e progetti avari di amore. Io ho scommesso solo sulla luce e ora mi ha prodotto alberi di diamanti di spirito, con ali di virtù. La città delle virtù è la coscienza. Splende sempre anche nel dolore. Vi saluto. Torno a casa, nella mia città del silenzio. Per ora mi esaurisco presto e ho bisogno di ricaricarmi. Voi sapete del resto che il silenzio è la miglior energia dello spirito.
Paolo Turturro
Le nozze di Cana Tutto è pronto. Sposo Dio nel cuore. Dio ama come uno sposo. Per te prova la stessa gioia dello sposo per la sposa. Il tabernacolo è il mio letto d’amore. Cana è un piccolo villaggio. Poca strada da Nazareth. E’ il paese delle danze. Si corona sempre una sposa. Le case sono vestite a festa. Gli archi della sinagoga fioriscono rose e alloro. Non si conosce il tuo nome, o sposa di Cana. Né il tuo, o sposo del vino migliore. Eppure siete la coppia più conosciuta nel mondo. Tutti sanno che Maria è la vostra madrina. E’ il primo matrimonio in cui Gesù è presente. E’ l’ospite d’onore. Ci sono con lui dodici suoi amici, in più nella sala da pranzo. Vi siete sposati nel tempo delle agavi. Lunghi steli profumati sulle rocce del Giordano. Quanti doni preparati per il vostro banchetto sponsale, però non vi aspettavate la sorpresa di Dio. Ecco iniziano i primi passi della sposa. Inizia il salmo. E tu, o sposa, non vuoi che ti descriva. Sei tanto pudica che umile e modesta. Il tuo volto è roseo e tenero come un melograno. Va bene, ti lascio nella tua bellezza. Vado dallo sposo. Tutti gli sposi nel giorno del matrimonio fremono dinanzi al sacrato della chiesa. E’ così per tutti. E’ il capriolo che si nasconde nelle fenditure delle rocce. Le vampe dell’amore sono più incandescenti di un forno. Neppure le acque di un oceano le possono spegnere. Stai lì, o sposo, dinanzi alla sinagoga. Le fanciulle sono vestite di bianco, avvolte di seta. I sorrisi sono stelle. Non ti stupire se rassomigli allo Sposo che viene nella notte. Non ti stupire se il tuo vegliare nel silenzio l’attesa è simile allo Sposo del cielo. Lo sposo divino ha dimora nel silenzio. Inizia il cantico dei cantici. “Vieni, mia tutta bella…” La sposa esce. Esce dal talamo materno. Esce dalla casa del padre per entrare nel talamo del divino amore. Ecco il Siracide. L’amore vuoto di sapienza è totalmente sterile. Ha messo dimora nella tua casa. Ha posto la tenda nel campo fertile dell’amore. Tu sai che porre una tenda è nascere. L’amore alimenta il magma della terra. E’ l’amore che fa girare il mondo. Non si può capire l’amore. Le fiamme salgono oltre il cielo. Le porte si aprono al giusto e gli stipiti coronano lo sposo. Tu, o sposa, senza nome, altra non sei che la sposa del cielo, la chiesa. Il sentiero di ogni sposa ti porta nelle mani dello sposo. Inizia la benedizione. Benedite cieli e terra, il Signore. Benedite sorgenti e acque, il Signore. Benedite stelle e luna, il Signore. Benedite abbracci e baci, il Signore. Benedite angeli e cherubini, il Signore. Benedite mani e sogni, il Signore. Il canto procede e il fuoco d’amore vi incendia. La benedizione è divina. L’ascolto è profondo. Benedetto sia il vostro amore. Benedetto sia il vostro cuore, tenda dell’ara di Dio. Tenda della nuova alleanza. Benedetti i vostri occhi che innalzano ogni amore al cielo. Il vostro amore è trinitario. Vi attendono gli invitati nella sala di ricevimento. L’atmosfera è solenne. Anche gli amici di Gesù si emozionano. La festa corre veloce. Ogni festa svanisce presto. C’è un atrio pieno di giare nel giardino. Dentro la sala tutti bevono. Bevono molto. Bevono alla gioia. Brindano all’amore. E le giare si svuotano. C’è sempre qualcuno attento che ci evita un disagio, una brutta figura. Nell’atrio del giardino c’è Maria. E’ prudente. Segue a puntino tutto il ricevimento. Il disagio ora è la mancanza del vino. Del resto dodici amici in più! Maria corre da Gesù. Una donna non può dire a un uomo:”Manca il vino”. Per il mondo orientale significa che l’uomo deve donare tutto il suo sangue per la sposa. Tutto il proprio sangue. Tutta la sua vita. Versare tutto nella coppa del sacrificio d’amore. E Gesù:” Non posso. Ho appena iniziato e già vuoi che versi tutto il mio sangue per la sposa. Non posso donna. Non è giunta la mia ora. Non sono io lo sposo per ora”. E Maria ai servi: “ Fate tutto ciò che vi dirà”. Le giare sono vuote. Sono pesanti da trasportare all’oste vicino. E Gesù:” Riempitele d’acqua fino all’orlo”. E i servi:”D’acqua?”. Senza sapere che l’acqua è la sorgente di ogni vita e di ogni amore. Non a caso sulla sua croce, alla fine del suo matrimonio d’amore con la chiesa, con l’umanità, verserà sangue e acqua. E i servi le riempiono fino all’orlo. La sorpresa è imprevedibile. E Gesù:” Ora attingete l’acqua cambiata in vino e portatela a tavola. E i servi con gioia esultante: “E’ vino! E’ vino!” Anche il maestro di cerimonie si meraviglia. “E’ vino!” Che vino!”. E rimprovera lo sposo. Non è possibile alla fine le cose migliori. E tu maestro di tavola hai chiesto allo sposo, senza nome, la spiegazione. Hai confuso lo sposo. La meraviglia andava manifestata a Cristo, Sposo della chiesa, che in una maniera silenziosa e meravigliosa dà inizio al suo matrimonio: il suo cammino d’annuncio, non solo di miracoli. E Maria sorride. Maria è felice. E’ iniziato la salvezza del suo popolo. E’ l’inizio dell’avventura dell’amore. Un amore divino sulla terra. E’ l’amore del suo figlio. Che gioia per una madre vedere un figlio sposarsi. E Gesù:” Non potete versare vino nuovo in otri vecchi. Inizia l’amore, non può essere contenuto in libri vecchi, in papiri di blatte. Inizia l’amore. I vecchi riti scoppiano, svaniscono. Gli otri non possono contenere le nuove profezie. E’ insufficiente un tempio, una sinagoga, una chiesa di tempo a contenere l’amore divino. Noi siamo profezie mute e morte. L’amore ha bisogno di voci nuove, di canti arditi, di coraggio divino. L’amore abbisogna di Cristo, nuovo sposo dell’umanità.
Paolo Turturro
L’Immacolata: festa della gioia. In questa festa vi parlerò della gioia, della gioia della santità, della gioia dell’anima. Gesù ci ha detto:” Vi lascio la pace; vi do la mia pace, non quella del mondo” (Gio. 14,27). E ancora:” Vi do la mia gioia. Voglio che la mia gioia dimori in voi e che la vostra gioia sia piena” (Gio. 15,11). Avverto la gioia di Cristo continuamente nella giornata, nell’innocenza della gente, nelle lacrime delle mamme che cercano la crescita sana dei loro figli. Mi inebria il sapere che Cristo vuole la pienezza della sua gioia in me. E’ un incanto pensare alla gioia che Cristo ci vuole donare. E preme lo Spirito santo, perché sia effusa nelle nostre persone. Pervada tutte le nostre vene, pervada tutti i nostri occhi. Pervada tutto il nostro sorriso. La gioia è il lievito che addolcisce anche un bruto. Se la Parola del Signore riesce, Dio sarà ridiventato Dio, Dio sarà ridiventato Padre, e noi saremo ridiventati figli. Anche nel dolore non ricordo più che la bontà, la tenerezza, la gioia. Nell’emarginazione mi pervada una serenità di quiete e di abbandono alla sua volontà. Sento la pienezza della sua forza, della sua letizia, proprio quando sono estremamente debole. Nella mia debolezza mi affido alla sua gioia.
Tu, vergine della gioia, hai lacrimato più di ogni madre. Tu, vergine della letizia, hai sostenuto lo sconforto lacerante di Cristo nella predicazione sorda dei farisei.
Tu, vergine del giorno che non finisce mai, hai cantato addolorata i passi perduti dello smarrimento di tuo figlio. Tu, vergine del creato, profuma il cuore dell’umanità con le virtù dell’universo.
