LA LEZIONE DI UN POVERO SENZA NOME
Non so che
nome abbia, quale sia la sua storia, quali drammi si porti dentro. Non
so chi sia. Non lo sa nessuno, forse perché nessuno gliel'ha mai
chiesto. L'ho visto spuntare dal nulla un paio di anni fa e da allora è
sempre lì, davanti al bar di piazzetta Reale, a Palermo, giorno per
giorno, mattina e sera. Accovacciato per terra, raggomitolato su se
stesso. Ai suoi piedi un fagotto di povere cose e un piattino dove
raccoglie i pochi spiccioli che qualche passante, mosso da compassione,
gli lancia frettolosamente, farfugliando qualche incomprensibile sillaba
di risposta al suo <grazie, Signore>. Non so che nome abbia. So solo
che è arrivato dal Marocco agli inizi degli anni Novanta. Aveva già
allora un occhio completamente bianco, cieco, una gamba malata, ridotta
a pelle e ossa come le sue braccia, e una lunghissima ferita dal
ginocchio alla caviglia ricucita senza particolare cura per l'estetica.
Che sarà stato?
Un incidente? E che tipo di incidente? Un'esplosione? Un piede capitato
su una delle tante mine anti-uomo disseminate nei più sventurati Paesi
del pianeta? Non l'ho mai visto camminare. Penso che si trascini con
grande fatica e sofferenza, probabilmente zoppica, anche se accanto a sé
non ha né bastoni, né altri attrezzi per il sostegno. Sono questi i
pensieri che si rincorrono nella mia mente giorno dopo giorno, quando lo
vedo al solito posto che ormai gli spetta quasi di diritto e che nessuno
ha il coraggio di togliergli. E' sempre lì, d'estate e d'inverno.
Quando incrocia il mio sguardo mi sorride. Non sorride a nessuno. Solo a
me. Chissà perchè. Credo anche di essere uno dei pochi ai quali abbia
mai rivolto la parola. E' successo poche settimane fa, durante il
Ramadan. Erano le cinque di un pomeriggio torrido, se ne stava - al
solito – per terra, all'ambra. <Non mangio e non bevo da ieri sera>, mi
disse con un velo di soddisfazione. Io non capìi, pensai che fosse un
problema di soldi. Ma lui spiegò: <Noi musulmani, quelli veri, stiamo
molto attenti in questo periodo a osservare i precetti>. E prese a
spiegarmi un'infinità di regole dei seguaci di Maometto, in un italiano
chiarissimo e con na insospettabile proprietà di linguaggio. Della sua
religione sapeva tutto o quasi, certamente molto più di quanto ne sappia
io della mia. Ma c'è molto caldo, obiettai, chissà che sofferenza.
Scosse la testa. <No, per niente. Basta avere fede e pazienza. Stasera,
quando arriva l'ora,
mangerò e berrò quanto basta>. Hai da mangiare, chiesi? <Non mi è mai
mancato nulla - replicò, sorpreso del mio stupore - Un panino e un
bicchiere d'acqua riesco sempre a rimediarlo>.
E dove vai a dormire? <Qui dietro, da Biagio Conte>. Sfilai via con la
convinzione che fosse decisamente un uomo migliore di me. E questo
pensiero ribaltò di colpo il nostro rapporto. Mi sentìi io lo
straccione, con la mia bella maglietta e i miei jeans firmati, le mie
belle scarpe comode , la mia bella macchina, la mia bella famiglia, il
mio bel lavoro, la mia bella paga, il mio bel mondo fatto di viaggi,
soddisfazioni, capricci. Sì, quell'uomo senza nome
così dimesso, figlio di nessuno, con quattro stracci addosso, mi aveva
dato una grande lezione di vita. Viveva da solo, mattina, pomeriggio,
sera e notte. Ed era felice del suo nulla. Non aveva una donna che gli
facesse una carezza, un figlio da abbracciare, un amico con cui
scherzare. Era solo con se stesso. Tutto il giorno. Tutti i giorni. Da
anni. E non chiedeva niente. Gli bastava esserci e pregare il suo Dio.
Lo rividi il giorno dopo, ero ancora turbato. Fu
allora che lo fissai con occhi diversi. E colsi nel suo sguardo una luce
che non avevo mai visto prima, quei bagliori sfolgoranti della luce
divina che mancano in tanti di noi, presunti cristiani.
Enzo
Mignosi
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