Vincenzo Noto

 

 

LA LEZIONE DI UN POVERO SENZA NOME

 

Non so che nome abbia, quale sia la sua storia, quali drammi si porti dentro. Non so chi sia. Non lo sa nessuno, forse  perché nessuno gliel'ha mai chiesto. L'ho visto spuntare dal nulla un paio di anni fa e da allora è sempre lì, davanti al bar di piazzetta Reale, a Palermo, giorno per giorno, mattina e sera. Accovacciato per terra, raggomitolato su se stesso. Ai suoi piedi un fagotto di povere cose e un piattino dove raccoglie i pochi spiccioli che qualche passante, mosso da compassione, gli lancia frettolosamente, farfugliando qualche incomprensibile sillaba di risposta al suo <grazie, Signore>.  Non so che nome abbia. So solo che è arrivato dal Marocco agli inizi degli anni Novanta. Aveva già allora un occhio completamente bianco, cieco, una gamba malata, ridotta a pelle e ossa come le sue braccia, e una lunghissima ferita dal ginocchio alla caviglia ricucita senza particolare cura per l'estetica. Che sarà stato?


Un incidente? E che tipo di incidente? Un'esplosione? Un piede capitato su una delle tante mine anti-uomo disseminate nei più sventurati Paesi del pianeta? Non l'ho mai visto camminare. Penso che si trascini con grande fatica e sofferenza, probabilmente zoppica, anche se accanto a sé non ha né bastoni, né altri attrezzi per il sostegno.  Sono questi i pensieri che si rincorrono nella mia mente giorno dopo giorno, quando lo vedo al solito posto che ormai gli spetta quasi di diritto e che nessuno ha il coraggio di togliergli. E' sempre lì, d'estate e d'inverno.
Quando incrocia il mio sguardo mi sorride. Non sorride a nessuno. Solo a me. Chissà perchè.  Credo anche di essere uno dei pochi ai quali abbia mai rivolto la parola. E' successo poche settimane fa, durante il Ramadan. Erano le cinque di un pomeriggio torrido, se ne stava - al solito – per terra, all'ambra. <Non mangio e non bevo da ieri sera>, mi disse con un velo di soddisfazione. Io non capìi, pensai che fosse un problema di soldi. Ma lui spiegò: <Noi musulmani, quelli veri, stiamo molto attenti in questo periodo a osservare i precetti>.  E prese a spiegarmi un'infinità di regole dei seguaci di Maometto, in un italiano chiarissimo e con  na insospettabile proprietà di linguaggio. Della sua religione sapeva tutto o quasi, certamente molto più di quanto ne sappia io della mia.  Ma c'è molto caldo, obiettai, chissà che sofferenza. Scosse la testa. <No, per niente. Basta avere fede e pazienza. Stasera, quando arriva l'ora,
mangerò e berrò quanto basta>.  Hai da mangiare, chiesi? <Non mi è mai mancato nulla - replicò, sorpreso del mio stupore -  Un panino e un bicchiere d'acqua riesco sempre a rimediarlo>.
E dove vai a dormire? <Qui dietro, da Biagio Conte>.  Sfilai via con la convinzione che fosse decisamente un uomo migliore di me. E questo pensiero ribaltò di colpo il nostro rapporto. Mi sentìi io lo straccione, con la mia bella maglietta e i miei jeans firmati, le mie belle scarpe comode , la mia bella macchina, la mia bella famiglia, il mio bel lavoro, la mia bella paga, il mio bel mondo fatto di viaggi, soddisfazioni, capricci.  Sì, quell'uomo senza nome
così dimesso, figlio di nessuno, con quattro stracci addosso, mi aveva dato una grande lezione di vita. Viveva da solo, mattina, pomeriggio, sera e notte. Ed era felice del suo nulla. Non aveva una donna che gli facesse una carezza, un figlio da abbracciare, un amico con cui scherzare. Era solo con se stesso. Tutto il giorno. Tutti i giorni. Da anni. E non chiedeva niente. Gli bastava esserci e pregare il suo Dio.  Lo rividi il giorno dopo, ero ancora turbato. Fu
allora che lo fissai con occhi diversi. E colsi nel suo sguardo una luce che non avevo mai visto prima, quei bagliori sfolgoranti della luce divina che mancano in tanti di noi, presunti cristiani.

 

Enzo Mignosi

 

 

 

 

progetto: SoMigrafica 2009