Tu, vergine dell’attesa, hai indicato ad Elisabetta Cristo presente nel mondo. Tu, vergine dell’abbraccio, hai stretto al tuo seno il tuo sposo Giuseppe nel mistero dell’incomprensione.
Tu, vergine della chiesa, rendi le nostre comunità docili all’ascolto della Parola. Tu, vergine del mistero, hai svelato lo stupore dell’impossibile Dio incarnato in un seno.
Tu, vergine della sorpresa, meravigliaci di amore del tuo figlio. Parlaci delle sue notti insonni. Parlaci del suo sorriso ai piccoli e ai poveri. Parlaci dei suoi sogni, non solo del cielo. Parlaci del suo volto incantato di Padre.
Parlaci del suo camminare di annuncio nelle sterpaglie del mondo e nel gretto animo del tempio degli scribi e dei saducei.
Parlaci della speranza, perchè qui nei nostri giorni, sta morendo e da tempo in certe case è seppellita di avvilimento. Riaprici il cuore a sperare e ad avere fiducia in Dio.
Parlaci del suo abbandono nel volere dello Spirito. Tu, vergine del pane, consacra nelle nostre mani il lavoro che è fatica e sudore, non dimenticarti a sera di consacrarci tuo figlio, pane di vita eterna.
Tu, vergine del cammino, porta ancora oggi il lieto messaggio che Dio abita nelle bidonville del mondo. Tu, vergine della luce che non si spegna mai, accendi e infiammaci di verità e di discernimento in questa nostra società strutturata di peccato.
Tu, vergine della Parola, scrivi nei cuori della gente la bellezza del vero e del bene. Tu, vergine del canto del silenzio, aprici i misteri arcani e silenziosi della Trinità.
Tu, vergine della contemplazione, donaci sguardi inebriati di mistero, perché ognuno di noi possa leggere nei tuoi occhi la Parola che Dio vuole donarci. Tu, vergine della famiglia, spezza il tuo affetto nelle nostre case turbate e avvilite di smarrimento.
Tu, vergine delle tempeste, sappiamo benissimo che senza gli scogli le onde non arriverebbero mai tanto in alto. Tu, vergine del perdono, insegnaci che l’odio non rende soltanto ciechi e sordi, ma anche incredibilmente sciocchi. Tu, vergine dell’accettazione di se stessi, convincici che ciascuno di noi riesce insopportabile a qualcun altro, ma questo non è grave.
Il brutto è quando riusciamo insopportabili a noi stessi. Tu, vergine della preghiera, educaci alla meditazione e all’orazione, perché il più forte sarà sempre colui che si metterà a mani giunte.
Tu, vergine della letizia, sorridi sempre ai nostri occhi, perché spesso perdoniamo quelli che ci annoiano, ma non riusciamo a perdonare quelli che noi annoiamo.
Tu, vergine della comunicazione, insegnaci la franchezza che non consiste soltanto, che è già tanto, nel dire tutto ciò che si pensa, ma nel pensare a tutto ciò che si dice. Tu, vergine dello spazio sempre aperto, insegnaci l’intelligenza del nostro limite, per non giungere all’assurdo limite della stupidità umana.
Tu, vergine della tenerezza, rendici gradevoli nella parola e nell’accoglienza, perchè nessuno di noi ci odi e né tanto meno odiamo noi stessi, a causa della nostra grettezza morale e culturale.
Tu, vergine della saggezza, insegnaci ad essere uomini, perché nel desiderare di essere angeli, non si sveli in noi la bruttezza dell’essere bestia. Tu, vergine del nostro tempo, insegnaci la vecchiaia che svela la ricchezza dei depositi delle nostre anime.
Tu, vergine della strada, indicaci non solo la via al Padre, ma guidaci, camminando accanto ai nostri passi, alla nostra vera casa, che è l’eternità.
Tu, vergine dell’eternità, accoglici, non solo nella notte delle lunghe attese, quante nei cuori avviliti della gente, con la lampada ardente di santità e di nostalgia del cielo, nelle nozze del tuo figlio, sposo della chiesa e dell’umanità
Luce di Betlemme a Giampilieri Per la parrocchia di Giampilieri, la Festa di Santa Lucia è da sempre vissuta con un grande spirito di devozione: vi è con questa Santa un profondo legame di fede, di preghiera e condivisione. Questa valle è impregnata di preghiera e in questo borgo, per la fede della gente, sono nati diversi luoghi di preghiera e la piccola chiesa di Santa Lucia è uno di questi. Negli ultimi dieci anni nella contrada Santa Lucia in Giampilieri Superiore, si sono vissute esperienze spirituali molto intense. Il legame subito nato con i missionari ci ha aperto alla Chiesa universale; l’approfondimento della Parola con la Lectio Divina spezzata a noi e alle Suore del Sacro Cuore all’eremo di Altolia, per quasi due anni, da don Paolo Turturro ci ha arricchito interiormente; il legame con le Sorelle Clarisse di Rometta e di Messina ci ha condotto verso una dimensione spirituale tutta da scoprire e approfondire. Alle Clarisse abbiamo affidato il nostro cammino di fede, le nostre le famiglie, i nostri figli. Loro ci hanno chiesto di pregare per le vocazioni claustrali, facendo nascere in noi il bisogno di condividere, non con una semplice e forse scontata elemosina, ma partecipando attivamente al cammino delle persone che il Signore ci affidava. Da tutto questo è nata l’esigenza di “adottare”, nella preghiera tutti i missionari e i sacerdoti che celebravano nella nostra piccola chiesetta. Così ci siamo ritrovati tutti i giorni a dedicare loro un momento di preghiera. Naturalmente le preghiere venivano accompagnate dal sostegno a progetti concreti che durante tutto l’anno ci venivano proposti. In particolare durante la festa di Santa Lucia, con lavori fatti a mano dalle mamme, dai giovani e da tante persone di buona volontà, vengono organizzate mostre, lotterie, pesche di beneficenza e quanto altro la fantasia ci suggerisce; il ricavato, insieme alle offerte ricevute, viene consegnato periodicamente nelle mani dei missionari in partenza. Quest’anno eravamo tutti molto tristi, non c’era voglia di organizzare nulla. Gli eventi terribili del primo ottobre, la morte di nostri amici e parenti, il disagio e la disperazione di tanti, avevano portato sfiducia e smarrimento. Il paese spoglio senza gente, persino la Chiesa parrocchiale chiusa. Ci chiedevamo cosa fare. Abbiamo chiesto, nella preghiera, un segno che potesse dare speranza a noi e a tutto il popolo di Giampilieri. E questo, dopo qualche giorno, lo abbiamo visto nella proposta fatta dagli Scout di Messina di portare la Luce di Betlemme proprio il giorno di Santa Lucia durante la Celebrazione Eucaristica delle ore 16.30. All’offertorio, una lanterna accesa veniva posta ai piedi dell’altare. Il Celebrante, padre Antonio Patanè missionario Comboniano, sottolineava la necessità di riporre in Dio tutte le nostre speranze perché solo Lui può curare, guarire, consolare. Mi viene spontaneo pensare alla Luce della Pace che viene da un luogo dove non c’è Pace ma dove la speranza non si è mai spenta, un luogo da cui una piccola luce possa illuminare il cuore di tutta la gente del mondo. Questo è avvenuto a Giampilieri nella piccola chiesa di Santa Lucia: la gente ha lasciato il luogo con un piccolo lume acceso, lo ha portato a casa, ha illuminato le poche case ancora abitate ma noi speriamo che presto, aiutati dalla Divina Provvidenza, possa illuminare ogni abitazione. Grazie a tutti coloro che hanno vissuto con fede questo evento di speranza, al nostro Parroco, Padre Giovanni Scimone, ai sacerdoti che quel giorno hanno celebrato, a Santa Lucia che ancora una volta ci invita ad aprire gli occhi alla Luce, alla vera Luce che è Gesù e un grazie particolare a Carmelo Casano, Responsabile Scout, che materialmente ha portato la luce di Betlemme.
