Vincenzo Noto

 

 

 

Scelte aziendali sulla pelle dei lavoratori

 

Che un Papa torni a parlare di disoccupazione non in generale, ma facendo esplicito riferimento a dei casi particolari ha un significato preciso. All’Angelus di domenica 31 gennaio, Benedetto XVI ha parlato esplicitamente della situazione della Fiat a Termini Imerese e di quella della multinazionale dell’alluminio americana Alcoa in Sardegna. È segno che si tratta di due casi molto gravi, di forte impatto sulla vita dei lavoratori, delle famiglie e del territorio. Segno anche che sono due casi emblematici: ambedue riguardano il rapporto tra le imprese multinazionali, che per definizione non fanno riferimento a nessun territorio particolare, e appunto un territorio particolare. Due tipici casi, in altre parole, di globalizzazione economica a cui non corrisponde una uguale globalizzazione sindacale e politica.

Sulle parole dal Papa hanno espresso pareri positivi sia il governo, per bocca del ministro dell’Industria, Claudio Scajola, sia i responsabili sindacali, ma è emersa comunque una certa inadeguatezza della politica e del sindacato di fronte a soggetti economici transnazionali che ragionano in termini globali. Alla fine, se Fiat ed Alcoa decidessero di delocalizzare altrove le loro strutture produttive, nessuno degli altri interlocutori potrebbe farci nulla. Né il governo né i sindacati hanno infatti effettivo potere di intervenire se non sul piano delle proposte, ma non certo con i veti. Scioperi e violenze in questi casi sono ancor meno utili che in altri. Molto più importante è cercare un accordo sedendosi ad un tavolo, come appunto si farà durante tutta la settimana. Ma seduti attorno al tavolo che cosa di concreto si potrà fare e che ruolo devono giocare i diversi soggetti?

La prima cosa da fare è di sgombrare ogni equivoco su un punto: qui la crisi non c’entra o c’entra solo marginalmente. I motivi per cui Fiat ed Alcoa minacciano di smantellare la produzione siciliana e sarda sono connessi con la ristrutturazione mondiale “dopo” la crisi, non con la crisi. Sono anche connessi, così dicono le due società, con fenomeni locali come l’alto costo di produzione della Ypsilon a Termini Imerese (mille euro in più, si dice in Fiat) e l’alto costo dell’energia in Sardegna come dicono all’Alcoa. Può anche darsi che sia così (ma il governo italiano ha affermato di aver allineato le tariffe dell’energia a quelle degli altri Paesi) ma con maggiori probabilità ci sono altri giochi da giocare. Per la Fiat il primo è la famosa produzione di 6 milioni di macchine all’anno che sembra essere al giorno d’oggi la soglia necessaria per poter sopravvivere in quel mercato.

Poche le connessioni con la crisi, quindi, ma tante quelle con la disoccupazione. La crisi è finita o sta finendo, certo, ma siamo ancora pienamente dentro la disoccupazione che, dice qualche esperto, aumenterà quando saranno finiti i soldi per la cassa integrazione. Del resto le aziende sono potute uscire dalla crisi anche riducendo l’occupazione, e una volta uscite non riaprono le assunzioni per poter mantenere il vantaggio raggiunto in concorrenza. Ecco perché, nonostante dalla crisi si stia uscendo, la disoccupazione non diminuisce, come hanno confermato i dati Istat del mese di dicembre scorso. La chiusura degli stabilimenti siciliani e sardi aggraverà la situazione di disoccupazione del dopo-crisi, ma forse la riduzione del personale è proprio uno degli obiettivi delle due aziende le quali non intendono delocalizzare ma semplicemente chiudere.

L’appello del Papa ricorda che sulle persone non è lecito fare di questi giochi. Si vuole delocalizzare? Prima si discuta con il governo e i sindacati. Può essere trovata una soluzione. Si vuole semplicemente chiudere per finanziare la ripresa con i risparmi sul lavoro. Lo si dica chiaro e se ne discuta con governo e sindacati. La priorità del lavoro sul capitale non vuol dire che bisogna tenere a forza aperte delle fabbriche che sono totalmente in rosso. Vuol dire che prima di produrre decisioni così dolorose bisogna pensarci bene, e poi pensarci ancora, ascoltare le proposte di tutti e verificare l’aiuto di tutti.

Bisognerà anche ricordare che ai tavoli della discussione ognuno farà la propria parte, senza sostituirsi all’altro. Ha ragione il ministro Scajola: lo Stato può fare due cose, da un lato, procurare i soldi per gli ammortizzatori sociali e, dall’altro, offrire un contesto infrastrutturale che permetta alle due fabbriche di essere competitive rispetto ad altri contesti. Queste due cose però le faccia. I sindacati promettano operosità e riduzioni dell’eventuale assenteismo. Ma alla fine, inutile negarlo, la responsabilità maggiore ce l’hanno le imprese, i cui dirigenti non devono ragionare, come dice la “Caritas in veritate”, con la mentalità di una classe cosmopolita di managers che non ha nessuna patria e non deve rendere conto a nessuno, ma con l’idea che l’impresa ha un radicamento sociale ed ha una vocazione sociale. Nel luogo in cui fino a ieri si sono fatti profitti si può rimanere per pianificare insieme il futuro anche se da oggi i profitti sono inferiori.

 

Stefano Fontana

 

 

progetto: SoMigrafica 2009