Rosario Alaimo Piccola Comunità di Santa Lucia - Messina
Sotto l’albero della luce Non sono un peso. Una novità nel presente. Che ci posso fare se non passo mai. Non sono comprato da nessuna collezione privata. Sono vagante, finché acquistato mi chiuderanno dentro una vetrina di cristallo. I potenti uccidono la ricchezza, perché la posseggono dentro il loro egoismo. Tanto infangano il loro inganno che nel tempo è creduto autentico. Sono la botteguccia degli antichi sapori. Ho conosciuto una donna che non sapeva più amare. Aveva incontrato troppo angeli e altrettanti demoni. Tanto che per lei ora fare del bene è un avvilimento. Ho aperto tutto ciò che è proibito leggere. So che Dio non proibisce la sapienza. L’albero della conoscenza non è proibito ad Adamo. Non confondiamo pero chi è la vita e chi l’ha ricevuta. Noi non siamo la Vita. Abbiamo ricevuto la vita. Non faccio altro che coccolarmela. Dopo l’ultimo respiro muore la morte. E’ l’ultimo suo sigillo. Il settimo sigillo è la vita eterna. Nessuno si può nascondere nelle valli dell’eterno. Sono nelle mani di Dio. Solo la grazia del perdono può donare il sorriso al volto disgraziato. Il crimine è l’inferno. Passeggio sotto l’albero della luce. Mi investe di irradiazione di sapienza. Voi conoscete l’albero della luce di Babbo Natale. Altro è questo. L’anima è la radice di quest’albero. Neanche la foresta del peccato può cancellare il suo bagliore. Se conoscete l’albero della luce immediatamente siete sotto l’albero della conoscenza. E non vi sarebbe difficile distinguere il bene dal male. Dentro è tutto chiaro, fuori confusione bestiale. Dio ha denunciato le tenebre che si mascherano di falso splendore. Non pensiate che sia stato facile per lui. Il fascino delle tenebre è così fulgido da confondere anche il più onesto, anche i cherubini e i serafini. Vi do un’indicazione: assaggiate l’aria del successo, se è acida, fuggite subito immediatamente. Potreste divenire carne di catrame, tanto da essere fossili senza respiro. C’è sempre un verme che ti roda dentro. Il mio è sapere se procedo e approdo sulla panchina della verità. E’ assurdo per me comprendere il peccato e la ribellione dell’invisibile. Come è possibile che un cherubino dinanzi al volto santo di Dio possa ribellarsi alla sua bellezza? Chi sei tu, lucifero che ti ribelli alla sapienza di Dio e alla sua vita? E può il tuo errore invisibile influire su noi e sull’umanità? Quanto cammino buio nella vita. Si esce sempre da sotto l’albero della luce. Da sotto l’albero della coscienza. Il viaggio più lungo è il percorso di non sapere. Come sapere l’infinito? Come sapere la sapienza? Come sapere l’amore di Dio? Quanta amarezza il non sapere. L’amicizia per i più è solo il compromesso di non offenderti anche quando sbagli. I saggi hanno vomitato sempre la falsità. Sto così bene senza i rigurgiti del male. Mi ungo di canto gregoriano. La chiesa profuma sempre di sacro. Ora capite perché la pagine di Dio profumano di verità. Nessuno scappa da se stesso, anche se il tormento ti blocca l’anima. La Parola dell’albero della luce ha il compito di liberarci da ogni inferno. La letizia di essere liberi dal peccato è incomparabile. Vado controcorrente. L’odio mi annoia. Il peccato tuttavia non può spegnere dentro di noi l’albero della luce. Quel Dio che ha ideato il roveto ardente, è formidabile. L’albero della luce sfida le bufere con il volto instancabile di fede. Non è di pietra. Il silenzio è la prima pagina dell’albero della luce. Senza sapere che il suo cuore ti germoglia, sotto il gelo più invernale e più tenebroso, il giorno della tua stessa esistenza. Vi dico di più: il canto dell’albero della luce è l’annuncio della stagione di ogni pensiero. La Parola, il Logos è la chiave che apre il paradiso. Tutti la possono ascoltare, persino gli angeli che restano incantati. Non so dire altro sotto l’albero della luce se non le lunghe serenate degli innamorati del mondo. Le serenate sono sempre segrete. Solo allora i rami dell’albero della luce si infiammano incendiando i cuori della gente. Così è l’albero di Gandhi. Così è l’albero di Mandela. Così è l’albero di Teresa di Gesù. Così è l’albero di Martin Luther King. Così è l’albero di don Tonino Bello. Così è l’albero di don Milani. Vi prego seppellitemi sotto l’albero della luce. Là sotto ci sono tutti, per primo la slitta da settanta renne di Babbo Natale. Nell’albero il cielo è una cascata di stelle. Il dolore è il fiammifero più incandescente per accendere l’albero della luce. Il mio stomaco non è un’impastatrice, anche se in questi tempi digerisco persino le pietre. Più scendo nel fallimento e più salgo su in alto. Sono così avvolto nel vortice della sofferenza da non saper vivere altrimenti. Sono perdente, ho scommesso sulla nullità. Eppure il camino di casa mi incensa di resina antica le mani perché ho custodito nel mio petto il respiro del cielo. Appena l’apro anche il giorno più lacerante si quieta ed esplode la meraviglia dell’albero che si incendia di luce per gli altri. E’ solo l’inizio di ciò che non conosco. Il sapere muore senza amare, per questo voglio morire amando.
Paolo Turturro
Canto Dio, poeta della pace. ( 1 gennaio 2010 Giornata Mondiale della pace)
In questa giornata mondiale della pace chiedo a Te, o Maria, di donarmi il canto del magnificat, il canto della poesia, perché la pace non si spenga nei nostri cuori. In questa giornata mondiale della pace mi sono seduto sotto l’ombra di un carrubo a cantare nel cuore il delirio della pace. Quante assemblee sulla pace. Quante costituzioni sulla pace. Pace e giustizia. Pace e creato. Se vuoi la pace… non costruire la guerra. Non più “Si vis pax, para bellum. Io infiammo il sole e persino i morti sorgono associarsi nel poema della pace. Ho il coraggio della terra che vuole seminare nei suoi solchi il cielo. Ho il coraggio di guardare il futuro e la morte non conosce il mio giorno. Come ridurre la morte che loda la pigrizia? Voglio fermarmi. Non voglio giungere al giorno della sua vittoria. Ho decapitato la testa alla morte. Vive senza amore. Dentro le ossa, non c’è l’infinito. Dentro di lei si muore. Le sue ali non ruotano dentro di me. Le ho regalata una tomba. Per rispetto o per paura se ne andata come un sogno. Non voglio sognare il suo ritorno. Non voglio voltarmi indietro di sale. I miei occhi sono avanti. Dietro ho solo il passato, protetto da una fitta chioma. Gli uomini sono ciechi e non camminano nel sole. I miei sogni sono divenuti galassie e dentro l’universo ho seminato i miei pensieri. Non mi costruirò un cielo fatto di mattoni. Non mi fabbricherò porte nell’universo. Non resterò in Europa a cantare i partigiani della pace. Aprirò i sigilli della notte. Non dormirò il tacere. La notte è invecchiata e ha preparato il mantello nell’armadio. Non esce mai. Ha paura del giorno. Ora io esco. Esco con i miei giorni. Esco con il sole. Esco con la luce. Io esco guerriero. Tra gli alberi e le cortecce canterò. Che cosa canterò? Non i giorni, sono già passati. Non la luce, già se ne andata. Non l’amore, calda si è spenta. Oh! che cosa canterò in questa giornata mondiale della pace? Prima partirò. Salirò su un vagone. Su un aereo. Non ho fatto il biglietto. Ho perso il treno e l’aereo. Partirò con una macchina. Mi hanno rotto i freni. E’ pericoloso correre all’impazzata, senza i freni. Senza i freni della vita. Senza i freni dell’amore. Senza i freni della pazienza. Senza i freni della prudenza. Allora come partirò per questo lungo viaggio della pace? Mi avvierò a piedi, solo con i sandali. Dove andare? Ad Atene, a Itaca, a Smirne, a Patmos, a Cipro. Quante mete ha la vita. Mete senza pace. Mete senza amore. Mete senza infinito. E allora dove andare? Nella pendola. In una banca. In chiesa, si, alla scuola della sua pace. Alla scuola del suo vangelo di pace. Dove andare? Visto che nella costituzione italiana è scritto: l’Italia rifiuta la guerra. E quelli sono in Irak. Io là non ci vado e neanche nella costituzione. Visto che l’Onu non è ascoltata da nessuno, là dentro non ci entro. Visto che in Italia e in Europa ci sono capannoni e capannoni di armi. Io dall’Europa non me ne vado. Caso mai caccio via a calci e a pedate i capannoni. Visto che molti cercano lavoro in guerra, io voglio essere disoccupato. Vestirò la gente di entusiasmo, di gioia, di coraggio, di fede di pace. Vestirò il cielo a fiori, a grano, a tappeti, a gigli, a felci. Vestirò i giovani dell’oggi di solidarietà, di coraggio di amare, del coraggio di credere a Dio e al suo poema di pace. Lassù sulle scie di luci inizierò il poema: Vous voilà la paix. Vous voilà l’amour. Vous voilà les jours de la lumiére. Pas plus souvenirs du temps. Vous voilà, impalpable, la paix. Tu non la vedi. E’ impenetrabile. E’ oltre. E’ quasi invisibile. Ma, vous voilà: è qui. Balla al sole, senza far ombra. Balla al sole, senza polvere sulla strada. Non è un mistero la sua canzone. E’ “chiare, dolci acque“. E’ un cuore, dove abita l’infinito. La morte non è dentro la pace. Mon désir è il mondo, è il mio pianeta di pace. Danzano lassù al vedere la terra senza spari. Non vedo un lampo. Non sento un tuono. Non uno sparo. E’ strana quaggiù l’aria. Se ne sono accorti tutti lassù. Non hanno campane a rintocchi. Non hanno coriandoli, non hanno colori. Come far festa lassù? Viaggiano i giovani a cantare lassù. No, non è una diaspora di pace. Una folla, un corteo, una marea, un universo di gente. Sono altri razzi che illuminano la notte. Sono altri fuochi che riscaldano quaggiù. Sono altri spari. Sono altri allarmi. Sono altre ansie. Sono altre speranze. La speranza non è la vittoria della armi. Sono altri fiori. Sono altri abbracci. Sono altri sogni. Non sogni di lupi. Lupi di imperi. Lupi di Cesare. Lupi di monete. Lupi di carne. Sono altri imperi. Sono altre città, senza merci, senza scalo - merci. Sono altre terre, senza sassi, senza macigni. Senza rottami, senza mine anti-uomo. Sono altre strade. Sono altre vie. Vie più diritte. Vie non storte di battaglia. Vie oneste, vie legali, vie pacifiche. Io abito in via della pace. Altri in via dell’amore. Sono altri commerci. Sono commerci equo - solidali. Senza spreco pubblico, senza spreco di luci, di pane, di pasta, di tempo. Sono altri tempi, senza spreco di anime. Ecco: canto, canto, canto l’aurora della pace che si accasa nel cuore di ogni uomo. Canto, canto, canto l’amore che feconda la terra di primavere nuove. Canto, canto, canto i giovani che danzano umanità, arte, poesia e musica. Canto, canto, canto la chiesa che adora Dio in Spirito e verità. Canto Dio, poeta della pace. Canto, cantate la pace. Canto, cantiamo la pace. Cantiamo il pianeta della pace. Cantiamo il convito della pace. Cantiamo il banchetto della pace. Un convito universale. Cantate: Vous voilà la paix ! E’ qui. Cantate Dio, poeta della pace.
Paolo Turturro
Il Dio inaspettato Il Dio inaspettato squarcia il cuore. Dissertazioni sul viaggio delle ipotesi. Non reputo che siano le nuvole a far piovere dall’alto la giustizia. Piuttosto siano le lacrime degli innocenti a far piovere il giusto. Tu sei il certificato di garanzia dei manifesti della giustizia. Troppo tardi scendi secondo le nostre idee. A volte non scendi affatto sotto le nostre suppliche. Tu scendi e il cielo ha sempre rispettato la terra tanto da renderla nuova ogni anno. Le dinamiche della luce creano nuove dimensioni per guidare le città a misura d’uomo. Dimensioni più pulite. Dimensioni più giuste. Dimensioni più serene. Le dinamiche di Dio sono diverse da quelle degli uomini. Mangio il pane impastato di lacrime. Non scrivo ciò che non nasce dal cuore. A molti il cervello si apre e si inceppa a frustate di denaro. Leggono pagine pagate. Non conosco le pagine della loro libertà. La nostalgia dell’infanzia mi crea nel forno della mente ricordi sempre più belli e innocenti. L’imbroglio degli inganni ti fanno cadere la dentiera e ti trovi nudo di verità. Molti preferiscono essere nudi di carne senza sapere che sono nudi di spirito. Il sorriso è la porta della luce. L’anima è il volto dell’eterno. State certi finisce la stoltezza. La mente è fatta per la sapienza. Mangio biscotti di cereali che impastati di scaglie di mandorle sono il lievito della pasta della bontà. Preferisco le cime di rape con le fave alle pappine cremose e untuose francesi. Il pasto se non è gustoso salato che cibo è? Nella valle del silenzio dorme il cimitero. Io volentieri abito le meditazioni. La luce ti prende sempre più quando la intravedi e ti sfugge nel fondo di un tunnel. Stendo la musica jazz sulle mie labbra e la carne si riempie di brividi. Lo scrigno della volontà mi argina le cattiverie che si frantumano nel niente. Nella mia mente non c’è il camposanto delle idee. Le leggi non sono altro che cimiteri. Qui è inutile seppellire anche la stoltezza. IL lievito della pazienza è il figlio inaspettato che ti nasce dentro. La sterilità è il frutto dell’indifferenza. L’inerzia non galoppa la vita. Non credo che l’economia sia il motore del mondo. Il cielo e la terra vanno avanti senza soldi. Non sapete che lo spirito è l’alito della luce? Non sapete che lo spirito è l’alito di Dio dentro la nostra vita? Non sapete che lo spirito è capace di fulminare ogni tumore? Potesse folgorarmi il respiro! L’unico difetto che ha, è sterile nel momento in cui non gli credi. La luce è l’alimento dello spirito. Non alita oscurità nelle notte. Noi che abitiamo il buio, lo segreghiamo nella non esistenza. Dov’è lo spirito se non nel nulla! La mia amica è l’eternità. A lei confido il tempo, ci abbracciamo nei giorni e in ogni raggio di luce facciamo l’amore. I nostri figli sono la lealtà, la mitezza e la bontà. Beato chi beve le lacrime del dolore. Non ha demenza la sofferenza. Nella nostra famiglia nessuno è stolto. Nella nostra casa si cuoce il pane del cielo. Persino il pan delle stelle è geloso del profumo che emana la terra. La casa dei nostri nonni è stracolma di tenerezze. Che serenata la nostra mente! E’ l’eden cacciato dalla terra. Qui a Taranto il cielo e l’aria sanno di gas. La musica non riesce ad attraversare l’etere. Abbiamo ingabbiato le note nel pentagramma delle urla. Le caverne dei ritmi creano boati di paure. I simpson ne sono un esempio. In questo concerto più urli e più divieni verità. Non c’è una volta che il display degli aeroporti segni l’ora esatta. L’uomo abita nel labirinto delle note di ferro. Il contadino si incurva ancora di stanchezza a piantare le cicorie. Ogni dono è un sudore di sacrificio. E’ difficile spiegare certe giornate amare. Lasciamo stare. Dimenticare è un po’ riposare. Ho il coraggio di vestirmi normale. Mi basta la primavera della parola per essere sempre nuovo. Il ritmo del cuore è la sinfonia più antica, più umana che io abbia potuto mai ascoltare. Lo musica è lo spazio dove danza l’infinito. Non ho soffitti nella mente. E’ così ricco che si conta i centesimi in tasca. Ne risulta che si odia da se stesso. Mi cadono a terra le convinzioni che hanno sorretto tante generazioni. Non ultimo che il cielo è chiuso da non essere abitato. Ti dispiace, o vecchio di mente, se la musica ti porta via in un paese nuovo e fantastico? Non c’è limite alla magia della meraviglia. Non è difficile amare il cielo che ti regala doni custoditi per te dall’eternità. Smetto di pensare, mi sto bruciando e poi l’arcobaleno delle idee mi sta catapultando in un’oasi che nench’io so comprendere a capire.
Paolo Turturro
Semina la speranza Qui i campi sono seminati di terra fertile. Pettinati a teneri solchi. Pronti per germogliare la primavera. Non leggetemi. Solo i casolari sono vecchi e abbandonati. Qui i terreni abitano la luce, fertili di sorgenti d’acqua. Troppo belli per essere veri. Che strano! Qui il bene è di tutti. Sono arati di altruismo. Nessuno può imprigionare la mente. Forse qualcuno può sparare a un pensiero? La menzogna uccide chi la dice. Sto per morire e il meglio deve ancora nascere. Vi do dei suggerimenti. La novità del vangelo spalanca universi di bene. Non sono un cacciatore di idee, tanto meno di aquiloni. Vi invito nel salone del cuore. Non vi meravigliate se incontrate Cielo d’Alcamo, Pitagora, Agostino, Francesco e via via tanti altri. E’ bene che consultiamo tutti i profeti per essere. La compagnia in questo salone non finisce mai. Ci sono i giusti di ogni religione, i martiri di ogni tempo, i poeti e i sognatori di ogni paese. Ora capite perché cerco l’assurdo? Respiro tutte le loro aspirazioni. Il loro fiato è nei miei polmoni. Il loro sangue scorre veloce alla foce del martirio dell’umanità. Sono tentato di buttarli tutti fuori. E’ impossibile. Mi accorgo poi di essere gettato anch’io fuori, isolato come sono. Allora restano e mi creano più danno. Essi sono falliti fuori e splendidi a coloro che non riescono a vederci dentro. La luce del perdono è l’interruttore per vedere tutto. Batte la pioggia sui vetri della mia auto. Mi ammonisce a essere prudente. Troppo ardire è la mente. E’ meglio una custodia alle labbra. Mi avverte di non scrivere ironia, perché la sapienza del pensare si può dire, perché pochi la comprendono. Invece la comicità sulle persone e sugli eventi è compresa da tutti. Per ora sono obbediente al suo silenzio. Ho paura però che non obbedirò a lungo. L’unico modo per tacere è buttare tutto il pensare nell’acido. Meglio strapparli prima che escono. Non leggete la sapienza per ora ma solo nella morte. Quella contiene tutte le pagine dei miei amici che ospito nel salone del cuore. Basta! Ho chiuso la porta della sapienza anche se ha un difetto: si apre a ogni innocente che vuole entrare. Le mie idee poi hanno un ulteriore difetto: si leggono fin troppo in fretta. Per questo la mente ha la capacità di brillarle o di cancellarle. So seminare solo concetti buoni. Semino sempre. Semino le lacrime. Semino la pazienza. Semina anche tu. Semina. Semina senza stancarti. Semina la gioia nei cuori tristi. Semina la letizia nei cuori desolati. Semina la bontà nei cuori arrabbiati. Semina la mitezza nei cuori irritati. Semina. Semina. Semina prima o dopo germoglieranno le beatitudini. Semina la calma. Semina sguardi che ci invitano a sovrumane bellezze. Semina i sacramenti della giovinezza. Semina a pieni mani. No, non allungare le mani. Lascia liberi ognuno nelle proprie scelte. Stupisciti della crescita sempre nuova di ogni uomo. Vedrai camminare gli zoppi. Sentirai cantare i muti. Vedrai danzare i ciechi. Stupisciti della bontà di ogni cuore. Lo stupore del coraggio. Lo stupore del camminare. Lo stupore del pensare. Lo stupore dell’amare. Chi semina nelle lacrime, raccoglie stupore. Immersi nella luce del donare, estasiati, contempliamo la Parola, fatta carne. Solo la luce ascolta. Può lo spazio umano contenere l’infinito? La sapienza? Può il tempo contenere l’eterno? Dio ci ha insegnati a seminare, non solo la luce, non solo gli universi. Non solo il tempo. Non solo il creato. Non solo l’anima. Non solo il perdono. Ha seminato il suo figlio nel grembo di una vergine e si è fatto carne. E’ l’oggi di Dio. E’ lo stupore di Dio a Betlemme, la città del pane. Pane per tutti. Impastato con la farina del cielo, non finisce mai. Pane spezzato dagli angeli. Pane spezzato dalla luce. Pane di grano. Pane germogliato dalle lacrime di Dio. Pane umile che ci conquista con l’umiltà. Dio: la più grande scuola di umiltà. L’oggi di Dio. L’oggi di abitare in ognuno di noi. L’oggi da stupire ogni peccatore. L’oggi della meraviglia nelle nostre tenebre. L’oggi che ci fa sereni. L’oggi incarnato: ha legato la sua presenza all’effimera ferialità dei nostri giorni. E’ in scrutabile la sua umiltà. E’incomprensibile il suo perdersi in noi per infinito amore. Tu ami in noi l’effimero per renderci sostanza di eternità. Tu sei la grandezza di ciò che è piccolo. Dio Bambino: l’innocenza dell’umanità. Dio Bambino: la più grande scuola di umiltà.
Paolo Turturro
Maria (continua)
Anche il silenzio ti orienta nella casa di Elisabetta. Ecco, è là sui sentieri dell’impossibile, sulla strada della vita. Ecco è là sulla porta. E’ appena l’aurora di Dio. Il tuo saluto è emozione nel grembo della grazia. E’ il ventre della novità che rivoluziona l’universo incarnato di Dio. Elisabetta comprende che dentro di te è il mistero dell’ignoto. L’assurdo non è altro che nel silenzio, non è altro che umano. L’assurdo umano meraviglia anche il cielo. Maria, che tenerezza vedere due mamme che attendono i loro figli. Non so come hai potuto, tu così debole, così povera, servire una partoriente. Da noi, ci vogliono medici, ostetriche e infermiere di professione. Il servizio di amore è la vera tua professione. Penso che il bimbo nel seno di Elisabetta abbia esaltato di letizia divina. Odo il canto di Elisabetta:” Benedetta tu fra le donne”. Le donne sono tutte benedette. “Benedetto il frutto del tuo grembo”. Il ventre della vita è la benedizione più fertile. Benedetti i tuoi genitori. Benedetto il tuo sorriso. Benedetto il ventre gravido di vita. Anche il giorno dice bene della vita. Benedetto la presenza di Dio nell’aurora di ogni giorno. E tu già ritorni da Giuseppe. E lui ti annuncia che deve andare lontano. E’ un altro cammino. Un cammino voluto dai potenti. E’ lui sa che la potenza umana si sgretola per dar spazio a quella dell’ineffabile. Deve andare lontano. Proprio a Gerusalemme. Proprio nel suo paese, nella terra dell’origine, nella terra della sua stirpe. Nel paese regale dove Dio nasce. Ogni terra è il ventre di Dio. Ogni casa è il vagito regale del divino. E tu, provata e stanca, non induci a seguirlo. Non segui il percorso del destino. Tu sei la via di Dio. Tu sei il percorso dove l’intramontabile cammina. Lo segui, seduta su un asino, perché Giuseppe è preveggente. Dov’è l’origine di Dio? Dove il suo paese natale? Ogni terra è il ventre di Dio. E Giuseppe sa che Betlemme è la terra del belare, è la terra dell’innocente, cantata dai suo profeti. Cantata dai sui martiri. E’ la terra del martirio. E’ la terra di ogni vivente. E’ la terra dei martiri della vita. E tu sali sulla groppa di un asino. Mi sembra proprio l’asino di Dio. Lui sostiene sulle sue spalle tutti noi. Tutto il nascere dei secoli. La notte è di luna. Le colline silenziose si vestono di luce pallida. Il censimento é stressante. Tutto ciò che tocca l’uomo si intorbida. Tanta attesa da perdere persino una locanda da riposare. Quanti alberghi, quanti villaggi per scommettere l’effimero. E tu, caro Giuseppe, non trovi un rifugio, una casetta per ospitare Dio che nasce. Quanto fabbricare l’inutile per consumare lo stress del piacere. E’ proprio assurdo che Dio non provveda a se stesso. Giuseppe bussa a tanti rigetti, a tanto rifiuto. Nessuna si apre. Nessuno accoglie. Non si accoglie il giorno, come dono irrepetibile. Non si accoglie il respiro come fiato che crea l’infinito. Si accoglie solo la notte. E’ troppo fonda la notte. Deve essere così la notte di Dio. La più oscura. La più silenziosa. La più oltre delle notti. E’ l’inaspettabile. Proprio perché la luce che nasce è immaginabile. Proprio perché la luce vera veniva nel mondo. E’ il piano dei contrasti. E’ il linguaggio degli opposti. E’ il paradosso del creatore che discende dal logos del creare per abitare in una stalla. E’ il cullare di una madre che pone sul fieno l’irradiazione del cielo. Maria, grazie per il nostro dialogo. Sto comprendendo l’assurdo. Sto comprendendo l’amore. Svengo d’estasi, esco da me stesso e sono avvolto in panni di Dio. Non nasce Lui, nasco io nella sua culla. Nel suo tabernacolo. Nel suo mistero. Che assurdo. Che mistero. Il cuore di ogni uomo è la culla di Dio. L’incarnazione è in te, Maria, per tutti noi. La nostra incarnazione è l’eucaristia del tuo pane spezzato per tutti noi. Io ti parlo della notte e tu mi offri il giorno. Io ti spiego la notte e tu mi spieghi il giorno del divino. Come è il giorno del divino? Se non il sorriso di ogni bimbo che nasce sempre all’aurora della nuova luce? Grazie, Maria perché senza saperlo mi stai invitando a contemplare la nascita che i profeti hanno cantato e mai vista. Grazie, Maria, perché mi sento eletto in questa stalla del divino. Ogni esilio è la stalla del divino. Ogni terra straniera è il paese di Dio. Io dico che il meglio deve ancora arrivare. Maria, tu, per ognuno di noi, hai sempre una sorpresa, soprattutto nei nostri momenti tristi. Qui nella stalla di Dio mi sta cadendo la tristezza. Qui, nella stalla delle stelle, mi folgora il logos vagito di Dio. Qui la tenerezza della nascita. Qui la tenerezza di tutti i santi che adorano un Dio Bambino. Qui la notte silente che non può cantare tanta è l’emozione, traboccante la bocca da non poter versare. Qui il collasso delle stelle, tanto che ogni filo di paglia è calda della loro luce. Qui il silenzio diviene carne. Qui le mie lacrime impastano farina per nuovo pane cotto dalla luce. Qui l’offerta del tuo figlio che diviene mia carne, mio figlio. Qui il mistero è l’umanità che ancora non vede, che ancora non crede, e la divinità è carne umana. Qui il vagito di Dio che armonizza la nuova ricreazione. Qui è il presepe del sogno di Isaia. Il bambino gioca con la tigre. La bambina cavalca il leone. L’innocente si trastulla con il serpente. Il sogno è di carne. Qui ognuno è attore della nuova creazione. Scusami, Maria. Non sono stato discreto con te. Ho invitato con me tanta gente. Gente semplice, sai. Tu non ricusare. Accetta la nostra presenza. Ecco ti presento, non i magi dell’oriente, non i pastori delle colline di Giudea. Ecco una famiglia delle bidonville di Caracas. Ecco i bimbi del Perù. Ecco le fanciulle dei Curdi. In questa stalla ci stiamo tutti. Tutti stressi dal fiato caldo di Dio. Ci stiamo tutti nel canto dell’universo che ha incantato le stelle. Ti teniamo in mano, caro Gesù Bambino. Le nostre mani sono il caldo fieno. I nostri sguardi sono i panni di ogni vivente. Il nostro sorriso è la ninna nanna di ogni madre che ha ritrovato il proprio bambino perduto. Il nostro fiato sul tuo corpicino tenero è il respiro che crea la nuova umanità, vivente in te in eterno. Qui è la stalla che diviene paradiso umano. Qui è l’eden che non si può dire. Qui è il presepe che non si può narrare. Qui è ciò che tu sogni realtà. Qui è la madre che concepisce Dio a seminare nell’universo. La stalla è così minuta che entrano tutti i miriadi di viventi di ieri, di oggi e di sempre. Qui è l’assurdo: ogni uomo, ogni filo d’erba, ogni pianeta, ogni stella, ogni firmamento concepisce Dio. Buon Natale Gesù in ogni cuore d’uomo. Grazie, Maria, della tua verginità a concepire Dio nella carne di ogni vivente. Solo una vergine ha l’energia della divinità. Grazie, Maria, del dialogo che mi hai donato da respirare. Sto respirando Dio nelle vene del mio spirito. Ho paura davvero che oggi stesso nasca dentro di me, il figlio dell’uomo, vivente di Dio.
Paolo Turturro
MARIA (continua)
Maria, permetti che, nell’avvento del
tuo bambino, io possa cantare i sogni dei tuoi nove mesi di attesa.
Sappi che sono un angelo che non sa volare. Questo è proprio grave.
Ho bisogno di continue spinte per planare. A volte oso troppo e cado
spesso a terra. Con te, però, sono sicuro non sarà così. Maria,
permetti che mi sieda accanto a te, al tepore del camino della tua
novena a raccontarmi il tuo pellegrinare. Sono un bacio dato a Dio.
Non so lievitare il divino. Sono impastato solo di argilla e appena
cotto mi sgretolo tutto, come un coccio arido al sole. Maria, non
sentirò mai un angelo annunciarmi il conforto, per questo sto
accanto a te, qui nel tabernacolo dell’aurora, qui nel tabernacolo
della luce, ad ascoltare l’annuncio dell’incarnazione di Gesù in te.
E’ intimo. E’ mistico. E’ tenero di luce. E’ chiara la profezia. Il
tuo “si” concepirà il Figlio di Dio. E tu non sai perché, tra le più
semplici ancelle d’ Israele, il Signore ha scelto te. E tu non sai
perché in una notte intima di spirito e di calore Dio s’incarna nel
tuo grembo. E tu non sai perché il silenzio di Dio penetra nel
profondo più intimo di te stessa. Ti avvolge più di un abbraccio. Ti
stringe più di un bacio. Ti coinvolge più di un sogno a occhi
aperti. Proprio nei tuoi vibrano i piani del cielo. Sono discreto,
Maria, il dialogo tra te e l’angelo diventa più personale, più
intimo. L’intimità del rapporto con lo Spirito è alto a vertigini di
estasi. Anche tu inebriata d’ineffabile, svieni, Anche per te,
graziata, è grave concepire Dio. E’ anche mio, è anche nostro, il
tuo dubbio dinanzi a un rapporto divino. Come è possibile? Dio
diviene carne. Dio diviene corpo. Dio dà all’umanità il suo corpo.
Carne del tuo stesso grembo. Sangue del tuo stesso sangue. In
te e in Lui scorrono vene di divinità. E l’estasi è reale. L’estasi
è umana. Non più smarrita offri il tuo “Eccomi”. E’ l’aurora
dell’angelo diventa cielo di salvezza, firmamento di eternità. Il
tuo “si” incarna nell’universo la stabilità della divinità. Maria,
sto sognando dentro il tuo respiro di consacrazione all’invisibile
che freme di carne nel tuo seno. Maria, come geme dentro di te.
Freme. Palpita e scalpita quel vagito divino. Maria, geme le guerre
del mondo. Geme i respiri del dolore di tanti martiri. Palpita il
cammino di tanti sofferenti, di tanti innocenti. Geme l’odio
incarnato ancora da quell’eden antico. Geme la speranza. Geme il
perdono. Nel tuo grembo geme la vita. Geme le beatitudini. Geme il
calvario così irto anche per Dio. Geme la flagellazione. Geme la
condanna su una croce turpe di cattiveria inaudita. Geme la
risurrezione. E come comunicare questo annuncio? Come comunicare il
concepimento a Giuseppe? Come ai tuoi genitori? Che dramma questa
incarnazione. Ti sento preoccupata. Tuttavia è sempre una madre a
iniziare il dialogo, a sboccare una situazione. Si, è Anna ad
assicurarti di non temere dell’eterno. La sua promessa si realizza
in te. E tu l’ascolti. E ti tuffi nelle sue forti braccia. E con le
sue tenere mani ti accarezza i capelli, ti accarezza i tuoi dubbi
ormai svaniti. Stai sicura, ti suggerisce nel silenzio. Stai sicura.
Quello che è in te è opera di Spirito Santo. E tu ancora
incalzi:”Devo andare!” “Dove?” Da Elisabetta. Non puoi Maria andare
tutta sola. La montagna è perfida. La notte ti smarrisce. Il
percorso è lungo. E poi Giuseppe? E’ lui che ti può dare l’assenso
per andare. Come attraversare l’ignoto per giungere da Zaccaria? Da
sola è impossibile. E’ necessario una compagnia. Come svelare a
Giuseppe l’ineffabile? Dio incarnato in te? Anche i sassi sono
scontrosi nel tuo pellegrinare. E tu, sui sentieri d’Israele, sei il
primo messaggero della certezza di Dio incarnato in noi. Senza il
permesso di Giuseppe tu non puoi andare. Eppure mi stupisco ancora
nell’incontro tra te e Giuseppe. La notte consiglia bene. Quella di
Giuseppe, è stata una notte insonne. E quante ne ha vissute ancora.
Anche lui non sa capire, come ogni uomo dinanzi a un evento
straordinario. Si dimena nel suo letto. Il sudore purifica il
guanciale. E’ un angelo a rincuorarlo? E’ Dio che interviene e che
assicura? Come sentire Dio in questo dramma. Eppure:” Sta
tranquillo, figlio di Davide, quello che è in lei è opera di Spirito
Santo”. E’ coraggioso Giuseppe. E’ ardito fino all’estremo, tanto
che ti benedice nell’andare. Non sei sola nel cammino. Senza saperlo
ti accompagnano, non solo gli angeli, non solo gli usignoli, non
solo le stelle cadenti. E’ la prova della notte silente. Ci siamo
tutti noi. Ci sono anch’io. Ci sono tutte le madri che cercano un
figlio. Ci sono tutti i pellegrini dei secoli che tu stesso hai
chiamato a raccolta. Persino i greggi e gli armenti indicano con il
loro belare la via che conduce all’incontro. (
continua)
Paolo
Turturro.
Ora che mi sto risvegliando, ricordo
il cielo. La notte e i miei occhi non vanno d’accordo. Quella non si
apre mai alla luce, i miei invece si illuminano di chiarezza del
risorto. I pigmenti nervosi di Van Gogh tremano sulle dita delle mie
mani. Non sono prigioniero del buio. La mente mi rischiara i
sentieri della vita, anche i più oscuri e più tenebrosi. Non
abbrevio i miei giorni per timore di chi inganna. Cavalco la luce
del discernimento, per questo resisto ancora. Non ho piedi di
argilla a crollare tutto il corpo. Sono fatto di persona che vuole
vivere fin in fondo la sua vita. Ogni vivente ne ha diritto. Non
incido tatuaggi sulla mia carne. La pelle con i suoi disegni
architettonici è già una meraviglia. Navigo nella pelle a scoprire i
geni che i profeti, i santi e gli artisti hanno trasmesso sul corpo
dell’umanità. Tutto si incarna nell’etere. Nulla si distrugge. Tocca
a me intuire per il ritorno di tutto ciò che è stato inciso con le
lacrime, con la gioia nei segreti dei secoli. Non arrossisco perché
il Signore ha riempito il mio volto del suo splendore. Non sempre
gli sms vanno a buon fine. Ho lanciato il raggio della speranza nel
cuore gelido della gente. Ho rischiato di raffreddarmi. Sono un
missionario contemplativo di Dio. Come mollare con la sua forza?
Sono un esperto di umanità, radicato nel cuore della chiesa, la
chiesa silente di Cristo. Conosco chi è l’uomo d’oggi. Ho vissuto
tutto il dramma di miriadi di persone. Tutte le loro gioie. Tutte le
loro ansie. Tutte le loro speranze. Tutti aspettano un consiglio,
senza sapere che noi stessi siamo la via della soluzione per ogni
problema. Quanti percorsi. Quanti innocenti in pianto. Quante prove
nei campi dell’innocenza. Il campo più fertile è quello del perdono,
vissuto di bontà. Esso è irradiato da lacrime di gioia. Ho dissodato
terreni aridi di peccatori. Il solco più profondo è la ferita di chi
tradisce. Le fenditure dell’odio sono superficiali rispetto
all’aratro della falsità. L’umus del pianto è il seme più fecondo,
fa germogliare angeli nelle vene. Il trattore della calunnia si
inceppa spesso sulle rotaie roventi della verità. Il travaglio del
sudore di chi resiste fin in fondo produce estasi di verità, campi
di innocenza. Io sono la rovina del male. Sono stanco dei loschi
affari. A volte cammino da principe nella città del silenzio, per
consacrare i poveri di regalità. Dalle mie mani escono soltanto
sogni di solidarietà. Non possiedo nulla, se non il coraggio di
andare avanti. Non gioco di azzardo o di denaro. La gente ha paura
per questo si veste di denaro. Scommetto l’anima per conoscere Dio.
E’ tutto ciò che conta per me. I campi dei giorni sono invasi da
tempeste che affliggono gli innocenti. Non mi scuote il terremoto
delle cattiverie, nate dalla paglia dell’odio. Ho imparato da Colui
che si chiama “Croce”, a donare solo pazienza di sorrisi, abbracci
di misericordia. Pur seminando dolori di sassi, non raccolgo vento
di rabbia. Quanto disordine e quante discordie nel diluvio delle
pietre. Pietre in faccia. Pietre nello stomaco. Pietre da masticare
sotto i denti. Pietre che bloccano le mani. Pietre false. Pietre
nere. Pietre incandescenti. Pietre a ferite. Pietre a lapidazione.
Pietre a scolpire l’anima. Pietre a incidere poemi. Pietre a
condannare. Pietre a morire. Pietre a costruire. Pietre d’angolo
della chiesa. Pietre a scolpire di bellezze. Pietre, pietre a
diluvio. Non ho tempo per l’inerzia, né l’ozio abita la mia mente.
Ho seminato i sogni nelle vene dello spirito. Già li contemplo nel
firmamento della salvezza. Qui nessuno si perde. Qui nessuno vive a
mani vuote. Mi siedo a volte sul colle dell’umanità a contemplare i
paesaggi di tanti campi, arati dal dolore, arati dalla
testardaggine, arati dalla volontà di trasmettere pace e amore,
arati dall’intelligenza e dalla vera sapienza degli uomini. Paesaggi
a grano di bontà. Paesaggi a frutti di santità. Colline colorate di
mitezza. Fiumi sorgenti di fertilità. Terreni circuiti di colori di
giustizia. Convalli amene di iris di speranza. Solchi profondi a
seminare sicurezze. E i granai della mente dell’umanità sono
traboccanti di certezze. Al mondo ho tolto per sempre il velo delle
tristezze. Gli ho svelato le meraviglie della sua intelligenza. Il
seme del pianto nel campo degli innocenti ha irrorato corolle di
carismi che ho consegnato al silenzio. Mi trovo nell’universo dei
campi arati di perdono, arati di pazienza, arati di tolleranza,
arati di sapienza. Tanto ho orato da seminare il sole nelle taverne
più oscure dell’odio. Ecco: una chiesa è divenuta una luogo di
accoglienza. Le case: tavole tonde di fratellanza. Le città:
paradisi della terra. Ecco, qui puoi abitare tu che sei avvilito.
Qui c’è misericordia anche per chi ha fatto piangere persino gli
angeli. Non trova pace chi calpesta l’innocente con la calunnia.
Vieni, tu che sei angosciata da questo male. Vieni ho preparato per
te serti di carismi nelle serre dell’anima. Vieni, starai bene nel
campo degli innocenti. Vieni, qui non ci sono steccati che possano
impedire di comprenderci. Vieni, qui non c’è erba secca
dell’intolleranza. Vieni, qui anch’io sto bene nel campo del pianto.
Non è un alluvione, il pianto. Vieni, questa sorgente delle lacrime
ammorbidisce anche lo zoccolo più duro dell’odio. Vieni, qui non si
vive di colpevolezze. Qui, si vive come sei nato.: in Cristo, santo
tra i santi.
Paolo Turturro. La notte dei poveri
Caro amico, c’è chi uccide. C’è chi ferisce. C’è chi guarisce. Il meglio degli uomini deve ancora venire. La rabbia è più oscura e più laria delle tenebre di mezzanotte. Nella mia casa abita il cielo. Il cuore è la mia chiesa. Il mio angelo non si spaventa dei miei pensieri. Ho catturato il diavolo e gli ho rotto le sue corna. Per questo posso gridare libero:”Gioisci, amico, viene il tuo Signore. Gioisci, amico, rallegrati dentro il tuo cuore, l’unico nemico dell’anima è morto: il peccato e la sua condanna. Se si rallegra di te il Signore, stai certo tutto va bene. Egli è qui, nel mio respiro. Non vedo nessuna sventura. Egli è qui, non temo e non mi lascio cadere né il cuore, né le braccia. Non conosco quanto Dio gioisca per me! La sua letizia deve essere qualcosa di favoloso. Più dei giorni di festa. Più dei giorni dell’amore. Più dei giorni del sole. Più della stessa gioia della giustizia. Come posso conoscere e giungere alla sua gioia? Non basta un’altalena di preghiera. Non basta uno spintone di sacramento. Non basta l’annuncio della sua stessa nascita in mezzo a noi, solo fatta di rito sterile. Devo dirti che la nascita di Gesù Bambino mi fa impazzire di esultanza. Qui, nelle strade delle nostre metropoli, la gente, i giovani sono pazzi di alcool, di mode e di ricerche di nuove emozioni. Non sanno fare altro che rompere scuole, negozi e persone, nelle notti sfaccendate e pigre di sonno. Io invece mi sazio di Dio nel tabernacolo della notte. Mi sazio della sua confidenza. Mi infuoca quando nell’oscurità più atroce del mio dolore, mi confida il suo amore. Che pazzo questo Dio della notte che nasce nella pochezza. Che pazzo questo Dio della notte che nasce nel tempo. Che pazzo questo Dio della notte che nasce persino nel silenzio agli stessi suoi angeli. Che Dio! Potessi ripetere a me stesso il canto di san Paolo:” Fratelli, rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi”. E’ lo spasimo del cuore che lancia sicurezze di letizia e non solo emozioni. E’ l’overdose della gioia di Dio ormai vicino. E’ l’uscita di sicurezza dal tunnel del nulla, dal tunnel dell’angoscia che solo il male ti dà, finalmente si esce dalla notte per entrare per sempre nell’aurora di Dio. Dio nasce, è l’affabilità del cielo che accarezza ogni uomo perduto nell’oscurità del tempo. E’ l’affabilità della grazia che sprona l’uomo a sovrumane visioni. E’ l’affabilità di Dio che lancia l’innocente a trasparenti perdoni. Mi sento sicuro nel tabernacolo della culla di Dio. Mi custodisce non solo il cuore ma ogni desiderio di progetto di vita. Non so fare nulla nell’attesa della sua venuta. Come prepararsi a Dio? Le tuniche del profeta non si usano più e del resto è difficile trovarne una. L’opulenza del cibo prende spasmodicamente tutti i nostri poveri. Qual è la miseria da sconfiggere? La miseria che ha fame di Dio. Io non sono un uomo da regalo, né tanto meno da sorprese. Sono appena:” Se questo è un uomo?”. Cosa chiedere agli uomini per convertirsi al bene? Molti pensano solo a natale che basti donare un po’, e non del tutto, del proprio superfluo per accontentare Dio. Non riescono neanche a soddisfare se stessi, con questo blasfemo regalo. Oh! Quale battesimo chiedere oggi? Se non quello dello spirito? E come vorrei anch’io che ardesse dentro di me e che trasmettesse il suo ardore a ogni persona che nelle mattine di fretta io incontri. Invece non posso illuderti. Mi raffreddo subito dinanzi alla potenza del male. Fuori, sulle strade dello stress, incontro la potenza degli uomini e l’impotenza di Dio. Dentro, non lontano dal cuore, abbraccio ineffabilmente la sua grande potenza che mi sconvolge irrepetibilmente. Mi raffreddo subito dinanzi a chi mi confida:” Chi te lo fa fare? Vivi l’apatia del giorno. Vivi l’inerzia dell’esistenza. Anche il Natale passa”. Purtroppo, caro amico, anche Dio passa e rischi di non incontrarlo. Che brutta avventura è la fede fatta di sterilità, di carta e di riti affrettati. Che brutta avventura è il natale fatto di presepi da visitare e di bancarelle da comprare. E allora, caro amico, che fare? Mollare Dio? Non mi và. Mollare la fede? Neanche per sogno. Mollare la coscienza? Sono nato per questo. Niente quindi di tutto questo. Non esigo dagli altri ciò che a me stesso non so ottenere. Non maltratto gli altri quanto anch’io, in me stesso, sento la tristezza delle cadute. Non estorco niente a nessuno, né compromessi, né protezioni, né favori. Sono contento, caro amico, di vivere così, nella mia città del silenzio. Forse, caro amico, quest’anno in me nasce Dio. Ti invito già alla festa. Vedi, mi battezza di fuoco. Mi esala di spirito. Mi consacra di certezze. Scioglie ogni legaccio di male. Spezza ogni catena del tempo. Mi ripulisci l’aia della mia vita con il ventilabro dello spirito. Sono divenuto, nella macina del dolore, una purissima farina per cuocere il pane fragrante nella notte di Natale. E’ poco il mio pane. E’ appena una focaccia incandescente, cotta sulle pietre dell’anima. Sono sicuro però che il Bambino Gesù lo accetterà e con le sue stesse mani lo spezzerà da condividere per tanti nella notte dei poveri.
Paolo Turturro
Il deserto dell’anima
Sono atterrato a piedi nudi sul deserto dell’anima. Qui neanche un alito. Qui l’infarto è niente. I raggi del sole sono strali che accecano. Anche l’orizzonte è di sabbia. Qui nessuno cogita il male. Qui, vestito di nulla, respiro l’infinito. Qui, svestito di tempo, alito l’eterno. Dialogo con la voce del silenzio. Il turbine delle dune mi rammenta la velocità dell’odio che si saetta nel nulla. Non sono sterile nel deserto. Qui c’è un’energia, atomo concentrato dei secoli, atomo concentrato d‘amore, che mi ossigena di sapienza. Odo respirare lo spirito. Palpita ciò che non puoi intuire. E’ il vortice della vite senza fine. Proprio nel nulla della sabbia scopro la ricchezza dell’invisibile. Non sono dinanzi a una conchiglia fossile. Qui il deserto dello spirito respira ciò che tu non puoi vedere. Gli occhi penetrano il silenzio del sapere. Sono un tutt’uno con la clessidra della sabbia. Un tutt’uno nell’abisso che non finisce. Eppure qui mi riposo. Quest’aria mi tranquillizza. Mi svuoto delle preoccupazioni dense di ansia e mi rilasso. Qui anche l’arena è fallita di niente, eppure mi quieto. Il sapere del dubbio non mi pesa più. Solo a volte nascosto nelle pieghe delle ombre guizza veloce il cobra del cacciatore degli inganni. Alzo allora lo sguardo e mi afferro all’aquilone della speranza. Sogno il cielo a pecorella. Chissà che la sabbia non diviene fiore. Qui se piove anche la pioggia s’insabbia nel vuoto. Neanche una gerba d’acqua lasciano i malfattori. Cacciano l’acqua a privatizzarla e la terra diventa deserto. La desertificazione del pensare è il rischio più grave e deleterio per l’umanità. E’ già qui nella scelta radicale del denaro. Si opta per uno stipendio senza produrre e creare. Chi semina speranza, raccoglie gioia. Semina amico, semina senza stancarti. Semina la giustizia. Semina la prudenza. Semina l’onestà. Semina la lealtà. Semina sui colori del sole i sogni che il cielo realizzerà. Dubiti ancora che il cielo può meno di te? Semina la luce, troppa gente stagna nel buio. Semina la tranquillità, troppi cuori sono attanagliati di rancore. Semina la letizia nella mente di chi pensa solo frode a lapidare. Semina la gioia, la gente ne ha tanta fame. Ho cinquanta bastonate da regale a chi è muto e sa il riciclaggio del male. Ho puntato tutto sulla coscienza, per questo in questo deserto dello spirito non mi smarrisco. La coscienza non è un bingo. Né una roulette da girare a piacimento. E’ seria l’anima e io ho investito bene in lei tutta la mia esistenza. So che a volte è troppo innanzi e io non so stare ai suoi passi. Troppo veloce è la sua anima e ciò che pensa è già passato. Sto rischiando di inabissarmi in questo deserto. Il vento mi cancella le orme dei miei concetti. A volte anche il pensare inutile è di sabbia. E’ bene che il maestrale del tempo porti via ciò che è effimero. Rassomigliano a questi granelli di sabbia, che raccolto nelle mie mani, i miei pensieri. Eppure qualche rosa del deserto ha raccolto la mia vita. Sono così rare queste rose! Germogliano solo dopo un impetuoso turbine di tempesta che rivoluziona tutte le dune e ti perdi nel nuovo orizzonte di sabbia. Solo alla bonaccia spuntano, come raggi di luce, queste rose. Accanto si sprofondano ombre allungate, sembrano i nuovi fantasmi che salgono dall’inerzia del male. Ciò che si costruisce con la materia finisce a perire. Solo chi concepisce amore non muore mai. Qui ho appreso a vivere d’amore. E’ un amore tanto fertile da sorgere dalla sterilità del pianto. Non riesco a contare i fiumi di sabbia che escono dall’anima. Tutto ciò che effimero lo svuoto nel setaccio dell’esistenza. Mi sento leggero, alleggerito dai sassi dell’odio, dal piombo dei tribunali, dall’ottone dell’invidia. Mi sento tanto leggero da non avvertirmi di esistere. L’appuntamento che amo è la preghiera degli angeli. Non mi mancano mai. In essi mi germogliano grazie, proprio qui nel deserto più arido. Non so descrivervi i doni che effonde lo spirito. Come scrivere il perdono? E’ così sottile che sembra assurdo che ci sia. Proverò a dipingerlo con i frammenti delle mie lacrime. Ne viene fuori il capolavoro che non mi aspettavo e che è così invisibile da non poterlo dire. Tuttavia resto qui a chiedervi scusa, amici, per tanto ardire che poi non svela nulla.
Paolo Turturro.
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progetto: SoMigrafica 2009